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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: A.P. Hernández
Titolo: L'incubo di Helen
Genere Thriller Psicologico
Lettori 3688 68 64
L'incubo di Helen
Antefatto
Il bambino scese dal veicolo.
Bastò una rapida occhiata intorno a sé perché si sentisse completamente disorientato. Dov'era? Perché i suoi genitori l'avevano portato lì senza dargli alcuna spiegazione?
- Papà - disse il bambino con un filo di voce. - Cos'è questo? -
L'uomo scambiò uno sguardo con la moglie e improvvisamente i suoi occhi si inumidirono. Sapeva che non avrebbe dovuto piangere, era adesso che doveva essere forte, convinto che quella fosse la cosa migliore per suo figlio. Se sua moglie lo avesse visto dubitare, un semplice batter d'occhio fuori dal solito, avrebbe preso il bambino, lo avrebbe messo in macchina e sarebbero tornati a casa, dove avrebbero fatto finta che tutto andasse alla grande. Fingevano già da parecchio tempo. Troppo, a dire il vero. Per questo l'uomo represse le lacrime che gli erano salite agli occhi e ostentò una sicurezza che gli mancava.
- Non preoccuparti - gli disse. - Non aver paura. Nessuno ti farà niente di male. -
La madre osservava la scena tenendosi discretamente in disparte. I suoi bellissimi occhi azzurri erano nascosti dietro gli occhiali da sole. Quella mattina autunnale indossava un abito leggero con una stampa a fiori e scarpe nere col tacco. Sulla sua spalla pendeva una piccola borsa con chiusura magnetica.
All'improvviso, una folata di vento si alzò, gonfiandole il vestito come la vela di un brigantino. La donna guardò intensamente suo figlio. Sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe visto? Pensò di no, certo che no. Avrebbe potuto andarlo a trovare ogni volta che lo avesse desiderato. Il dottor Scott glielo aveva detto migliaia di volte. Ma una parte di lei, una parte che non credeva nelle parole o nell'ipocrisia, sapeva che non sarebbe stato così. Quella parte era assolutamente certa che questo non era un arrivederci, ma un addio, il più doloroso addio della sua vita. La donna non riuscì a trattenere le lacrime e le asciugò con un fazzoletto di stoffa che teneva in mano.
Per favore, controllati! pensò, riacquistando la calma. Non adesso...
Lei e suo marito ne avevano parlato la sera prima. Non potevano permettersi che il loro piccolo li vedesse piangere. Non in quel momento. La donna si alzò e guardò dritto davanti a sé, implorando che tutto questo finisse il prima possibile.
La forte corrente d'aria cambiò direzione e scivolò giù per il pendio del bosco. Le cime degli alberi danzarono all'unisono.
- Figlio, ascoltami con attenzione - l'uomo si inginocchiò accanto al bambino e lo baciò sulla fronte. La sua pelle era fredda e sudata. - Non è facile per me e la mamma... -
- Che cosa non è facile? - chiese il bambino.
- ...ma devi sapere che ti vogliamo bene - continuò l'uomo, facendo finta di non aver sentito. Doveva porre fine a questo momento. Non voleva renderlo più doloroso di quanto fosse. - Spesso i genitori devono prendere decisioni difficili e... -
- Mamma! - gridò il piccolo, vedendosi riflesso nel vetro scuro dei suoi occhiali. - Che succede? Mamma! -
- Ascoltami bene! - esclamò l'uomo, indurendo il tono della voce.
- Perché non mi rispondi, mamma? - insisté il bambino.
L'uomo, infuriato, prese suo figlio per le spalle e lo scosse con violenza.
- Dannazione! - ruggì. - Vuoi prestarmi un po' d'attenzione? -
Il bambino distolse lo sguardo dalla statua di sua madre e guardò l'enorme testa di suo padre. Era arrabbiato.
- Voglio che tu tenga questo, ok? - continuò, estraendo una scatola dalla tasca della giacca. Era rettangolare, di legno di pino. Sulla sua superficie era inciso un cuore e al suo interno c'erano le parole “Per sempre”. Con mani tremanti gliela diede. - Nascondi questa... Non mostrarla a nessuno, succeda quel che succeda... A nessuno! Capito? -
Il bambino non rispose, ma rimase immobile. Non poteva essere vero. In qualsiasi momento sarebbe suonata la sveglia e lui si sarebbe trovato nel suo letto. Sarebbe stato sabato e avrebbe passato l'intera giornata a giocare ai videogiochi. Quando l'orologio avrebbe segnato le due e i rintocchi delle campane avrebbero fatto il loro lavoro, sua madre lo avrebbe chiamato per mangiare:
- Il pranzo è pronto - avrebbe detto.
Lui avrebbe schiacciato il pulsante PAUSA e sarebbe corso prima che si raffreddasse. Sì. Era chiaro che tutto questo non era vero. Era solo un sogno. L'incubo più strano che avesse mai avuto.
- Ho fatto una domanda! -
- Sì, papà - disse alla fine. - Ho capito - .
Una lacrima gli scivolò lungo la guancia. Dopotutto, potrebbe non essere un sogno...
L'uomo si alzò, baciò di nuovo suo figlio e fece un gesto con la mano all'uomo che stava aspettando sulla scalinata. L'interpellato annuì e scese le scale.
- Molto bene - disse alla coppia, mettendo una mano sulla spalla del ragazzo. - Come ci siamo già detti per telefono, non avete nulla di cui preoccuparvi. Il nostro centro ha i mezzi più avanzati. Il vostro bambino sarà tra i migliori professionisti - .
Il padre aprì la portiera della macchina e toccò sua moglie, incoraggiandola a salire.
- Andiamo tesoro - sussurrò. - Abbiamo fatto la cosa giusta... Non avevamo altra scelta. -
Lei trascinò i piedi senza troppa convinzione, assorta nei suoi acidi soliloqui. Quando salì in macchina, l'uomo chiuse la portiera e si rivolse all'uomo in camice bianco.
- Tenga, questo è per lei - gli disse. - Veda di non far mancar niente a mio figlio. -
Dalla tasca dei jeans estrasse una busta gialla.
- Non si preoccupi! - assicurò l'altro, prendendo la busta con un gesto veloce. Le sue dita scivolarono tra le banconote che erano all'interno, avide, con l'agilità di un banchiere. - Mi assicurerò personalmente che stia bene come a casa. -
L'uomo in camice bianco attirò il bambino verso di sé con un gesto che allo stesso tempo ispirava fiducia ma anche profondo timore.
Dopo aver guardato per l'ultima volta suo figlio, l'uomo salì in macchina.
Poco dopo, il veicolo scomparve.

