Writer Officina
Autore: Abel Wakaam
Titolo: Diario dal Sahara
Genere Avventura
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Diario dal Sahara
Aeroporto Menara di Marrakech - Marocco

16 maggio

Quando non si sa dove andare, bisogna andare.
E non serve cercare perché sicuramente c'è un luogo incantato, nascosto nella nostra anima, che ci chiamerà. Il mio soffio di libertà si chiama Laayoune, conosciuto anche col nome di El Ayun, antica capitale del Western Sahara.

Ho scelto di stare dalla parte sinistra dell'aereo per scrutare l'Africa dall'alto. Sotto di me il mare sembra non finire mai. La terra lontana sull'orizzonte si nasconde invece tra le nuvole che si sfilano come fiocchi impalpabili nell'azzurro spietato del cielo. Adoro scrutare dall'alto i pascoli della vita, come quando percorro i sentieri impervi che salgono gli immutati pendii delle montagne per dominare il mondo da una posizione privilegiata.

Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare dai pensieri. Quando li riapro, scorgo le cime innevate dell'imponente catena dell'Atlante coi 4.265 metri del Jbel Toubkal.

Mi chiedo cosa ci faccio qui, o meglio, cosa diavolo andrò a fare laggiù, oltre le montagne, e non so trovare una risposta convincente. Non serve un motivo per andare nel deserto. Ci si va per perdersi e alla fine ci si ritrova. E il fatto eclatante è che non ho alcun timore. Un po' come quando si va in guerra e si dà per scontato che non sarai tu a morire. Per la verità non ho nessuna intenzione di morire, ma si pensa sempre alla morte, giusto per ricordarci di quanto sia bella la vita. Già... la vita si immagina sempre diversa da come alla fine si presenta, ma in fondo è tutto quello che ci succede mentre siamo indaffarati a preoccuparci del resto.
Quando i motori dell'aereo si fanno più silenziosi, trattengo il respiro. Guardo il GPS da polso della KeyMaze e mi accorgo che la quota di volo sta diminuendo. Qualche minuto e la voce della hostess mi avverte di allacciare le cinture. L'ala di sinistra si abbassa e immediatamente percepisco il sangue spostarsi da una tempia all'altra. Stiamo virando... e scendendo.

Con me, l'immancabile zaino della National Geographic, un marsupio e una tracolla. Ripasso mentalmente la lista di ciò che contengono, ma ho la certezza di non aver dimenticato nulla. E come potrei? Li ho svuotati e riempiti una volta al giorno per due settimane, come se avessi dovuto partire per la faccia oscura della luna.

Prima di ogni cosa il mio NetBook e poi la reflex, una Canon, ma anche una seconda digitale compatta e una videocamera in alta definizione. Tutto della medesima marca per poter caricare le batterie con un unico caricatore multiuso; e poi il pannello solare e un pesante accumulatore da 7Ah. Il telefono satellitare lo acquisterò una volta arrivato sul posto per essere certo che funzioni.

Pochi abiti, l'essenziale, tre paia di pantaloni e qualche maglietta, l'immancabile giubbetto color verde militare, due shemag, cinque paia di calze, due di scarpe e sette slip. Tutto pressato nelle tasche interne dello zaino tra gli immancabili fazzoletti di carta, le coperte di alluminio e due dozzine di barrette multiproteine della Enervit.

Ora dall'oblò dell'aereo vedo finalmente le case e le palme che sfrecciano via come se fossero inghiottite da un gorgo, poi percepisco il contatto delle ruote con la pista di atterraggio, qualcuno applaude e io tiro un respiro di sollievo: «Anche questa è fatta!»

Adesso viene il bello perché devo staccarmi dagli altri passeggeri e perdermi volutamente nello scalo, evitando così di passare dai posti di controllo. Non devo uscire dal Menara, ma nel contempo non devo dare nell'occhio perché altrimenti il mio viaggio finirebbe qui.

