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The last Pope
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Circolo Giuseppe Garibaldi - Monterosso Almo.
L'odore dolce del vino e quello acre del sudore riempivano l'aria, solleticando le narici degli anziani giocatori di sette e mezzo, silenziosi nel loro scrutarsi guardinghi l'un l'altro in attesa della reciproca mossa. Il soffio dell'aria calda che arrivò dalla piazza attirò la loro attenzione verso la porta, ma solo uno osò prendere la parola: «Mimmo,» disse all'oste «versa un bicchiere di vino allo straniero venuto da lontano, quello buono mi raccomando.» «Sei davvero sicuro che se lo meriti?» rispose, pulendo con l'avambraccio il marmo del bancone «Mi pare uno di quegli impiccioni che stanno a Roma. Hai presente quelli che non si fanno mai i fatti propri e vengono a insegnarci come dobbiamo trattare le cose nostre?» «È un servitore dello stato,» sorrise Arthur, tornando a controllare gli altri giocatori «un patriota che ha dedicato la vita a questo nostro Paese. Un bicchiere di vino se lo merita, se non altro per tutta la strada che ha fatto.» «Lo conosci?» insistette l'oste. «Lo conoscevo,» continuò l'anziano, sistemandosi ancora una volta le carte tra le dita «in un'altra vita... prima di vivere questa.» «Trovarti mi è costato fatica.» affermò lo sconosciuto «Come diavolo sei finito in questo posto?» «Mio caro capitano,» scosse il capo «in questo posto, così come lo chiami tu, non devo mai guardarmi le spalle. Ma adesso mettiti comodo, bevi il tuo bicchiere di Donnafugata e riposati. Io devo assolutamente finire la partita.» Ci volle oltre un'ora prima che i giocatori urlassero la propria soddisfazione o il disappunto per il risultato ottenuto e solo allora, dopo averli salutati uno per uno, Arthur invitò il capitano a seguirlo all'esterno, fino a raggiungere una panchina ai bordi della piazza. «Questa è l'unica ad avere un albero,» esclamò, lasciandosi cadere a peso morto «e la gentilezza dei miei compaesani consiste nel lasciarla sempre libera apposta per me.» «Mi avevano detto che eri morto.» «No, morto no, ma ci sono andato assai vicino. Un cancro è come la mafia, bisogna prenderlo al cuore per sconfiggerlo davvero.» «Adesso come stai?» «Come un vecchio di quasi settant'anni che si diverte a giocare a carte con quelli più rimbambiti di lui. Cosa sei venuto a fare sin qui?» «C'è bisogno di te.» «Come esempio da non seguire?» sorrise. «A Roma abbiamo bisogno di te.» ripeté. «Questo lo hai già detto, o sono io che faccio confusione con l'eco che mi rimbomba nella testa? Lo sai, noi vecchi abbiamo il problema della memoria, che ricorda soltanto quello che vale la pena di non dimenticare.» «Il vero problema ce l'abbiamo noi e non ne riusciamo a venire a capo.» «Strano,» sorrise, salutando con la mano una signora che passava dall'altra parte della piazza «con tutta la tecnologia di cui disponete, non dovreste avere di questi timori. Ma d'altronde hai impiegato un mese per trovarmi.» «Come sai che ti stavo cercando?» «Certe notizie arrivano prima di altre e alcune scivolano nei vicoli, facendo paura anche ai ratti.» «Quindi lo sai?» «Conosci il detto: morto un Papa se ne fa un altro?» «Dipende da come muore.» gli ribadì il capitano «Se viene ammazzato, diventa un problema serio.» «Bene, allora auguri per la vostra indagine, io invece ho altro a cui pensare. Ancora non ho capito come ha fatto quel minchione di Salvatore a vincere la partita. Lo so che ha barato, questo è certo, ma mi piacerebbe comprendere in che modo ci è riuscito. È