Parte prima
Capitolo 1

Rose ammonì sua figlia: - Non pensarci nemmeno di alzare la voce! - .
Helen, che non si sarebbe arresa tanto facilmente, la guardò con sarcasmo e abbozzò un sorriso di sfida. Poi, per chiarire la sua posizione, incrociò le braccia.
- Faccio quello che voglio - ribatté. - Chi sei tu per darmi ordini? -
Litigavano da più di dieci minuti e Rose era esasperata. Era sempre stata una donna paziente, ma sua figlia di quindici anni riusciva a essere molto insolente.
- Sono tua madre, lo capisci? E credimi quando ti dico che so cos'è meglio per te. -
- Che ne sai tu? - scattò la ragazza. - Sei una vecchia bisbetica. -
Rose rimase incredula.
- Come mi hai chiamato? -
- Mi hai sentito - Helen si avvicinò a sua madre finché solo pochi centimetri le separavano. - Sei una vecchia bisbetica! -
- Ritira subito quello che hai detto. -
- No! -
- Ritiralo - insisté la madre.
- Mai e poi mai! - .
Erano passati un paio d'anni da quando Rose e Carl, il suo ex marito, avevano divorziato. Non era stato facile lasciarlo, dopotutto, erano sposati da più di vent'anni. Così che Rose, riluttante alla separazione, aveva dato a Carl tutte le opportunità di cui un uomo potesse aver bisogno per farsi perdonare. Ma tutto era stato vano. Gli anni non lo avevano cambiato.
Era in momenti come questo che desiderava avere un uomo al suo fianco. Una figura paterna che avrebbe zittito le urla della figlia adolescente.
- Sai cosa ti dico? - non c'era rabbia nella sua voce, ma tristezza. - Sono stanca. -
- Stanca di cosa? - la sfidò Helen.
- Di continuare questa conversazione. Vai subito in camera tua. Stasera resterai senza cena. -
Helen conosceva la sua vecchia abbastanza bene da sapere quando parlava sul serio. Stanca di combattere, Helen si voltò e si diresse verso le scale. Salì al piano superiore calpestando rumorosamente ogni gradino e, una volta raggiunta la sua stanza, si chiuse la porta alle spalle con un forte botto.
Rose si lasciò cadere sul divano e fece un respiro profondo. Il cuore le batteva forte e le sue mani tremavano. Perché sua figlia si comportava in quel modo? Perché era cambiata così tanto negli ultimi mesi? Era forse una cattiva madre?
Rose allungò una mano alla borsetta, che era appoggiata su un tavolo di vetro rotondo, e tirò fuori un pacchetto di sigarette e un accendino. Ne mise una all'angolo delle labbra e l'accese. Fece una grande boccata e, per un momento, riuscì a fuggire dal mondo e lasciare la mente vuota.
Così va meglio pensò. Molto meglio...
Inalò altre tre boccate e l'ansia si placò. Rose spense ciò che restava della sigaretta nel posacenere. Notò i contorni sinuosi delle ultime volute di fumo, come ballerine che stavano per finire lo spettacolo.

***

Quando chiuse la porta della sua stanza, Helen si sdraiò sul letto.
Con niente di meglio su cui concentrarsi, fissò il poster di Kevin Stahl. Era il ragazzo alla moda tra le adolescenti e qualunque ragazza aveva almeno una sua foto.
Sul poster, Kevin indossava alcuni abiti leggeri e fissava con i suoi penetranti occhi verdi la telecamera. Inoltre, le sue labbra si aprivano in un sorriso sensuale.
Helen fantasticò un po', immaginandosi tra le braccia di quell'uomo, mentre gli appoggiava la testa sugli addominali muscolosi.
Perché sua madre si ostinava a renderle la vita impossibile? Perché non si stancava mai di contraddirla?
Lei fumava da più di trent'anni e ora aveva avuto la sfacciataggine di sgridarla perché aveva fumato una sigaretta. Come ha potuto avere così tanta faccia tosta? Quello che faceva non erano affari di quella vecchia bisbetica.
Aveva già quindici anni e sua madre la trattava ancora come se fosse una bambina. Questo le faceva perdere le staffe.
Infuriata, si alzò dal letto e andò alla stereo che era vicino al poster. Lo accese e mise un CD di musica pop.
Si calmò quando sentì le chitarre elettriche e la voce rauca del cantante. Helen guardò l'orologio che era appoggiato sul suo armadio e verificò con stupore che era già mezzanotte passata. Si spogliò e indossò il suo caldo pigiama. Pensò che era troppo infantile per lei, ma estremamente comodo. Sui pantaloni c'erano disegni di gattini che giocavano con gomitoli di lana.
Cercando di ignorare il brontolio del suo stomaco, che pretendeva con insistenza qualcosa da mangiare, si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi.
Domani sarà una giornata molto lunga pensò.
L'ultima cosa che Helen sentì prima di arrendersi al sonno fu la voce rauca del cantante pop, che diceva: - Faccio quello che voglio. Sì, sì. Vado a divertirmi. Sì, sì... - .

Capitolo 2

Craig, come ogni mattina, aspettava Helen per andare al liceo.
Il tragitto era di soli trecento metri, ma non aveva intenzione di perdere l'unica occasione che aveva di parlare con lei. Sfortunatamente, sebbene frequentassero lo stesso corso, appartenevano a classi diverse. Craig era follemente innamorato di quella ragazza e il solo fatto di camminare accanto a lei era una benedizione.
Quella mattina faceva freddo e Craig si copriva il collo con una sciarpa granata che sua nonna gli aveva regalato per Natale. Gli inverni a Worte erano sempre freddi e, per fortuna, il peggio era già passato. Anche così, le ultime tracce di neve accumulate sui tetti delle case, erano riluttanti a scomparire. Craig si sistemò la calda sciarpa di lana, impedendo al vento di penetrare attraverso di essa. Dovette fare un grande sforzo per trattenersi e impedire ai denti di iniziare a battere. Helen poteva uscire da un momento all'altro e non voleva che lo vedesse rabbrividire come un bambino.
Per favore, quanto tempo ci vorrà ancora? pensò, tendendo tutti i muscoli del suo corpo. Sto congelando.
Raffiche d'aria gelida lo frustarono più forte, perforandogli i vestiti.
Proprio mentre Craig stava per girarsi e andare da solo a scuola, la porta di casa di Helen si aprì e lei apparve.
Portava lo zaino appeso alla spalla destra – com'era di moda – e i suoi capelli svolazzavano come una bandiera di rame.
- Buongiorno, Helen - la salutò.
Era così impaziente di parlare con lei che le parole si attorcigliarono, rendendole quasi incomprensibili.
Helen cominciò a camminare senza aprire bocca. Passandogli di fianco, gli lanciò un'occhiata piena di disprezzo.
- Oggi è una mattina molto fredda, non credi? -
Helen sospirò e fece un gesto di diniego con la testa. Senza degnarsi di rispondergli, continuò a camminare. Questo era esattamente ciò che Craig amava così tanto: la sua sufficienza. Mentre le altre ragazze facevano di tutto per dimostrarsi simpatiche, a Helen sembrava non importare nulla. Era come se irradiasse una specie di forza invisibile, qualcosa che lo trascinava e contro cui non poteva combattere.
- Helen, ho pensato a qualcosa che potrebbe interessarti - Craig allungò una mano nel suo zaino e tirò fuori un foglio meticolosamente piegato.
- Guarda! - Craig posò il foglio davanti al viso della ragazza, ma lei distolse lo sguardo. - Vedi, il prossimo fine settimana aprirà qui, a un paio di isolati da casa tua, il primo club di giovani lettori di Worte. Non è fantastico? È un'opportunità favolosa per condividere idee e impressioni su... -