Ahmed è da qualche parte e mi sta osservando, devo solo aspettare che mi raggiunga con quel suo sorriso enigmatico e mi conduca verso uno dei tanti hangar commerciali da cui partono gli aerei cargo per il sud del paese.

Compare all'improvviso, mi viene incontro e mi abbraccia: «Dobbiamo fare in fretta,» mi dice in francese «dopo l'attentato al Caffè Argana la Polizia è ovunque ed è diventata sospettosa.»

È da solo, quindi qualcosa è già andato storto perché dovevamo consegnare i documenti alla sorella. L'idea di viaggiare senza passaporto è dettata da una logica di convenienza: potremo adattare la nostra identità in base a chi ci saremmo trovati davanti. In ogni caso entreremo nel Western Sahara senza il lasciapassare marocchino, anche perché il permesso sarebbe troppo lungo e complicato da ottenere.

Mi fa segno di camminare lentamente per non dare nell'occhio e d'altronde siamo solo noi occidentali ad andare sempre di fretta. Mi indica una serie di capannoni color sabbia ai margini dell'aeroporto e mi rassicura che tutto è pronto.

Lì dovrebbe aver lasciato il nostro carico di viveri e il materiale necessario al viaggio, compresi due fucili Garand M1 e una cinquantina di proiettili.
Ecco è questa la sicurezza degli aeroporti africani, dove con pochi Dirham è facile farvi entrare di tutto! Forse nella zona passeggeri e sugli aerei di linea i controlli sono più severi, ma sulle piste periferiche il movimento di ogni tipo di materiale passa spesso inosservato.

Ed è su quella pista scalcinata che ci aspetta uno degli aerei più usati per il trasporto merci nelle zone disagiate, fiore all'occhiello dell'americana Douglas, in esercizio dal 1945. È un bimotore a elica, nome in codice C-47 Skytrain, che nella versione destinata agli Inglesi fu rinominato in Dakota. In pratica è il gemello del DC-3 che fu poi adattato per il trasporto truppe.

Il passaggio per due persone dall'Aeroporto Menara di Marrakech fino a Laayoune, nel cuore arido del Western Sahara, mi costa 500 Dirham, circa 44 Euro. Un volo di novecento chilometri seduti tra le casse sporche della stiva.

Conoscendo il pressapochismo di Ahmed, gli chiedo di verificare insieme la nostra dotazione di viaggio. Mi sorride, si allontana di qualche passo e ricompare trascinando una specie di carretto con le ruote, sottratte probabilmente a un triciclo per bambini. Non ho una lista scritta. La mia verifica è un semplice controllo delle azioni quotidiane e dunque parto a cercare il latte in polvere per la colazione del mattino per finire alla scatolette verdi delle famose razioni K che serviranno alla cena serale.

Mi guarda con aria pensierosa, pur consapevole di aver eseguito correttamente le mie istruzioni. Gli faccio un cenno di assenso e sulle sue labbra sboccia un sorriso.
Nel capannone semibuio ci saranno quaranta gradi e non è certo il caldo secco del deserto. Mi avvio verso uno dei portoni, ma Ahmed mi richiama con evidente preoccupazione: «Dobbiamo aspettare qui,» si affretta a ricordarmi «verrà uno dei piloti a chiamarci.»

«Quando?» gli chiedo.

Per tutta risposta, mi indica un uomo che arriva alle mie spalle. Mi volto giusto in tempo per vederlo in faccia e mi ritrovo stretto in un poderoso abbraccio. Si chiama Nazar e lavora per una compagnia locale di trasporto aereo. È un ex pilota dell'Unione Sovietica, emigrato in Africa nel 1991 dopo il crollo dell'Impero comunista. Parla un misto approssimativo di francese e spagnolo con un forte accento russo ma, seppur a fatica, riusciamo a comprenderci. Mi spiega che dobbiamo seguirlo in fretta perché ha appena avuto il permesso di volo e il suo collega sta già scaldando i motori.

