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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori
emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP,
ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo
articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da
seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo
già formattato che per la copertina. |

Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto
di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da
un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici,
dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere
derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie
capacità senza la necessità di un partner, identificato nella
figura di un Editore. |

Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori,
arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel
DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti
di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli
della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle
favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia. |
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Fino alla fine del tempo
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Non tutte le storie nascono per essere comprese. Alcune emergono come nebbia dal fondo di un sogno, senza volto certo, senza confini netti, come se la memoria stessa esitasse a restituirle intere. Questa è una di quelle storie. Si dice che esistano luoghi e tempi dove il ricordo non muore del tutto, ma sopravvive in altra forma: una scalinata antica, una finestra socchiusa, una canzone che non osa più pronunciare il suo nome. Un tempo che resiste al disfacimento della carne, alla rovina della memoria, alla crudeltà dell'addio. A chi sa ascoltare, sarà dato attraversarlo. E lì, nel fragile confine tra ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere, danza chi non si è mai arreso all'oblio. Non cercate qui risposte. Non cercate qui certezze. Tutto ciò che vi verrà offerto sarà un frammento: di un amore, di una promessa, di una vita spezzata eppure ancora viva in ogni nota che risuona. Anche se il suono sembra ormai smarrito. Chi leggerà, forse, riconoscerà un volto, una città al tramonto, un nome sussurrato contro il vento. Forse, nel passo incerto dei protagonisti, riconoscerà se stesso. Ma anche se nulla sembrerà chiaro, sappiate che ogni parola qui custodita porta il peso dolcissimo e insostenibile di chi ha amato fino all'ultima soglia, e oltre. Leggetelo con rispetto, dunque. Leggetelo con lentezza. Lasciate che vi abiti, che vi accarezzi, che vi ferisca. Perché alcune storie non si dimenticano. Non per il loro fragore, ma per la loro tenerezza. E quando giungerete all'ultima pagina, forse – solo forse – capirete che ciò che conta davvero non è dire tutto, ma restare. Nel silenzio. Fino alla fine del tempo.
Di spalle, gli porse sul petto i capelli scomposti, destrutturati dall'ondeggiare dei loro giovani corpi, intrappolati nel vortice di poche note sparse nella brezza di un imbrunire di estive reminiscenze. Poi, un passo per volta, annodandosi le dita e scambiandosi il sapore della bocca, proseguirono a volteggiare su pentagrammi di sensualità solenne. «Come siamo arrivati qui?» Fu ciò che seppe dire, Lei, in quel turbinio di istinti carnali e umani. «Qui è dove la ascolto tutte le sere.» «Da dove proviene?» E gli idratò il collo con il sudore della fronte, recuperando molecole di fiato. «Mi piace pensare che ciascuna finestra qui intorno sia quella giusta.» Gli si adagiò ancora, di schiena, delineando sulle labbra un riso e accostando le palpebre, imprimendo ai suoi fianchi un'erotica oscillazione e lasciandosi serrare da una morsa di arti maschili e ansanti. «Puoi farla ricominciare?» Fece Lei, deturpandosi il volto di una smorfia di disappunto, una volta che il disco esalò le sue ultime note. «Ricomincerà domani...» Si sciolsero dalle loro catene di sangue e sedettero ancora ansimanti sulla gradinata che ne aveva raccolto le movenze e i gemiti. E fu notte, per loro, per la severa terra di Sicilia, e per gli anfratti della città barocca. «Domani... e fino alla fine del tempo.»
Lenta si dissolveva, la figura di Anna. La sua, Anna. Così, come si dissipa la nube stanca e vuota, quando domata è la sete delle arse terre del sud. Svaniva, per sempre, dalla notte fattasi giorno nel tempo del sogno. Era bella, Anna, ancora. Ne trattenne a fatica l'attimo in cui le labbra brunite e calde cedettero all'angosciosa rivelazione: «Qui, è bellissimo!» Fu lì, che si destò dal torpore del sonno e si rivelò dolente al ricordo. Era novembre da due giorni. E quel novembre, l'uomo lo avvertì giacente di fianco a sé, sullo stesso letto fradicio e disfatto. Tra le foglie agonizzanti, la stagione del pianto raccoglieva le sue membra avvizzite dal tempo, e così la ragione. Ma di Anna... di sua moglie Anna si ricordava. Ancora. L'aveva sposata, a Catania, nell'estate del ‘64. E fu nella Basilica della Collegiata che se ne dispose il sacramento e l'unione. Lì, poco lontano dal ginepraio dei vicoli della città vecchia. Lì, nell'estasi della rievocazione dei lieti anni universitari. Eppure, l'allora novizio professor De Rosa fu di provinciale appartenenza. Di quella provincialità tutta italica delle contrade bislacche e dei borghi di montagna, laddove