***

Perché?pensò Helen mentre quel rompiscatole continuava a parlare. Perché devo sopportarlo ogni mattina?
Helen aveva provato tutti i metodi esistenti per sfuggire a quello scocciatore, ma nessuno aveva funzionato.
Le prime settimane si era limitata a dialogare attraverso monosillabi; le successive attraverso grugniti e le ultime provò a non degnarlo neanche di uno sguardo. Ma, nonostante tutto, eccolo lì. Perché continuava a insistere?
Era vero che la strada per il liceo era poca, ma non sopportava quel ragazzo. Preferiva camminare in silenzio, ascoltando l'ululato del vento.
- ... potremmo conoscere giovani della nostra età con le stesse preoccupazioni letterarie che no... -
Quello era troppo. Helen, non trattenendosi più, si fermò di botto e lo trafisse con i suoi penetranti occhi castani.
- Ascoltami, ragazzino - lo affrontò, piena di rabbia. - Mi hai stufato. Lo sai? Stufato! Non voglio mai più parlare con te. Hai capito? Non voglio vederti mai più nella mia vita. Vattene! -
A Helen sembrò di cogliere nello sguardo del giovane un bagliore di timore reverenziale e profonda tristezza.
- Ma è un club di lettura selezionato - insisté, incapace di capire che lei non aveva nessun interesse per tale opportunità.
- Non me ne frega un cazzo! - gli gridò. - Dimenticati di me! -

***

Dopo essersi liberata di Craig, Helen continuò a camminare.
Aveva troppe cose in testa e tutte si sovrapponevano, creandole un sacco di stress e incertezza.
Tentò di calmarsi e analizzare quello che la preoccupava.
Da un lato, erano diversi giorni che andava a scuola senza aver fatto i compiti. Non che questo le creasse alcun disagio, ma il professore l'aveva avvertita che, se avesse continuato così, avrebbe parlato con sua madre per informarla.
D'altra parte, si rifiutava di toccare un libro. Neanche questo la disturbava, perché aveva scoperto quanto fosse gratificante passare l'intera giornata a non fare nulla. Il problema era, ancora una volta, nel possibile rimprovero di sua madre.
Helen temeva che Rose l'avrebbe punita proibendole di uscire con i suoi amici, che l'avrebbe chiusa nella sua stanza come una principessa in un castello.
Mentre si avvicinava a scuola, una strana sensazione si impadronì di lei, una sensazione mai provata prima. Helen sapeva benissimo cosa fosse: aveva bisogno di una sigaretta.
Con gesto esperto, inclinò lo zaino sul petto, aprì la cerniera ed estrasse un pacchetto di sigarette dall'interno. Prese una sigaretta, l'accese e fece qualche boccata.
Helen si sorprese, dato che fumava solo da un paio di settimane. La prima sigaretta che aveva provato le era stata offerta da Richard, uno dei suoi amici. Ricordava che, quando aveva inalato la prima boccata, quasi aveva vomitato per il disgusto.
- Mio Dio! - esclamò, tossendo. - È schifoso. -
Richard rise di gusto, mentre Helen si chiedeva cosa ci fosse di così divertente.
- Ti ci abituerai - le disse, dandole una pacca sulla spalla.
Le successive le fumò per non fare brutta figura davanti al suo gruppo di amici. Erano tutti fumatori e Helen non voleva essere messa da parte, poiché erano gli unici amici che aveva. Fumare era diventato per lei un medoto di inclusione sociale, una forma per sentirsi integrata nel gruppo.
Per questo, ora non poteva far altro che sorprendersi. Fumava per piacere! Come poteva provare piacere in qualcosa che la faceva quasi vomitare?
- Ti ci abituerai - le aveva detto Richard.
Comunque sia, Helen decise di non continuare a pensare alla questione. Aveva cose più importanti su cui concentrarsi.
All'improvviso, si ritrovò davanti la scuola, come per magia.
Helen gettò a terra il mozzicone di sigaretta e lo calpestò con la punta della scarpa.

***


Il professor Erwin aveva già iniziato a spiegare.
- Qualcuno di voi sa chi era Cervantes? -
Silenzio.
- Forza ragazzi, non siate timidi. Chi era Miguel de Cervantes Saavedra? -
Dopo alcuni secondi di tensione, Elton, il secchione della classe, alzò la mano.
- Molto bene, Elton. Illuminaci con la tua cultura. -
L'ironia di Erwin era abituale, non che la usasse per prendere in giro i suoi studenti, ma la usava come una risorsa per ravvivare le sue lezioni e renderle più divertenti.
Elton si mise il dito indice sul mento e si accarezzò la rada barba con un gesto di mistica saggezza. Dopo aver meditato molto, disse: - Penso che fosse zoppo... o qualcosa del genere - .
Erwin mostrò il suo miglior sorriso e si portò una mano alla tempia.
- Mio Dio! - esclamò, senza smettere di sorridere. - Mio Dio! -
Stanley, il secondo più secchione dopo Elton, alzò la mano, desideroso di intervenire anche lui.
- Vai, Stanley. Raccontaci qualcosa di Cervantes! - .
- Penso che il nostro compagno si stia confondendo - la faccia di Erwin si illuminò, illuso. - Cervantes non era zoppo, ma strabico. -
Il professor Erwin dovette fare uno sforzo soprannaturale per contenersi e non scoppiare a ridere di fronte ai suoi studenti. Sebbene la loro ignoranza lo meritasse, non era professionale per un insegnante.
- Miei cari studenti, vi state sbagliando tutti. - i ragazzi si scambiarono sguardi di stupore. - Miguel de Cervantes Saavedra non era zoppo, né strabico... né sterile. -
Risate.
Il professor Erwin aveva circa trent'anni, aveva una dentatura perfetta, gli occhi castani e andava a lavorare ben vestito. Quella mattina indossava una giacca marrone e un maglione a rombi. Al polso sinistro portava un elegante orologio che gli dava un'aria virile.
Nonostante la sua età e il fatto che fosse sposato, le sue studentesse non potevano fare a meno di essere interessate al signor Erwin. Era un uomo bello, colto, maturo e, come se ciò non bastasse, conosceva tutte le poesie di Shakespeare. In più di un'occasione Helen e le sue amiche avevano scherzato su come avrebbe reagito se qualcuna di loro avesse provato a flirtare con lui.
- Miei cari studenti - proseguì, - Cervantes era monco, perché aveva perso gran parte della mobilità del braccio sinistro in conseguenza a uno sparo. È successo nella battaglia di Lepanto, motivo per cui è noto come “il monco di Lepanto”. -
- Ecco, questo! - disse Elton schioccando le dita.
- Ma questo è insignificante. Ciò che deve interessare a voi è la sua produzione letteraria. Cervantes è stato uno dei migliori romanzieri, drammaturghi e poeti al mondo. Fu lui a scrivere L'ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia. -
Proprio in quel momento Helen entrò in classe.
Il professor Erwin smise di parlare e in classe scese un silenzio di tomba. Tutti gli occhi si posarono su Helen che, resasi conto della situazione, si sentì in imbarazzo.
- Oh, ecco chi c'è... - la salutò Erwin, ironicamente. - Ma è la nostra bella addormentata! -
Accanto alla porta e senza osare muovere un solo muscolo, Helen si imbarazzò Erwin poteva anche essere molto attraente, ma ciò non gli dava il diritto di ridicolizzarla di fronte ai suoi compagni. Senza poter farci niente, Helen sentì le guance arrossire.
- Signorina Helen, sai per caso che ore sono? -
Helen scosse semplicemente la testa, senza nemmeno osare guardarlo negli occhi.
Cavolo pensò. Perché non sono rimasta a letto?
- Beh, penso che ti piacerebbe sapere che la mia spiegazione è iniziata più di mezz'ora fa - Helen strinse i pugni, contenendo la rabbia. Era arrivata in ritardo più di quanto avrebbe voluto. - Fammi il piacere di sederti al tuo posto. Quando finisce la lezione, voglio parlarti. -