Quando usciamo dal capannone, sento l'adrenalina che va in circolo. Il rombo dei due motori Pratt & Whitney da 1200 HP riempie l'aria con l'odore forte della benzina avio, sotto le ruote ci sono due cunei di legno e il portellone di carico è aperto. È assurdo stipare la merce con l'aereo in moto, ma Nazar mi spiega che, dal momento dell'accensione dei motori, nessuno controlla più quello che viene fatto.

Mi tengo ben lontano dalle eliche, eppure il fumo di scarico mi entra nei polmoni e arriva diritto al cervello con lo stesso effetto di una sbornia. Salgo a fatica nella stiva e, per mia fortuna, questa sensazione di leggerezza mi abbandona velocemente com'è arrivata. I minuti successivi scorrono senza che accada nulla, finché la radio gracchia qualcosa di incomprensibile. È allora che Nazar prende i comandi e mi fa segno col pollice alzato. Nello stesso momento mi accorgo che il suo collega non è certo un russo dall'evidente colore scuro della pelle. Indossa una tuta da meccanico arancione, unta e sgualcita. A guardarli bene sembrano il comandante Ian Solo e il suo co-pilota, lo wookiee Chewbecca, appena usciti da un episodio del film Guerre Stellari.

«Non è il secondo pilota...» confido ad Ahmed che apre la braccia sconsolato prima di domandarmi sorpreso: «Non basta uno?»

No che non ne basta uno, maledizione, ma sulle rotte del sud tutto funziona senza regole precise. I motori aumentano di giri, l'aereo ha un tremendo sobbalzo e Nazar urla parole irripetibili al meccanico. Ecco il primo problema sul Millennium Falcon... ma questa volta non è un film!

Ho il tremendo sospetto che l'africano non abbia tolto i cunei davanti alle ruote. Risolto il problema, passano venti minuti prima che l'aereo raggiunga la pista più periferica di Marrakech, poi si ferma di nuovo e aspetta il via libera dalla torre di controllo che tarda ad arrivare.

Questi sono i momenti che odio, quelli in cui la tensione diventa palpabile e io non voglio lasciami sopraffare dai pensieri. Mi ripeto che andrà tutto bene, che quella maledetta jeep militare non sta arrivando qui per noi, invece è proprio così.
Ora l'adrenalina è alle stelle, guardo Ahmed e l'occhio mi cade sui due Garand appoggiati tra la sponda del carretto e le coperte multicolori. Mi chiedo cosa accadrebbe se dovessero fermarci e perlustrare il carico, ma non ho nemmeno il tempo di rispondermi. I due motori si alzano bruscamente di giri, Nazar si lascia scappare un urlo di soddisfazione e il C-47 comincia a rullare.

Abituato ai jet di linea che partono come proiettili verso il cielo, mi sembra che questo catenaccio sovrappeso non decolli mai... e non è solo un'impressione. Quando finalmente si stacca dalla pista, sembra pentito di averlo fatto e continua a volare radente il suolo finché raggiunge una quota minima in cui può finalmente virare. Punta verso l'oceano, poi scende in direzione di Agadir e segue la costa marocchina in direzione sud, tenendo come riferimento la strada costiera che attraversa tutto il Western Sahara fino alla Mauritania. Ah se potesse davvero fare un salto nell'iperspazio! Purtroppo non è affatto così e intravedo sotto di me le dune che presto attraverserò a piedi.

Riesco finalmente a rilassarmi e cerco di recuperare almeno un'ora di sonno, giusto il tempo affinché una brusca virata mi distoglie dal torpore. Il pilota grida qualcosa che non riesco a comprendere, mi alzo faticosamente e, cercando di tenermi alle cinghie che reggono le casse, mi affaccio in cabina. «El Ayun!» ripete, indicandomi la pista.

Quasi per incanto mi appare Laayoune.