la bramosia del sostentare l'acume e l'ingegno discordava con la dinamicità muscolare e operaia dei corpi laboriosi e usurati della piccola gente. Fu lì, tra le borgate montane iblee – così remote alle sue smanie di conoscenza – che il 1° aprile del ‘35 venne alla luce Antonino De Rosa. Di quei natali si curò la madre, Concetta Alagona, e la mammana Lucia Russo, al civico 7 di Ronco Cicerone a Palazzolo Acreide, nella casa dei nonni materni. Si destò, dunque. Piacevole, dalle veneziane antiche e chiarissime, si districava un tepore di primavera. Ma era novembre, da due giorni. Si lasciò alle spalle la stanza da letto e percorse il lungo corridoio, levando lo sguardo ancora debolmente sopito alle polverose collezioni pendenti alle pareti. «Il caffè è in tavola.» La voce femminile si levò vigorosa e indefinita da una delle camere di villa De Rosa. «Prima che lo dimentichi, è arrivata una busta per te. La trovi sulla scrivania della stanza blu.» Antonino si curò di ringraziare la donna, alzando nella medesima maniera il tono della voce e assaporando a sorsi lenti e regolari il caffè amaro. Solo dopo lasciò la cucina e ripercorse il lungo corridoio, arrestando il passo a metà corsa rispetto alla sua intera lunghezza e varcando la soglia della stanza blu. Scorse il plico sulla scrivania. Sedette, indossando gli occhiali da presbite e scandendo a bassa voce: «Alla cortese attenzione dell'illustrissimo professor Antonino De Rosa...» Staccò delicatamente il sigillo postale e cavò dalla grande busta giallo paglierino un plico accuratamente rilegato, facendo scivolare accidentalmente un foglio ripiegato sotto l'elegante poltrona in pelle sulla quale si era accomodato. Si chinò per raccoglierlo, lo dispiegò e assaporò un certo piacevole gusto alla vista della ricercatissima grafia con la quale era scritta una fugace lettera di presentazione:
"Illustrissimo Professor De Rosa, voglia perdonare l'invadenza di un vecchio pazzo la cui unica consolazione a questa vita sarebbe poter sapere che scrivere della propria storia sia valso almeno lo sforzo compiuto per raccontarla."
Qualora volesse... 055-xxxxxxxx
Adagiò la lettera sulla scrivania, prese tra le mani il manoscritto e passò oltre la prima pagina vuota. La seconda facciata del foglio rivelò il titolo dell'opera, e il suo autore:
La danza muta, di Salvatore Raciti
Il pendolo alla parete lunga della stanza blu, appeso frontalmente rispetto alla scrivania alla quale era seduto, rintoccò in quell'istante le dieci del mattino. Era novembre, da due giorni, e il treno delle 13:35 in partenza dalla stazione di Siracusa – destinazione Milano Centrale – aveva uno scompartimento letto prenotato a suo nome. Di quel viaggio, peraltro, Antonino De Rosa non si era curato fin dal risveglio. Fu merito della sollecitazione della consueta e premurosa voce femminile, che pareva stavolta essersi sollevata da un punto ben più lontano e indeterminato della villa, se Antonino era riuscito ad accelerare le personali operazioni di preparazione. Non prima, però, di aver riposto grossolanamente il manoscritto e la laconica lettera di presentazione all'interno della grande busta. Si era convinto a concedersi quella lettura nel tempo del viaggio, cosciente che le venti ore a bordo del treno notte, in un modo o nell'altro, sarebbero dovute scorrere.
Dei treni notte poteva ancora sentire l'esalazione degli odori, senza mai tuttavia averne conosciuto la vera radice, e il fascino antico delle stazioni indistinguibili, le figure ombrose della notte stravaccate sulle panche al coperto delle pensiline fasciste. Dei treni notte subiva il romanticismo degli incontri anonimi, degli intrecci che sarebbero potuti essere e che mai furono. Era dei treni notte che possedeva il ricordo più limpido, dei capistazione impettiti che sentenziavano il muoversi ferroso e stridulo dei convogli e delle locomotive diesel del secondo dopoguerra. Dei treni notte lo affascinava, ancora, lo spettacolo dei fiochi agglomerati urbani lucani inerpicati tra le montagne maestose, che squarciavano gli orizzonti tenebrosi delle ore tarde, prostrati alla seduzione delle traversate tutte italiche delle genti del sud. Dei treni notte e dei suoi alacri visitatori, sapeva che l'Italia tutta ne aveva tratto profitto negli anni fertili della ribalta e della ricostruzione. Era per questo che dei treni notte sapeva di potersi fidare. Antonino De Rosa aveva preso posto nel suo scomparto. Il cuccettista si era generosamente offerto di aiutarlo nella riposizione del bagaglio – per la verità ridotto all'essenziale – nel vano apposito e all'estremità superiore della cabina letto. Ma aveva declinato, preferendo tenere vicino a sé gli effetti personali e quanto di indispensabile per la prosecuzione del viaggio. Tra le altre cose, i suoi occhiali da presbite e il manoscritto di quel tale Salvatore Raciti. Non gli sarebbe dispiaciuto condurre l'intero viaggio in solitaria, ma sentiva consapevolmente come alquanto remota tale possibilità. Per questo motivo auspicava quanto meno un compagno di viaggio discreto e silenzioso. Antonino De Rosa era salito sul treno notte in partenza dalla stazione di Siracusa, destinazione Milano Centrale, alle 13:27 del secondo giorno del mese di novembre dell'anno 2005. Aveva settant'anni, da sette mesi. |
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