***

Per quanto ci provasse, Helen non riusciva a prestare attenzione a Erwin. L'aveva trattata come una stupida davanti ai suoi compagni di classe e, peggio ancora, lei non aveva reagito. Avrebbe potuto inventare qualsiasi scusa: che si era addormentata, che aveva dimenticato un libro e che aveva dovuto tornare a casa a riprenderlo, che era caduta lungo la strada e si era fatta male alla gamba... Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio del suo silenzio!
Come se ciò non bastasse, il professor Erwin sembrava aver percepito l'assenza di Helen e le fece una domanda per essere sicuro del suo disinteresse.
- Helen, visto che sei molto attenta, potresti dirci quando è morto Cervantes? - quando finì di formulare la domanda, le rivolse un sorriso.
- L'1 marzo? - i suoi compagni di classe iniziarono a ridere. Helen si sentì a disagio per essere diventata il motivo dell'ilarità della classe. Perché non la lasciavano tranquilla?

***

Quando la lezione finì e tutti i suoi compagni di classe se ne furono andati, Helen si diresse alla cattedra di Erwin. Il professore stava mettendo i fogli in un classificatore nero e stava riordinando i suoi libri in una pila perfetta.
- Sai? Non capirò mai gli italiani - disse guardando la sua torretta di libri. - Sono stati bravi a costruire una torre inclinata. -
Come faceva la maggior parte delle volte, iniziò a ridere della sua battuta. Helen non capiva dove fosse la battuta.
- Voleva parlarmi? - gli chiese, desiderando di andarsene il più presto possibile.
Erwin mise da parte i suoi documenti e la guardò con i suoi begli occhi. Le luci fluorescenti dell'aula si riflettevano nelle sue pupille, lampeggiando come il riflesso della luna sul mare. Per un momento, Helen riuscì a vedere dietro quegli occhi e contemplò l'anima di un uomo sensibile e colto.
- Hai ragione, voglio parlare con te. La verità è che volevo farlo da diverse settimane - Erwin si sedette sulla sedia con un sospiro. - Helen, mi fai preoccupare. Non so cosa ti stia succedendo. -
- Non mi sta succedendo niente - si difese lei.
Erwin contrasse le labbra in quello che sembrava essere un sorriso.
- Sei sempre stata una brava studentessa, Helen, ma ultimamente vieni a malapena a lezione, sei in ritardo, non fai i compiti... C'è qualcosa che vuoi dirmi? -
- Certo che no! - sbottò con ostilità. Ma chi pensava di essere? Suo padre? I suoi problemi non erano affari di nessuno, tanto meno di uno stupido insegnante!
Erwin annuì, rendendosi conto che la conversazione era finita.
- Come vuoi. -
Helen si voltò e lasciò l'aula.

Capitolo 3

Craig non si sarebbe arreso facilmente. Se c'era qualcosa che gli avevano insegnato gli scacchi era che, per quanto la situazione fosse brutta, c'era sempre una combinazione sorprendente che poteva portarti alla vittoria.
Spesso, per vincere, dovevi sacrificare pedoni, cavalli, alfieri, torri o persino la stessa regina. Ma nulla importava se alla fine riuscivi a dare scacco matto.
Come faceva sempre davanti a una scacchiera, Craig analizzò la situazione: era chiaro che la sua priorità in quel momento era guadagnarsi l'amicizia di Helen, ma lei gli aveva detto chiaramente di non farsi più vedere. Questo era un grosso problema. È impossibile fare amicizia se i possibili amici non vogliono parlare con te.
- Dev'esserci qualcosa che posso fare - si disse ad alta voce. - C'è sempre una combinazione. -
Craig era tornato dal liceo ed era nella sua stanza. Nonostante i suoi quindici anni, la sua camera non sembrava quella di un adolescente. Aveva il letto fatto senza neanche una piega nella trapunta e la sua scrivania era pulita e aveva solo una lampada da tavolo posta in un angolo. Inoltre, al posto dei soliti poster di ragazze sensuali e mezze svestite, Craig aveva delle foto di paesaggi. La sua preferita era un acquerello con raffigurato un paesaggio piovoso. La pioggia cadeva copiosamente, confondendo le montagne sullo sfondo in una bella combinazione di viola e ocra.
Accanto alla finestra c'era un acquario dove nuotavano pesci tropicali. Craig si prendeva cura di loro, assicurandosi ogni mattina che il pH dell'acqua fosse neutro e la temperatura a 25 °C. Aveva una decina di pesci, che nuotavano come bagliori di un arcobaleno.
Pensa, Craig, pensa si disse.
Craig si alzò dalla scrivania e fece il giro della stanza, meditando. A volte, camminare lo aiutava a pensare meglio. Fece almeno cinque giri della stanza, tormentandosi il cervello.
Deve esserci un modo pensò. C'è sempre.
All'improvviso, gli venne un'idea.
Craig guardò la sua immagine allo specchio accanto all'acquario. Aveva i capelli castani, spiaccicati e spettinati e occhiali rotondi. Inoltre, la sua fronte e le sue guance erano piene di piccoli brufoli che potevano tener lontano qualsiasi ragazza. Craig capì allora perché Helen non voleva vederlo. Per il suo aspetto fisico!
Helen era una ragazza alla moda che parlava con ragazzi alla moda di argomenti alla moda, era comprensibile che non volesse avere amici come lui. La prima cosa che avrebbe dovuto fare era scoprire quali erano le cose alla moda che piacevano alle ragazze e provare a condividere questi interessi con Helen. Lei avrebbe dovuto vederlo come un collega e non come un topo da laboratorio.
In secondo luogo, pensava che sarebbe stato interessante osservare il tipo di amicizie con cui Helen si trovava. Craig pensò di imitarli il più possibile. Era disposto a cambiare completamente per guadagnare la sua amicizia.
Incoraggiato dalla sua brillante idea, contemplò il suo riflesso per l'ultima volta. Quindi si tolse gli occhiali e li mise in un cassetto.