Il momento dell'atterraggio è sempre carico di apprensione. Mi sembra già troppo basso e la pista ancora non comincia... e devo anche sopportare Ahmed che invoca Allah ad alta voce, quasi come se un Dio in più aumentasse la probabilità di condurre il C-47 fin sull'asfalto. Non so quale dei due abbia allungato il nastro sabbioso della pista, ma finalmente l'aereo appoggia le ruote con un paio di sobbalzi . Finalmente si ferma.

Ahmed mi abbraccia e sorride, il meccanico porge a Nazar una bottiglia di vodka e le eliche rallentano fino ad arrestarsi. Prima di salutare il pilota, gli chiedo di darmi il numero del suo cellulare, me lo scrive a mano su un foglietto unto e bisunto, ringrazio e ci accomiatiamo.

Il primo impatto col Western Sahara è un caldo insopportabile. Scarichiamo il nostro carretto, salutiamo calorosamente i due pazzi che ci hanno portato sin qui e lasciamo in tutta fretta l'aeroporto attraverso il varco che ci hanno indicato. Nessuno ci chiede niente e il nostro viaggio può cominciare.
Abel Wakaam
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Abel Wakaam
Sono un raccontastorie. Gli scrittori veri sono diversi perché seguono le regole e i dogmi prefissati dalla casta. Un ribelle tutto questo non lo può accettare, se non a un prezzo troppo alto per riuscire a sopravvivere oltre le convenzioni. Mi piace pensare di non aver mai dovuto chinare la testa, se non di fronte alla bellezza interiore. Sorrido all'idea di non aver mai dovuto “chiedere” e mi cullo nella convinzione che non esistano confini, se non quelli che alziamo noi stessi per difenderci dagli altri. Sono impudente, a volte sfacciato, pragmatico, combattivo e mai domo. Amo la libertà, ma questo è il sogno di chiunque. Io però l'adoro al punto da andarla a cercare nei luoghi dove il nulla è sinonimo di meraviglia. Ma sono anche un “solitario pentito” che non disdegna la buona compagnia. La passione per la fotografia completa il quadro terreno della mia mancata spiritualità e mi conduce da sempre sul sentiero impervio che ha costellato la mia vita.

Nunzia Alemanno: Come ti è venuta l'idea di realizzare una piattaforma web come Writer Officina? È un progetto a cui stavi già lavorando da tempo oppure è stata una lampadina che si è accesa di recente?

Abel Wakaam: È un'idea che covavo da tempo e che ha preso corpo frequentando diversi Gruppi di letteratura su Facebook. Mi è parso di capire che gli Autori volessero insistentemente far conoscere i propri testi, ma che al tempo stesso fossero intimiditi da certe critiche che mi erano sembrate immotivate. Inoltre, mi sono reso conto di come la formattazione di Facebook non fosse adatta alla lettura di un testo abbastanza corposo da incuriosire i lettori, e quindi si rendeva necessaria una pagina WEB strutturata in modo da facilitare questo compito. Riguardo alle recensioni pubbliche, spesso tendono a incensare più chi le fa, ponendo lo scrittore in una sorta di colpevolezza immotivata. Questo è il motivo per cui ho preferito renderle strettamente private su Writer Officina. E poi sono arrivate le interviste a completare un processo di visibilità degli autori stessi. Ma non ci fermeremo qui.

Nunzia Alemanno: Si legge nella tua biografia che hai una grande passione per l'Africa, “un luogo dove ognuno percepisce la netta sensazione di esserci già stato”, da una tua citazione. Quanto, questa terra, ha contribuito alla tua scrittura? Ci sono dei testi in particolare che ricalcano le tue esperienze vissute in quei bellissimi luoghi?

Abel Wakaam: L'Africa è una parte di noi rimasta altrove, una forma arcaica di memoria che è stata marchiata a fuoco nel nostro DNA. Arriviamo da lì, da quella terra sconfinata che ci ha visto scendere dagli alberi per camminare eretti, e non possiamo cancellare le nostri origini semplicemente assumendo le vesti dell'Omo Tecnologicus! Nei mie testi, l'Africa è presente come “parte istintiva di un'azione incondizionata”. In alcuni la si percepisce “sotto pelle” mentre in altri è una “forma ribelle” che si rifiuta di seguire le regole. A volte credo che l'Africa sia la nostra parte più umana che cerca di emergere in questa società che diventa sempre più disumana.

