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Writer Officina Blog
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Dacia Maraini nasce a Fiesole (Firenze). La madre Topazia
appartiene a unantica famiglia siciliana, gli Alliata di Salaparuta.
Il padre, Fosco Maraini, per metà inglese e per metà fiorentino,
è un grande etnologo ed è autore di numerosi libri sul Tibet
e sullEstremo Oriente. Nel 1943 si trova con la famiglia in
Giappone e vive la drammatica esperienza di un campo di prigionia. Ad oggi,
è considerata a pieno titolo "la signora della letteratura Italiana".Gli
ultimi romanzi pubblicati con Rizzoli, sono Corpo Felice e
Trio. |

Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa,
teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana
di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, Non ora, non
qui, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri
sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese,
swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale
alcune parti dellAntico Testamento. Vive nella campagna romana dove
ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A
grandezza naturale", edito da Feltrinelli. |

"Il destino di ogni uomo è un segreto sepolto nel silenzio"
A pronunciare queste parole è Glenn Cooper, uno scrittore
che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo e che ha un legame particolare
con la storia Italiana. Il suo ultimo libro si intitola Clean - Tabula
Rasa e racconta di una epidemia mondiale molto simile a quella che abbiamo
appena vissuto. |
Altre interviste su Writer
Officina Magazine
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Nella mia mente
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Annette O'Toole scuote la testa più volte mentre percorre il corridoio il cui pavimento è lucidato con olio essenziale di cedro rosso. L'impiego di quel tipo di legno per la costruzione degli edifici aveva fatto la fortuna degli abitanti del luogo, perlopiù falegnami. Il commercio di legname aveva nel tempo popolato la cittadina poco distante, rendendola provvista di più di un drugstore, due barbieri, un birrificio e una chiesa metodista. Due motel tra loro concorrenziali, offrivano asilo agli operai delle contee vicine che si fermavano dal lunedì al venerdì a lavorare presso la segheria. Alcune volte, al mattino presto, ad Annette sembrava di cogliere l'odore del Pacifico nell'aria, trasportato dal vento. Non faceva mai troppo freddo in quella parte dell'Oregon, al contrario del suo paese natio. I suoi genitori erano emigrati dall'Irlanda quando lei era piccolissima, e se i tratti caucasici ne tradivano le origini, lei si sentiva una nativa americana. Si ferma un momento a metà del percorso ed estrae uno specchietto da una borsetta, controllando di aver ben coperto le efelidi con il fard. Per fortuna che non ha ereditato la costellazione di lentiggini che occupa ogni centimetro del volto di suo padre; le sue si irradiano timidamente poco distanti dall'attaccatura del naso. Controlla anche se sia il caso di rifare la tinta: odia la ricrescita rosso fuoco della sua capigliatura. Da piccola era stata presa di mira dai suoi compagni di scuola che l'avevano appellata pel di carota. Quel nomignolo usato in maniera dispregiativa l'aveva portata a odiare il suo colore naturale di capelli. Ripone lo specchietto, mette a tracolla la borsa e con un respiro profondo riprende a camminare, innervosendosi alla vista della maniglia che sta diventando nitida e più vicina. Era stata felice quando aveva ottenuto quell'incarico di segretaria, e sebbene il basso edificio fosse immerso quasi nel nulla, a eccezione della rigogliosa natura circostante, ogni mattina saliva entusiasta sul suo pick-up. Non poteva permettersi altro al momento, che l'utilizzo di uno dei veicoli dei suoi genitori. Vuole essere autonoma e indipendente Annette, ma per Dio, se i medici per i quali lavora avessero continuato a insistere con quell'assurda idea riguardo alla conduzione dell'interrogatorio, si sarebbe licenziata e sarebbe andata a munger vacche nell'azienda di famiglia. Controlla che i bottoni del cardigan siano nelle asole corrispondenti, si liscia i capelli, e finalmente si decide ad abbassare la maniglia, ben decisa questa volta, a far prevalere il suo volere.