***

Carol cucinava costolette di agnello in padella. Intanto tagliava pomodori, lattuga e carote per l'insalata mentre estraeva le patate dalla friggitrice. Dopo vent'anni passati in cucina, Carol era come un prestigiatore. Non aveva niente da invidiare ai trapezisti del circo.
- Craig, il pranzo è pronto! -
Sapendo che suo figlio avrebbe impiegato un paio di minuti per lavarsi le mani e scendere a mangiare, Carol approfittò per distribuire le costolette e le patate in due piatti e condire l'insalata. Sapeva che non era un pasto molto salutare, ma il suo lavoro le impediva di passare più tempo in cucina.
Quando Craig si sedette a tavola, sua madre lo guardò stupita.
- Craig, dove hai messo gli occhiali? -
Craig non era mai stato bravo a mentire, tanto meno a sua madre. Fino ad allora non aveva avuto segreti con lei. Ma per qualche motivo, decise che era troppo grande per dirle tutto.
Tutti gli uomini hanno i loro segreti pensò.
Craig prese alcune patate e se le mise in bocca. Dopo averle masticate, disse: - Mi dispiace mamma, penso di averli persi - .
Carol rimase sorpresa. Se c'era una parola per definire suo figlio, quella era ordine. Nei suoi quindici anni il suo piccolo non aveva perso nemmeno Bobo, un orsacchiotto che gli era stato regalato alla nascita. Craig conservava come una reliquia qualsiasi cosa, per quanto insignificante potesse essere.
- Beh... non preoccuparti. Una svista capita a tutti - gli disse Carol, non dando importanza alla cosa. - Domani andremo dall'ottico e ne compreremo di nuovi. -
Due minuti dopo, Craig si alzò dalla tavola.
- Hai già finito? - gli chiese Carol, sorpresa. - Hai a malapena assaggiato l'insalata! -
- No, torno subito. -
Craig lasciò la sala da pranzo e si diresse in cucina. Lì, sul piano di lavoro in marmo, c'era il telecomando del televisore. Lo prese e tornò a tavola, fischiettando distrattamente. Si sedette, puntò il telecomando al televisore e premette il pulsante ON. Lo schermo si accese e apparve una donna che leggeva le previsioni del tempo per il giorno successivo.
- Cielo sereno in tutta la parte settentrionale del Paese con possibilità di rovesci nella regione di Ritlew - nella mano sinistra teneva una penna che usava come indicatore. La punta indicava una nuvola arrotondata che copriva parzialmente i raggi di un sole arancione. - Per quanto riguarda il sud, la presenza di forti venti da est continuerà a causare basse temperature e... -
Craig premette il pulsante “più” e la donna scomparve. Carol osservava suo figlio con un pizzico di inquietudine. Che cosa stava facendo? Se non ricordava male, quella era la prima volta nella sua vita che andava a prendere il telecomando della TV mentre mangiavano. Di solito, si scambiavano impressioni su come era andata la giornata. Lei gli raccontava piccoli aneddoti sul suo lavoro e poi lui commentava i momenti più significativi che erano successi in classe.
Craig, senza dire nulla, iniziò a fare zapping, saltando da un canale all'altro senza fermarsi neanche un secondo. Alla fine, ne scelse uno in cui si sentivano risate in sottofondo.
Carol era, quanto meno, senza parole.
- Ma... Cos'è che hai messo? -
Craig si strinse nelle spalle e prese un'altra patata.
- Non lo so... ma sembra interessante. -
Sullo schermo apparvero un uomo e una donna. Carol suppose che dovessero essere sposati. Entrambi erano seduti sul divano, guardando dritto in avanti con uno sguardo vuoto. Lui aveva le mani incrociate sulla pancia rotonda, lei si stava limando le unghie. Ebbero la seguente conversazione:


- Ciao - disse il marito.
- Ciao - rispose la donna.
Risate in sottofondo.
- Hai voglia di fare qualcosa? -
- No. -
Risate in sottofondo.
- Bene, allora vado in bagno - la informò l'uomo.
La donna scrollò le spalle.
Risate in sottofondo.


Dopo aver ascoltato gli scarsi quindici secondi di conversazione, Carol mise il palmo della mano sulla fronte di suo figlio.
- Va tutto bene? - gli chiese. - Hai la febbre? -
- Sto bene - rispose Craig, assorto.
Carol aveva appena mezz'ora per mangiare e tornare al lavoro, quindi decise di non indagare oltre sull'improvviso cambiamento di comportamento di suo figlio.
Passerà pensò.