Daniele Missiroli: Sei un esploratore e un bravissimo programmatore. Come fai a conciliare due attività così diverse?

Abel Wakaam: Sono principalmente un uomo curioso e non mi accontento di ammirare “le cose degli altri”. Voglio guardarci dentro, voglio scoprire come sono costruite come quando ero bambino, e poi cercare di farle meglio. Non importa se si tratta di un sito WEB, di un'immagine fotografica, un'escursione in alta montagna o nel mezzo del cratere di Empakai sulla via dei vulcani nell'Africa nera, il mio primo istinto è quello di farlo a “modo mio”. E allora credo sia normale evitare ogni replica perché pretendo che la mia vita, e tutto ciò che faccio, sia prima di tutto originale. E poi sono multitasking e quindi programmo mentre scrivo e nel frattempo preparo le interviste.

Daniele Missiroli : Per scrivere usi un sistema che hai messo a punto con l'esperienza, oppure prendi delle note e poi le rielabori con calma?

Abel Wakaam: Per scrivere uso, prima di tutto, un sistema proprietario. Non utilizzo un editor di testo se non per impaginare il romanzo alla fine. Scrivo online usando un'interfaccia che mi fa accedere direttamente al server. In questo modo posso scrivere ovunque mi trovo senza bisogno di un programma dedicato. Alcuni beta lettori hanno accesso al file nel momento stesso in cui viene aggiornato. Ovviamente non prendo nota di nulla, non memorizzo appunti, non seguo schemi, non utilizzo tracce, se non per quantificare la lunghezza di un capitolo. Tutti i miei libri ne contano dieci di varie lunghezze a seconda del genere.

Daniele Possanzini: Il Ghostwriter è un ruolo importante nello scenario editoriale mondiale. Adeguatamente informato di un tuo sogno letterario, potrebbe accadere che un giorno tu decidessi di utilizzarlo?

Abel Wakaam: Per gli stessi motivi che ho elencato prima, credo sia più facile il contrario. Non accetto neppure che un editor modifichi i miei pensieri scritti, figuriamoci l'idea di affidare ad altri il frutto della mia fantasia!

Daniele Possanzini: È evidente che sei autore di differenti generi letterari. Hai una personalità così composita, oppure riesci a scrivere in “terza persona” e comunque mantenere l'empatia con i tuoi personaggi?

Abel Wakaam: I personaggi che si vengono a creare sono la parte incondizionata del mio modus operandi. Non li controllo se non per il tempo necessario a essere risucchiati dentro la trama, poi fanno quello che vogliono e mi stupisco di quanto siano indipendenti, pur mantenendo uno stretto rapporto con me stesso. Insomma, sono un burattinaio sconfessato dai fatti, abbandonato nel mezzo del teatrino dell'impossibile dopo averne eretto le parti essenziali. A volte mi accorgo che c'è il mio ego dentro qualche personaggio e quindi l'empatia si tramuta in battaglia per evitare un plagio letterario in cui non voglio cadere.

Rosaria M. Notarsanto: La ricerca e lo studio sono parte fondamentale per realizzare una storia credibile e coerente, ma molti autori dichiarano sempre che a un certo punto della stesura dei loro manoscritti alcuni personaggi prendono il sopravvento, come se fossero entità vive, obbligando l'autore a cambiare le carte in tavola. A te è mai capitato questo? Eventualmente potresti parlarci dei personaggi che hanno rivoluzionato i tuoi progetti iniziali?