Poso la penna accanto al taccuino e mi massaggio le dita anchilosate. Hanno picchiato duro durante la permanenza nella cella dello sceriffo, mi hanno spezzato l'indice e il medio con il manganello, e le fratture si sono risaldate in maniera scomposta. – Ferretti, è richiesta la tua presenza. Allontanati dalla porta! Sobbalzo al suono della voce del capo delle guardie: per un attimo mi sono dimenticato di dove sono, trasportato dalle immagini mentali del mio passato. Con un rapido gesto faccio sparire il taccuino sotto il materasso. Il tavolo è di fianco alla porta, fuori portata dalla loro visuale. Mi alzo lentamente e cammino all'indietro: mi fermo quando il mio corpo urta contro la parete di fondo. La guardia fa scorrere il manganello di gomma sulle sbarre senza staccarmi gli occhi di dosso, producendo un suono che secondo le sue convinzioni dovrebbe intimorirmi. La cella si apre e un secondo uomo fa qualche passo in avanti, oltrepassando la soglia, e poggia sul petto la pistola dalla canna lucida, in segno di ammonimento. Sembra una specie di lancia-razzi, sono sicuro che sia stata caricata con pallottole di anestetico. – Porgi i polsi! – m'intima il capo Johnson. Allungo le braccia e unisco le mani per permettergli di mettermi le manette. – Incatenalo anche alle caviglie! – ordina alla terza guardia, che nel frattempo è sopraggiunta. – Avanti, muoviti! – mi pungola, facendo pressione sul rene con il manganello. La testa inizia a pulsare, mentre sento una vena della tempia ingrossarsi. Non posso perdere il controllo. Non ora. Devo prima terminare la mia storia, per far capire all'umanità chi sono. Respiro profondamente e inizio goffamente a camminare. Sono in isolamento, non so quanti altri detenuti si trovino rinchiusi in questo posto, non ho diritto nemmeno all'ora d'aria, e tentano di sfiancarmi psicologicamente con il bagliore perenne della luce artificiale. Ci sono tutti gli elementi per ridurti a miti consigli, o meglio, a farmi diventare furioso. Forse è proprio questo ciò che stanno tentando di fare, in modo tale da risolvere la faccenda sbrigativamente. Ma non gli renderò le cose semplici: morirò certo, ma a modo mio. Voglio solo terminare la mia storia, per far capire al mondo che non sono un semplice omicida, e nemmeno uno psicopatico. Sono un essere con un grado di evoluzione superiore, forse il precursore di una nuova razza di ibridi. L'odore dell'aria pura mi riempie i polmoni, restituendomi un sentore di nostalgia per la perdita della mia libertà. Ma non sarò in loro balia ancora per molto, e questo pensiero mi conforta. – Non tentare scherzi, o ti do una scarica di quelle che te le ricorderai per sempre! Fisso il teaser agganciato alla cintura senza rispondere, mi giro e inizio a camminare verso la bassa costruzione poco distante, annessa a quella principale. Il tetto è di un verde brillante, abbacinante quasi per la vista, se ci si sofferma a fissare il bagliore riflesso dei raggi del sole. Guardo la bandiera che svetta sull'asta e mi preparo a ingaggiare una lotta psicologica con quegli omuncoli che vogliono etichettarmi: non hanno proprio idea di chi si troveranno ad affrontare!
Il dottor Kellerman si scosta dalla finestra con un certo nervosismo. Ha scorto dai vetri il recluso che sta arrivando. Non è stato facile convincere Annette a diventare la loro portavoce, e adesso che si sta arrivando al dunque, si sta chiedendo se ciò, avrebbe portato loro dei vantaggi. Più volte in quella settimana aveva riascoltato il nastro della confessione, ma le risposte stringate e dal tono incolore avevano sollevato in lui parecchi dubbi: l'impressione caratteriale che forniva quella voce registrata, era del tutto incompatibile con la personalità del soggetto. – Sei pronta, Annette? La domanda coincide con il bussare alla porta. Reaply e Scott si scambiano uno sguardo fugace, il dottor Norton si muove inquieto sulla seggiola. – Avanti! – pronuncia Kellerman, decidendo all'ultimo istante di rimanere in piedi davanti alla finestra, defilato.