Capitolo 4

L'orologio da parete segnava le undici di sera e sgranava i suoi secondi con freddezza implacabile. La lancetta dei secondi si muoveva lentamente, come se fosse di piombo. Il silenzio era rotto solo dal ticchettio del pendolo, che oscillava a un ritmo vertiginoso.
Helen trangugiava la sua pizza congelata senza distogliere lo sguardo da Rose, sua madre. Questa, a sua volta, le restituiva lo sguardo con espressione cupa.
Dalla discussione della sera precedente, non si erano più rivolte la parola. Helen si ricordò che l'aveva definita “vecchia bisbetica” e che le aveva urlato contro con un tono che nessun figlio dovrebbe usare. In fondo, Helen non voleva far soffrire sua madre, ma si rifiutava di scusarsi. Rose le aveva dato una bella lavata di capo perché aveva scoperto un pacchetto di sigarette nel suo zaino. La prima cosa che Helen non capiva era perché sua madre stesse frugando tra le sue cose e la seconda, chi era lei per rinfacciarle qualcosa? Rose fumava da molti anni e Helen pensava che una madre dovrebbe dare l'esempio attraverso le sue azioni. Aveva tutto il diritto del mondo di essere incazzata!
- Allora? - disse Rose, rompendo il silenzio. - Pensi di passare tutta la vita senza rivolgermi la parola? -
Helen dovette fare un grande sforzo per reprimere un sorriso. Ce l'aveva fatta! Sua madre non ne aveva potuto più e aveva rotto il silenzio. Mentalmente si aggiunse un'altra vittoria alla lista.
Fingendo indifferenza, Helen scrollò le spalle. Si sporse sul tavolo e allungò la mano per prendere l'ultima fetta di pizza. Il formaggio fuso scivolò come un elastico sbrindellato.
- Cara, sai quanto ti ho sempre voluto bene - gli occhi di Rose divennero lucidi. - Per Dio, darei la mia vita per te! -
Helen non poteva essere più felice. Non solo aveva vinto la battaglia del silenzio, ma anche la guerra dell'orgoglio. A volte sua madre cadeva in pezzi, sbriciolandosi come un castello di carte. Soddisfatta di se stessa, prese un boccone di pizza e assaporò il momento.
- Non sopporto questa situazione - una lacrima le scivolò lungo la guancia finché non le sfiorò le labbra, che si contrassero in un sorriso amaro. - Per favore, Helen, tutto quello che faccio è per il tuo bene. Non provare rancore nei miei confronti. -
Come se la donna davanti a lei non fosse altro che un prodotto della sua immaginazione, Helen finì il suo pezzo di pizza in assoluto silenzio. Quando ebbe deglutito l'ultimo boccone, si alzò di scatto, scostando la sedia rumorosamente.
- Sai cosa ti dico? - le disse, rivolgendosi a lei per la prima volta dopo 24 ore. - Che sei una cattiva madre! -
Rose si sentì svenire. Perché le diceva così? Non si rendeva conto di quanto avesse sacrificato per lei? Helen le aveva spezzato il cuore e aveva sgretolato tutto ciò per cui aveva combattuto.
All'improvviso, Rose sentì le forze abbandonarla. Non voleva affrontare di nuovo sua figlia, ma rinchiudersi e piangere fino a quando non avrebbe disidratato il suo dolore.
- Mi hai sentito - insisté Helen salendo le scale. - Sei una cattiva madre! Se fumo, non sono affari tuoi. Lo capisci? Sono grande per fare quello che voglio. -

***

Helen chiuse la porta della sua stanza con un botto tremendo. Odiava sempre di più la sua vecchia. Desiderava compiere diciotto anni e uscire di casa una volta per tutte, vivere in modo indipendente. Voleva solo che gli altri la vedessero come un'adulta, che la trattassero come una donna responsabile. Era chiedere troppo?
Frustrata, Helen si buttò sul letto. Doveva dimostrare a sua madre che non era una bambina e che meritava un trattamento adeguato alla sua età. Mentre pensava a come guadagnarsi il rispetto, aprì il primo cassetto del comodino e prese un pacchetto di sigarette, ma era vuoto.
- Cazzo! - esclamò, accartocciando il pacchetto e gettandolo nel cestino. - Dovrò comprarne di più! -
Sapeva che comprare sigarette era un compito arduo per un'adolescente. Quello glielo aveva regalato Richard, che era maggiorenne e poteva fare quello che voleva. Quanto avrebbe voluto godere dei privilegi di un adulto! Un paio di settimane prima aveva provato a comprare un pacchetto da sola. Aveva finito l'ultimo e aveva chiamato Richard perché gliene desse uno, ma il suo cellulare era occupato. Helen si disse che non poteva sempre dipendere da Richard e che era ora di comportarsi come una donna, quindi si tolse le scarpe e percorse in punta di piedi il salone fino al tavolo dove sua madre aveva lasciato la borsa. L'aprì con dita tremanti e, quando prese una banconota da dieci euro, Sarà più che sufficiente! pensò, si sentì una vera ladra.
Prima di andare al negozio, Helen si tolse l'elastico e si lasciò scivolare i capelli sulle spalle. Aveva quindici anni, ma le sue amiche le avevano sempre detto che ne dimostrava di più. Quindi, quando si vide allo specchio con i capelli sciolti, fece un ampio sorriso. Sembrava una ragazza di diciotto anni. Era convinta che avrebbe comprato le sigarette senza alcun problema. Felice, uscì in strada con i dieci euro nella tasca dei jeans...
Adesso Helen affondò la nuca nel cuscino e ricordò la vergogna che aveva provato quando il commesso le aveva chiesto la carta d'identità. Helen gli aveva detto che l'aveva lasciata a casa, e gli aveva chiesto perché mai la volesse. Il commesso le aveva sorriso e le aveva risposto che non poteva vendere tabacco ai minorenni. Era illegale.
Non fa niente pensò, fissando il soffitto della sua stanza. Per ora chiederò le sigarette ai miei amici. Poi dirò a Richard che le ho finite e che ne ho bisogno di più... Me le comprerà lui!
Proprio in quel momento, il suo cellulare iniziò a suonare. Helen balzò in piedi e si avvicinò alla sua scrivania, dove il cellulare vibrava al ritmo di una canzone polifonica. Sullo schermo apparve “Richard”. Con dita nervose, Helen premette il tasto di risposta mentre lo portava all'orecchio.
- Pronto? - chiese, fingendo di ignorare l'identità di chi chiamava.
- Ciao Helen, sono Richard - sentì una voce maschile, calda e amichevole. - Come va? -
- Oh, Richard, sei tu! - Helen non stava più in sé dalla gioia. - Ma niente, ho litigato ancora con la vecchia. -
Ci fu un breve silenzio.
- Ah... -
- Perché me lo chiedi? -
Helen cercava in tutti i modi di non sembrare troppo ansiosa. Era innamorata di lui e non era facile nasconderlo. Spesso, Helen fantasticava immaginandosi sul sedile del passeggero della sua decappottabile, con il finestrino abbassato e il vento che le accarezzava i capelli.
- Te lo chiedevo perché stasera pensavo di andare al Kobla per bere qualche birra. - Helen sobbalzò, euforica. - Che ne dici, ti piacerebbe accompagnarmi? -
Helen cercò di rilassarsi. Sognava quel momento da settimane, e ora pensava di vivere un sogno.
- Per che ora sarebbe? - chiese.
- Verso le dodici. -
- A mezzanotte? - chiese, sbalordita.
- Sì, sì... certo. -
Helen non era mai uscita a quell'ora. Normalmente, andava al cinema con le sue amiche o in pizzeria. Prima di tornare a casa, facevano una passeggiata nel parco. Poi, ognuna tornava a casa sua, sempre prima delle undici.
Richard, dall'altra parte della linea, colse la sua indecisione.
- Helen, ci sei ancora? -
- Sì, sì - esitò.
- Beh, che ne dici? -
Per un momento, Helen fu disposta a rispondergli di no, a dirgli che le dispiaceva e inventare qualche scusa. Ma poi pensò che se voleva che sua madre la trattasse come un'adulta, doveva comportarsi come tale. Le vere donne non tornavano a casa alle undici, ma quando ne avevano voglia.
- Certo! - si sentì dire. - Conta su di me! -
- Bene, passo a prenderti? -
- No, no, è meglio che ci incontriamo direttamente al bar. Ok? -
Sebbene fosse contenta che Richard andasse a casa sua espressamente per prenderla, non voleva che sua madre lo scoprisse. Non poteva attirare la sua attenzione.
- D'accordo così. -
Richard riappese. Helen non riuscì a salutarlo.