Abel Wakaam: Come ho appena spiegato, i miei personaggi sono talmente ribelli che fanno spesso quello che vogliono e mi conducono esattamente dove non avrei mai voluto o saputo andare. Ma in questo modo apprendo da loro una visione caratteriale che va oltre le mie capacità narrative. In fondo io sono soltanto un “mezzo” per cui possono esistere e quindi svincolano dal “dio supremo” di cui prendo le parti per decidere in ogni istante delle loro vite. È impossibile scegliere a chi di loro sono più affezionato perché dovrei rispondere che si tratta dell'ultimo in ordine cronologico.

Cenzie Loparco: Hai pubblicato diversi romanzi a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro. Come mai hai preso questa decisione? C'è un filo conduttore tra le diverse storie che hai raccontato?

Abel Wakaam: Questo accade perché nel mezzo di una storia mi assale un'idea nuova che non può coesistere con la trama che sto già architettando. E allora parto con un progetto diverso e lo conduco fino al punto in cui mi affascina. In questo modo, mi trovo spesso a portare alla fine diverse storie in contemporanea, che viaggiano parallele tra loro senza mai sfiorarsi. Mi viene quindi naturale pubblicarle entrambe a pochi giorni di distanza.

Cenzie Loparco: La trama di Timeline, i viaggiatori del tempo, è molto intrigante. Da dove ti è venuta l'idea dell'enigmatica fotografia di un uomo seduto su una panchina in una cittadina di Lopar praticamente identica a un'altra immagine scattata a New York oltre un secolo prima?

Abel Wakaam: La storia di Timeline si svolge quasi interamente a Rab, in Croazia, l'antica Felix Arbe dei Romani. È un'isola che conosco come le mie tasche perché vi ho passato molto tempo della mia vita. Uno dei luoghi in cui ho scritto diversi romanzi è il parco Komrcar che si trova oltre le mura della città vecchia e la sovrasta. Lì è normale incontrare gli abitanti che leggono all'ombra dei pini secolari e più di una volta li ho immortalati con un potente teleobiettivo. L'idea della somiglianza con un'identica fotografia scattata a New York mi è servita per coinvolgere gli Americani in una vicenda molto intricata che risale a tanti anni prima. Ma di più non posso raccontare per timore di svelare l'arcano.

Franco Filiberto: Viaggiare, conoscere posti nuovi e nuove persone arricchisce senza dubbio ognuno di noi, ma per uno scrittore sono anche una fonte preziosa di spunti per trame e personaggi. C'è qualcuno o qualcosa che è passato, anche se solo in parte, da un tuo viaggio a un tuo libro?

Abel Wakaam: Per semplicità, dovrei rispondere che ogni cosa che ha nutrito i miei occhi si è fatta parola attraverso le mie dita. Viaggiare è una ghiotta esca per la mente, perché è in grado di trascinarla con una lunga lenza oltre i confini della logica, per plasmare le idee che poi si tramutano in trama. Di ogni luogo che ho visitato mi resta almeno un ricordo più potente degli altri e lo rinnovo periodicamente riguardando le fotografie che hanno immortalato ogni istante di quei giorni. Senza di esse, molti frammenti sarebbero andati perduti e per questo credo che scrittura, viaggio e fotografia siano tre elementi inscindibili nella società moderna.

Franco Filiberto: Cosa pensi dell'editoria italiana e delle piattaforme di self publishing?

Abel Wakaam: A mio parere, l'Editoria italiana è morta e sepolta. Con tutto il rispetto che posso avere per i professionisti del settore, non vedo un futuro plausibile che possa contrastare la spinta liberista che è emersa in questi ultimi anni. Per farti un esempio, se oggi scrivo la parola fine su un romanzo, domani posso effettuare l'upload su Amazon KDP e due giorni dopo mi arriva a casa stampato e rilegato, pronto per essere letto. Con un click può essere acquistato e consegnato in tutto il mondo a tempo di record. Quale CE può fare altrettanto?

Chiara Cipolla: Il mondo del self publishing sta esplodendo; secondo te le Case Editrici si stanno adeguando al cambiamento di stile, di genere, di marketing, di lettori ecc. oppure sono come cattedrali nel deserto, immobili e attaccate ai vecchi schemi?