Non appena entro nella stanza, metto subito a fuoco la situazione. Due sono gli indicatori: l'odore acidulo della loro pelle, e il sudore impercettibile che scorgo sul volto dell'uomo tarchiato di fronte alla finestra. Affonda i pugni chiusi nelle tasche del camice: è in conflitto con se stesso per qualcosa. – Potete toglierli le catene alle caviglie e lasciarci soli, per piacere? – pronuncia l'uomo della finestra, che identifico subito come il capo. – È sicuro dottor Kellerman? – risponde Johnson, lanciandomi uno sguardo ammonitore. – Assolutamente. – Bene, come volete. Ragazzi, andiamo! – continua a denti stretti, furioso di essere stato estromesso. – Resteremo dietro la porta per ogni evenienza. – Ci conto. È chiaro. Sorrido vedendo il rossore sul volto della guardia e mi auguro possa avere un attacco di pressione alta. Lo seguo con lo sguardo fino a quando non si allontana, acuendo il suo nervosismo. Ma il divertimento dura poco: ritorno vigile non appena sento il rumore dello scatto secco prodotto dall'accensione del registratore. – Può darmi le sue generalità e dirmi la sua data di nascita? – dice la ragazza che ha ancora la mano sul registratore. – Avete già le mie generalità, mi pare. – La prego signor Ferretti, è la prassi. Colgo lo sguardo compiaciuto del dottor Kellerman e intuisco che è come se le stesse dicendo che se la sta cavando molto bene. – Signorina? – O'Toole. Dottoressa Annette O'Toole. Ma chi vogliamo prendere in giro? È troppo giovane perché sia laureata. Che cosa pensavano? Che mi sarei sciolto di fronte a questi occhioni verdi? Ci vuole un po' più di questo! – Perché tinge i suoi capelli, dottoressa? L'appello in questo modo perché decido di stare al gioco. – Come lo sa che tingo i capelli? – mi risponde imbarazzata. – Le sue ciglia tendono a un soffuso rosso. Lo schiocco prodotto dalla lingua sul palato mi fa volgere il capo nella direzione da cui un attimo prima è pervenuto il suono. – Vogliamo attenerci soltanto alle risposte pertinenti alle domande fatte, signor Ferretti? E prima che lei me lo domandi, mi presento: sono il dottor Norton. Punto lo sguardo nei suoi occhi: che strano! Non riesco a catalogarlo. Ha uno strano odore, come se avesse fatto il “pieno” di medicinali, lo sguardo leggermente appannato e produce un leggero sfrigolio quando si muove. Come se fosse percorso da corrente elettrica, sotterranea e fremente, pronta a eruttare. – Mi chiamo Egidio Ferretti e sono nato l'otto settembre del 1978 ‒ mi decido a dire. – Bene signor Ferretti, può dirmi come mai si trova nello stato federato dell'Oregon? – Ho ereditato una cospicua somma di denaro e ho deciso di prendermi un anno sabbatico, in attesa di decidere cosa fare. – Un po' lontano da casa, non le pare? – Già. – Da quando si trova negli USA? – Da circa otto mesi. Ho acquistato un cottage, giù al lago. D'estate mi piace sedermi sul molo a pescare, d'inverno vado a caccia per boschi. – Dato che ha fatto riferimento ai boschi... veniamo subito al dunque. Cosa l'ha spinta a uccidere quei due uomini? – É stato un incidente. Un mormorio di sconcerto si leva unanime nella stanza. – A noi non risulta questo. Non sono le parole che ha usato durante la confessione! – interviene il dottor Kellerman, troppo sorpreso per continuare con la strategia concordata. Sorrido compiaciuto: gli ho scompigliato le carte. Annette O'Toole si chiede cosa può fare per riprendere in mano le redini della situazione, ma lo psicologo le mette una mano sul braccio e scuote la testa. Lei respira emettendo il fiato trattenuto, rilassandosi all'istante: in fondo, non è un suo problema. – Ricominciamo da capo. Sul nastro in nostro possesso si può sentire chiaramente che dopo aver ucciso il primo cacciatore, ne ha accoltellato un secondo – mi dice l'uomo che ha azzittito la ragazza. È piuttosto magro e porta gli occhiali. Ha l'aria insignificante e proprio per questo devo stare più attento con lui, non devo farmi fuorviare dal suo aspetto poco intelligente. – Non potevo fare altro che dire ciò che volevano che dicessi. Mi hanno interrogato per un giorno e una notte di seguito. Alla fine la mia resistenza è venuta meno. – Ci sta prendendo per una massa di deficienti? La dinamica con cui si sono svolti i fatti non concorda con l'accettazione di un accadimento riconducibile a un incidente. – Dottor Scott, si controlli! Questa non è la maniera giusta per affrontare il problema. L'uomo abbassa la testa e si zittisce di malavoglia. – Non ho altro da dire in proposito – sibilo in tono perentorio. – Questo cambia le cose: questo colloquio non ha più motivo di essere. Suggerisco ai miei colleghi di aggiornare la seduta – continua Kellerman. Mi alzo e seguo senza fiatare le guardie sopraggiunte. Ho ottenuto il mio scopo: li ho messi in subbuglio.