***

Mancavano pochi minuti a mezzanotte e Helen non sapeva quale vestito indossare. Non aveva una gran varietà tra cui scegliere, ma voleva essere affascinante. Era la prima volta che usciva con Richard e voleva lasciarlo senza parole.
Aveva messo tre abiti sul letto. Erano quelli che le piacevano di più, ma non riusciva a decidersi. Uno di questi era nero, banale, ma con una grande scollatura. Il secondo era più giovanile, azzurro e con la gonna al ginocchio. Il terzo era un semplice abito da festa per giovani con fiori stampati che Helen aveva usato per il battesimo di suo cuginetto.
Dopo averci pensato molto, scelse quello con la scollatura.
Una volta vestita, Helen si guardò allo specchio di profilo. Sorrise, soddisfatta della sua figura.
Quando mi vedrà, rimarrà a bocca aperta.
Helen guardò l'orologio digitale sul comodino. Erano le 23.54! Rapidamente, prese le scarpe col tacco con la mano sinistra e, con la destra, aprì la porta. Scese le scale, posando delicatamente i piedi nudi, cercando di fare il minor rumore possibile. Quando raggiunse il piano terra, sentì il mormorio della televisione. Trattenendo il respiro, si diresse verso la porta d'ingresso, implorando che sua madre non fosse sveglia. Attraversò la sala da pranzo in punta di piedi, silenziosa come una farfalla. Respirò sollevata nel vedere che sua madre stava dormendo. Era sdraiata sul divano, raggomitolata come un animaletto in una notte fredda e tempestosa. La TV era accesa e lo schermo le illuminava il viso con pallidi lampi. Senza distogliere lo sguardo da sua madre, Helen afferrò la maniglia della porta e la girò. Si sentì un piccolo rumore quando aprì il chiavistello, ma sua madre non se ne accorse. Aveva gli occhi chiusi e il respiro lento e cadenzato indicava che dormiva profondamente.
Helen varcò la soglia dell'ingresso.
Ce l'ho fatta! si disse trionfante. Non ha sentito!
Una volta fuori, Helen si mise le scarpe col tacco e chiuse la porta con cautela. Se tutto fosse andato bene, sarebbe stata al Kobla con Richard, si sarebbero divertiti e sarebbe tornata a casa prima che Rose si svegliasse per andare al lavoro...
Helen s'incamminò. C'era vento e si pentì di non aver scelto un altro vestito, uno più appropriato per quella temperatura o una giacca con cui coprirsi le spalle.
L'ultima cosa che pensò fu che quella era una notte molto fredda. Poi, camminò senza più compagnia se non quella delle stelle.

Capitolo 5

Craig aveva portato Sauron, il suo barboncino, a fare una passeggiata.
Craig, in onore del suo scrittore preferito J. R. R. Tolkien lo aveva battezzato come il principale antagonista de Il Signore degli Anelli, l'Oscuro Signore.
Il cane correva per le strade deserte, annusando i lampioni migliori per alzare la zampa. Come un esperto degustatore di vini che avrebbe dovuto assegnare il primo premio, Sauron li annusava con grande attenzione. Il cane aveva insistito per uscire a fare una passeggiata. Come sempre, prendeva il suo guinzaglio in bocca e lo metteva ai piedi del suo padrone. Poi cominciava a muovere la coda e ad abbaiare.
La luna spuntava, con la sua enorme testa d'argento, tra le nuvole, accompagnata da migliaia di stelle che scintillavano in silenzio, come cullate dal mare. Era sicuramente una notte fredda. Raffiche di vento frustavano il viso di Craig, facendogli battere i denti. Nonostante il maglione e il cappotto che indossava, sentiva i peli rizzarsi.
- Sauron, torniamo a casa - gli disse, rabbrividendo.
L'animale sembrò capirlo e si girò per tornare.
Craig ringraziò il suo cane per il suo ottimo senso dell'orientamento, poiché da quando si era tolto gli occhiali, aveva la vista offuscata. Tutte le case assomigliavano alla sua e non sarebbe stato sorpreso se avesse suonato al vicino. Gli bruciavano gli occhi, affaticati dallo sforzo. Craig se li sfregò con i pugni.
All'improvviso, apparve una donna. Craig non l'avrebbe notata se non fosse stato perché era l'unica persona che aveva incontrato. Sauron, sorpreso dalla sua presenza, inclinò la testa per guardarla. La donna non doveva avere più di vent'anni e, a giudicare dal modo frettoloso con cui camminava, doveva avere fretta. Tacchi enormi martellavano il silenzio della notte. Craig pensò che probabilmente aveva molta esperienza a camminare con i tacchi, dato che sua madre, nelle poche occasioni in cui li aveva messi, era rimasta a malapena in piedi. La donna aveva i capelli scuri e indossava un abito nero con un'ampia scollatura. Nonostante non indossasse gli occhiali, riuscì a vedere quel dettaglio.
Man mano che si avvicinava, poteva vedere più dettagli: aveva gli occhi marroni, le labbra dipinte di rosso cremisi... Craig maledì quello che vedeva. Era Helen!
Ma quando era riuscito a capire la sua identità, la giovane donna era già scomparsa dietro l'angolo della strada.
Craig e Sauron si guardarono stupiti. Cosa stava facendo Helen? Dove andava a quell'ora? Perché si era vestita così bene? Aveva forse un ragazzo?
Quest'ultima domanda scosse Craig ancor più delle raffiche di vento. Aveva pensato di fare grandi sacrifici per guadagnare la sua amicizia e non era disposto a brancolare nel buio, a farsi trasportare dal suo barboncino come se fosse un cane guida. Né avrebbe sopportato di guardare ancora serie spazzatura in TV come quella di mezzogiorno, né avrebbe potuto continuare a imbrogliare sua madre, fingendo di perdere tutti gli occhiali che gli avrebbe comprato. Quindi, a che serviva tutto ciò se il cuore di Helen apparteneva a un altro? Perché preoccuparsi?
In ogni caso, c'era solo un modo per togliersi il dubbio: seguirla.
Craig l'avrebbe seguita fino a quando non avesse scoperto dove stesse andando e se dovesse incontrarsi con qualcuno. A quel punto si sarebbe girato e sarebbe tornato a casa.
- Sauron - gli disse, tirando il guinzaglio, - continuiamo la passeggiata. -