Abel Wakaam: La Case Editrici tradizionali hanno reagito all'esplosione del self publishing nello stesso modo in cui gli antichi Romani hanno provato a contrastare il cristianesimo. Prima l'hanno deriso e poi trascinato al macero, in nome di una qualità e di un'appartenenza alla Casta degli Scrittori Professionisti. Poi, senza rendersene conto, si sono ritrovate nella stessa Arena e hanno utilizzato le medesime piattaforme online per vendere i propri libri. Con questo grave errore, hanno posto sullo stesso piano entrambi i prodotti, esponendoli uno accanto all'altro in un'unica grande vetrina. È stata l'apoteosi della loro sconfitta.

Barbara Repetto: Cosa pensi delle tecniche di scrittura? Le utilizzi?

Abel Wakaam: Una tecnica riconosciuta, applicata a ogni elemento strutturale, permette di replicare all'infinito un progetto corretto, basandosi sull'esperienza già acquisita. Ma l'arte è un'esplosione di creatività, non è una trave portante su cui far leva per sollevare il mondo. È un velo impalpabile che lo avvolge e che prende forme diverse a seconda della prospettiva con cui lo si guarda. Per evitare di produrre dei cloni, non ci resta allora che evolvere questa tecnica, tralasciando le basi sicure per sperimentare l'impossibile. Io credo che la creatività di un autore debba prendere in considerazione il rischio di abbandonare le strade già conosciute per inerpicarsi laddove nessuno è già arrivato prima.

Barbara Repetto: Cosa ne pensi delle EAP?

Abel Wakaam: Pagare per essere pubblicati è una forma di prostituzione intellettuale a cui ci si rivolge esclusivamente per appagare il proprio ego. Allo stesso modo considero l'assoggettarsi allo sfruttamento di quelle piccole case editrici che, pur non essendo a pagamento, non ripagheranno mai l'autore per il frutto del suo lavoro.

Barbara Repetto: A un autore emergente che spera di realizzare il suo sogno nel cassetto consiglieresti le piccole/medie CE, oppure il mondo del self?

Abel Wakaam: Non amo dare consigli a nessuno perché ogni individuo deve sperimentare sulla propria pelle il risultato dei mille errori che lo porteranno a crescere ed evolversi in continuazione. Personalmente considero principalmente solo due figure legate alla letteratura: l'autore e il lettore. Tutto ciò che si intrufola tra loro deve soltanto essere considerato un mezzo e, come tale, essere al servizio dei protagonisti basilari.

Barbara Repetto: Quale ingrediente fondamentale non deve mai mancare in un buon romanzo?

Abel Wakaam: Per rispondere a questa domanda servirebbero decine di discussioni e ci ritroveremmo alla fine senza riuscire a ricordarci il capo del groviglio da cui siamo partiti. Siccome odio evitare le domande, ti rispondo con l'unica parola che davvero mi appare insostituibile: l'originalità.

Marialuisa Moro: Da dove trai ispirazione per le tue storie e per i tuoi personaggi?

Abel Wakaam: Ho provato a riflettere molte volte su questo enigma e sinceramente non ho trovato una risposta. Di certo l'ispirazione non mi si presenta come un'apparizione divina e nemmeno come una missione da compiere per esaudire i miei sogni. L'ispirazione non concede preavvisi perché altro non è che un impulso riconducibile a fattori irrazionali e fortuiti, spesso privilegiati da una forma di intuizione geniale. Come già detto, i miei personaggi non sono burattini obbedienti che assecondano ogni trama precostituita. Potrei risponderti che tutto avviene per caso... nel caos che precede un ordine precostituito. Ma credo che anche il caos sia frutto di un ordine pregresso, dove ogni concetto si aggrega ai propri simili per poi abbandonarli senza una ragione plausibile. Credo quindi che l'ispirazione possa essere equiparata a uno sguardo furtivo tra due sconosciuti... una mera questione di feeling che non concede scampo a entrambi.
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