Kellerman raggiunge la porta, si affaccia per un attimo nel corridoio e rientra. Adesso che è sicuro che il prigioniero è abbastanza lontano da non poterlo sentire si decide a parlare. – Che cosa sappiamo di lui? – Non molto: è italiano, ha trentotto anni, di bell'aspetto e sicuramente istruito. La polizia si è messa in contatto con l'ambasciata del suo paese per scoprire se ha dei precedenti penali. Nel database unificato degli Stati non risulta alcunché – risponde Reaply, avvicinando con un gesto infastidito gli occhiali all'attaccatura del naso. I suoi occhi nocciola diventano improvvisamente così grandi, da sembrare delle prugne. – Sempre che abbia dato le giuste generalità! – interviene Scott, che dei quattro è il più diffidente. – Secondo me, sì – s'intrufola il dottor Norton. – Del resto la sua collocazione abitativa corrisponde, ed è così spavaldo da non temere alcunché. Gli uomini dello sceriffo della contea hanno perquisito il cottage e l'automobile, ma non hanno trovato traccia di particolari effetti personali che avrebbero potuto fornirci ulteriori indicazioni su di lui. In casa sua non c'è nemmeno una foto. – Propendo per un distacco emotivo dal suo nucleo di origine. Che ne pensate delle sue ultime dichiarazioni? – termina Kellerman. – Potremmo essere di fronte ad un episodio di amnesia dissociativa – formula il dottor Reaply. – E se fosse invece, una lucida strategia per depistarci? Un tentativo per non finire nel braccio della morte? – ribatte il dottor Scott. – Se così fosse prima o poi si tradirà: non si può fingere una malattia mentale senza essere artefice di essa – risponde Reaply. – E se provassimo a solleticare il suo ego? In fondo è un narciso. – Sarà proprio ciò che faremo, signori: ottima linea di strategia, dottor Norton. Qualcun altro vuole aggiungere qualcosa? Nessuna risposta. – Bene! Buon rientro, signori. Al suono di queste ultime parole gli astanti scostano la seggiola e si avviano alla porta.
Sono stanco. Stanco di essere relegato in questa stanza che ha il lucernario al posto della finestra, stanco di essere messo sotto lente d'ingrandimento. Mi manca il mio cottage e la solitudine assoluta, mi mancano gli odori del bosco. Per questo devo sbrigarmi a finire la mia storia, sebbene le dita, alle volte, proprio non ne vogliano sapere di collaborare. Non hanno la stessa forza di prima, non sempre riescono a mantenere la presa sulla penna. Eppure, devo sforzarmi. Mentre massaggio le mani per diminuire l'intorpidimento, sono assalito da un pensiero improvviso: come mai mi hanno concesso ciò che ho chiesto? Non c'è logicità nelle loro azioni. Mi privano della più piccola libertà e agio, e mi concedono carta e penna? Non ha senso. Il timore mi spinge a infilare la mano tra la rete e il materasso, e solo quando tocco il taccuino la mia ansia si placa un poco. Tuttavia lo annuso, alla ricerca di odori estranei. Mi acquieto solo quando mi assicuro che non c'è ne è alcuno. La prossima volta lo porterò con me, infilato negli anfibi che mi hanno dato in dotazione. Non devo più commettere errori, ne ho già commessi ben due. Non che a questo punto sia importante, i giochi purtroppo sono fatti, ma morirò a modo mio e quando lo dirò io. Mi siedo al tavolino e prendo in mano la penna: e il filo dei ricordi riprende.
‒ Ci sono novità riguardo all'aggressione della ragazza? – chiese mia madre, prima ancora di sfilarsi il cappotto. – Non ti sembra di esagerare con questa storia? Non hai nemmeno chiesto a nostro figlio come è andato l'esame. – Giusto. Allora fratello... com'è finita? Gliel'hai fatta? – si intromise Gaia, sostituendosi a mia madre e sedendosi a sua volta sul lungo divano color panna adornato da una serie di cuscini dai colori variegati. – Certo che sì. Avevi qualche dubbio in proposito? I lampioni disseminati lungo il giardino riflettevano bagliori sulle vetrate che costituivano le pareti del soggiorno. Amavo quell'accostamento di vetri e cemento che conferiva alla bassa villa l'intimità di un'alcova, soprattutto a quell'ora della sera. – Sempre modesto tu, eh! Le parole di mia madre interruppero le schermaglie tra mia sorella e me. – L'esame di guida di nostro figlio è l'ultimo dei miei pensieri – disse, mentre io mi sentii avvampare a quelle parole. ‒ Che ti succede Barbara, non ti sembra di esagerare!? Sono stanco, ho passato una giornata piuttosto difficile in ufficio e arrivando a casa, mi ritrovo ad avere a che fare con una moglie