Capitolo 6

Il Kobla era un bar che era diventato molto di moda tra i giovani. Il motivo della sua popolarità era incomprensibile, dato che era un posto sporco, scarsamente illuminato e troppo costoso. L'aria era così viziata che trasformava la funzione respiratoria naturale in una sfida. Inoltre, una nebbiolina perpetua di fumo ostacolava la vista e irritava gli occhi. Sebbene l'insegna luminosa sulla porta dicesse BAR KOBLA con lettere tremolanti, tecnicamente non poteva essere considerato un bar. Forse questa era la ragione del suo successo, dato che il Kobla era in realtà una discoteca. Lì non si serviva altro se non bevande alcoliche né si offriva altra musica se non quella elettronica.
In quel momento, il locale stava per scoppiare. Era venerdì sera e il numero di giovani riuniti superava pericolosamente la capacità massima consentita. Ma a loro non sembrava importare, perché così erano più stipati e aumentavano le possibilità di incontrare nuove persone. Gli altoparlanti ruggivano violentemente, facendo perdere momentaneamente l'udito a coloro che vi si avvicinavano. Dal soffitto pendevano ragazze chiuse in gabbia. A differenza degli uccelli, sembravano godere della loro prigionia. Vestivano solo l'intimo e danzavano al suono della musica con movimenti ritmici e sensuali.
Erano le 00.26 ed Helen non era ancora arrivata.
Richard stava perdendo la pazienza.

***

Helen controllò l'orologio e constatò che erano le dodici e mezza. Tentò di accelerare il passo, ma i tacchi le impedivano di correre. Il marciapiede sul quale stava camminando era bagnato, a causa delle piogge intermittenti che si riversavano da diversi giorni. Helen era inciampata diverse volte ed era quasi caduta altrettante volte. Decise di non tentare la sorte. Quello che meno voleva in quel momento era scivolare e sporcarsi il vestito.
I lampioni spezzavano l'oscurità con enormi coni di luce, mostrando strade deserte. A parte qualche gatto che frugava tra i bidoni della spazzatura, non c'era nessuno. All'improvviso, Helen si sentì più sola di quanto si fosse sentita in tutta la sua vita. Sembrava che ogni passo l'avrebbe portata in un mondo diverso, per entrare in una dimensione sconosciuta.
Dopo aver camminato ancora qualche minuto, in lontananza vide l'insegna luminosa del Kobla. Le lettere lampeggiavano con colori vivaci.
Grazie a Dio! pensò.
Camminò fino a raggiungere la porta di ingresso. Lì, un uomo alto e forte sorvegliava l'entrata del locale. Aveva i capelli raccolti in una coda e il suo viso diceva che probabilmente non aveva molti amici. Nonostante fosse notte fonda, portava gli occhiali da sole.
- Buonasera - lo salutò Helen.
- Buonasera, signorina - rispose con una voce più dolce di quanto ci si potesse aspettare.
L'uomo si fece da parte, permettendole di entrare.

***

Sauron correva per la strada, muovendo le zampe ad alta velocità. Il barboncino era molto felice per la passeggiata di quella notte. Di solito, le passeggiate non erano così lunghe.
Però, quello che sembrava meno contento era Craig, che non riusciva a scaldarsi. Si sentiva un vero stupido a inseguire Helen. Perché lo faceva? Perché non si voltava e tornava a casa? Sua madre avrebbe iniziato a preoccuparsi da un momento all'altro.
Ma come un metallo attratto da un potente magnete, Craig non cambiò il suo tragitto. Camminava a una ventina di metri dalla giovane, la distanza giusta perché non notasse la sua presenza.
Pochi minuti dopo, l'insegna luminosa del Kobla apparve in lontananza. Vide che Helen affrettava il passo e si avvicinava al bar. Lì scambiò qualche parola con il portiere e quest'ultimo si spostò, consentendole di entrare. Helen scomparve dietro la porta di accesso.
- Oh no! - esclamò Craig, senza contenere la sua rabbia.
Dopo tutto il freddo sofferto e il fatto di essere giunto così vicino a lei, non prese neanche in considerazione l'idea di tornare a casa senza sapere con chi si doveva trovare Helen. Avrebbe voluto avere gli occhiali a infrarossi.
Cercando di non farsi sopraffare dalla delusione, Craig analizzò la situazione.
Dai, pensaci... C'è sempre una soluzione...
Non ci volle molto perché gli venisse un'idea; non era molto buona, ma forse avrebbe potuto funzionare. Avrebbe cercato di convincere il buttafuori a farlo entrare. Gli avrebbe detto che voleva solo salutare un'amica e che sarebbe uscito in meno di un minuto. In quel modo avrebbe avuto abbastanza tempo per localizzare Helen, sapere se aveva un ragazzo e sparire prima di essere visto. Era un piano geniale!
L'unico aspetto negativo era Sauron. Un bar come il Kobla non era un posto per un barboncino, nemmeno per uno coraggioso come il suo. Forse al buttafuori non sarebbe dispiaciuto tenerlo, dopo tutto, si sarebbe trattato di meno di un minuto.
Soddisfatto del suo piano, Craig si diresse verso l'ingresso del bar. Sauron lo seguì, agitando la coda.

***

- Mi scusi, signore - disse Craig al sorvegliante. - Le dispiacerebbe tenere il mio cane? -
Aaron, così si chiamava l'interpellato, faceva la guardia alla porta del Kobla da un paio d'anni. Durante tutto quel tempo aveva visto molte cose strane, ma nessuna simile a quella di quella notte.
- Come dici? - chiese a Craig, credendo di aver sentito male.
- Le ho chiesto se può tenere il mio cane. -
In effetti, Aaron aveva sentito molto bene.
- Ma ragazzo... per chi mi hai preso? - gli chiese con maleducazione. - Vattene, torna a casa! -
- Ma è solo per un minuto - insisté Craig. - Voglio solo salutare un'amica... Uscirò subito. -
Come se sapesse che stavano parlando di lui, Sauron seguiva la conversazione. Muoveva l'orecchio destro, interessato.
- Senti, ragazzo - Aaron si chinò per adattarsi alla sua altezza, - è vietato entrare ai minori di diciotto anni. Sei forse maggiorenne? -
- No, ma da quando questo è un problema per entrare qui? -
- Come dici? - gli chiese Aaron, rialzandosi.
- Che c'è, devo ripeterti tutto due volte? - Craig aveva vinto partite a scacchi con uomini più grandi di quel buttafuori. Motivo per cui non lo temeva.
Aaron afferrò il ragazzo per il bavero della giacca e lo condusse fuori dall'ingresso. Vedendo il suo padrone afferrato come una bambola di pezza, Sauron iniziò ad abbaiare.
- Ascoltami bene, bamboccio! - gli urlò. - Torna subito a casa e togliti dalla testa l'idea di entrare qui. Questo bar è per adulti. -
- Ma la ragazza che è entrata prima ha la mia età - protestò Craig, indignato per il trattamento.
- Sparisci! -
A.P. Hernández
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