isterica! – Credi che mi diverta ad attendere nostra figlia quasi tutto il giorno mentre svolge le sue normali attività quotidiane? Non me la sento di farle percorrere il sentiero che conduce alla nostra villa a piedi. Potrebbe essere aggredita a sua volta! Gaia si alzò, con la scusa di andare ad appendere il giubbotto. Sapevo si sarebbe eclissata, mal sopportava le liti tra i nostri genitori. – Perché pensi possa esserci una nuova aggressione? Mia madre estrasse dalla borsa il giornale piegato, mio padre inforcò gli occhiali e iniziò a leggere. – E così credono che possa essere il puma scappato dal circo qualche mese fa – disse non appena terminò di leggere l'articolo. – Puma, cinghiali, che differenza fa? Il fatto è, che una povera ragazza è stata sbranata da un animale che si aggira nella nostra città! A quelle parole rilassai le spalle: non mi ero accorto prima di quel momento che ero stato in tensione tutto il giorno. La paura che qualcuno avesse potuto scorgermi durante l'inseguimento della ragazza, era rimasta sopita alla ragione, ma non al mio istinto di sopravvivenza. Subito dopo aver concluso l'esame di guida avevo preso un autobus e mi ero recato in un'altra provincia. Lì, avevo cercato un cassonetto della spazzatura e mi ero sbarazzato dei vestiti sgualciti e sporchi di sangue, che avevo infilato in un sacchetto di plastica nero. Ma nonostante questa accortezza non mi ero sentito tranquillo; questo fino a quel momento. – Scusami Barbara, ma sono veramente stanco e non mi sono reso conto della tua paura. Suggerisco di recarci in sala per andare a mangiare. I nostri domestici ci staranno sicuramente aspettando per servirci la cena. – Andiamo certo, non facciamoli attendere oltre! – rispose sarcastica. Mi alzai dal divano e li precedetti di qualche passo, rendendomi conto di essere veramente furioso nei confronti di mia madre.
Subito dopo cena mi ritirai nella mia camera: non avevo voglia di uscire né di vedere i miei amici. Al momento li associavo col ricordo a ciò che era successo la notte prima. Non volevo rivivere la scena, né analizzare le mie emozioni. Ero troppo confuso. Afferrai un libro e mi lasciai cadere sul letto, abbandonandomi alla lettura: ma nemmeno “L'interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud riuscì a tenere a bada i miei pensieri incalzanti. Non che sentissi freddo – la mia temperatura era sempre di gran lunga superiore alla media – ma mi alzai per andare a prendere il cappotto appeso all'ingresso: intendevo fare due passi in giardino. Fu nel mentre che fui raggiunto dalle voci concitate nei toni. Mi appiattii contro la parete della sala, facendo ben attenzione a non farmi scoprire. – Ti rendi conto che con il tuo comportamento e le tue parole hai deliberatamente ignorato nostro figlio? Cosa credi possa pensare? Che hai delle preferenze? – domandò retoricamente. – Non dire sciocchezze per favore, nessuna preferenza! È solo che sono convinta che sappia cavarsela meglio di Gaia. – E perché mai? È pur sempre un ragazzo! – Sì, ma un ragazzo particolare! Ti sei dimenticato cosa ha fatto alla nutria? L'ha morsa sul collo recidendole la giugulare. Quale altro ragazzo avrebbe reagito così? Il tocco della mano sul mio braccio mi fece sussultare. Mi voltai e vidi Gaia, in piedi accanto a me, in pigiama e a piedi nudi. In quel gesto colsi il conforto e dal suo sguardo scorsi il dispiacere per ciò che avevo sentito. In quell'attimo era tornata a essere per me, la Gaia di sempre. – Taci! - le intimò mio padre. – E smettila di nascondere la testa sotto la sabbia: in nostro figlio c'è qualcosa che non va! Lo so, lo “sento” da sempre, da prima che nascesse. Avevo sperato che le mie sensazioni fossero sbagliate, ma purtroppo non è così. – Sensazioni, appunto! Niente di reale. Non potevo permettere che Gaia ascoltasse altro: la presi per mano e la condussi a ritroso, verso le nostre camere. Dopo quella sera la considerazione che avevo nei confronti della famiglia cambiò: ai miei occhi mio padre e Gaia si erano riscattati, mentre l'odio mai sopito si era concentrato esclusivamente su mia madre. Tuttavia, per alcuni mesi non successe nulla di significativo, poiché troppo preso dagli allenamenti, le partite, e lo studio per il conseguimento della maturità. E poi, ci pensava mio padre a non farmi sentire un completo disadattato. Per il conseguimento della patente, mi regalò un bel golf cabriolet GTI. |
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