una questione seria.» «Maledizione Arthur, io ti sto raccontando che vogliono uccidere il Papa e ti preoccupi della partita a sette e mezzo?» «Cosa posso fare io? Sono vecchio, sono scampato a una morte atroce, ho vinto la mia personale battaglia col cancro e per la prima volta cerco di vivere con tranquillità questi anni che mi restano. E poi non sono nemmeno cristiano, ho solo finto di pregare la mattina dell'operazione.» «Hai finto di pregare?» «Certo, mi sono inginocchiato di fianco al letto, ho messo le mani giunte e ho borbottato qualcosa muovendo le labbra. Non le conosco nemmeno le parole delle preghiere. E poi basta il pensiero no? Così Gesù Cristo non mi ha voluto e per vendetta adesso vogliono ammazzargli il Papa.» «Arthur non scherzare.» lo afferrò per un braccio «Ti rendi conto cosa potrebbe accadere se succedesse davvero?» «Non sarebbe la prima volta. È già capitato con Paolo VI nel novembre del 1970. L'attentatore era un uomo vestito da prete che impugnava con una mano un crocifisso e con l'altra un pugnale. E poi è successo ancora con Giovanni Paolo II nel maggio del 1981, addirittura in piazza San Pietro, a opera di Mehmet Ali Ağca. Lo sappiamo entrambi che se vogliono davvero ammazzare qualcuno non c'è modo di evitarlo. Perché darsi tanta pena?» «Che stai cercando di dirmi?» «L'unica spiegazione è che furono soltanto delle messinscene.» allargò le braccia «La politica e la religione sono faccende sporche.» «Lasciamo perdere. Dirò che non ti ho trovato, oppure che eri così ubriaco da non essere nemmeno in grado di riconoscermi. Cercherò qualcuno che non abbia il dente avvelenato quanto te!» «Fai bene,» annuì «non sono il tipo da poter usare come paracadute, specialmente se l'aereo è già in fiamme da ore. Io ragiono con la mia testa e i miei metodi non sono mai piaciuti a nessuno. L'unico motivo per cui ti hanno mandato da me è perché gli serve una vittima sacrificale, qualcuno a cui dare la colpa se le cose andassero male. Sono vecchio ma non ancora completamente rincoglionito.» «E allora dimostraglielo e prenditi la tua rivincita. Cos'hai da perdere?» «La faccia,» respirò profondamente, brontolando qualche parolaccia incomprensibile «non mi piace affatto l'idea di perderci la faccia. Lo sai, sono uno di quei vecchi che crede ancora nella giustizia, nell'onestà e altri valori che ormai sono stati spazzati via dalla corsa al potere, costi quello che costi.» «Ho capito, non te ne frega più nulla di niente e di nessuno.» «E poi cosa mai potrà accadere se un gruppo di terroristi islamici tagliasse la gola al Papa, magari mentre si affaccia alla finestra per benedire la folla? Lo stesso si potrebbe dire se poi appendessero al balcone la loro bandiera nera. Non scoppierà di certo la terza guerra mondiale!» «Chi ti ha dato queste informazioni?» «Te l'ho già detto, certe notizie strisciano nei vicoli insieme ai ratti. Basta saper tradurre i loro squittii.» Il capitano fece la mossa di andarsene, ma i suoi passi erano così lenti da non riuscire a ingannare l'attento interlocutore. «Non è vero che non te ne importa niente,» si voltò all'improvviso «stai soltanto alzando la posta in gioco.» «Quindi stai ipotizzando che io voglia accettare l'incarico, ma tergiverso per ottenere qualcosa in cambio?» «Arthur, io ti conosco. Muori dalla voglia di tornare e sputtanare tutti, compreso chi ti ha messo in pensione.» «Beh, nel caso avrei scelto una rogna minore» scoppiò a ridere. «No, non è vero, a te questa storia intriga parecchio. Stai spudoratamente bluffando.» «Non ho più l'età per giocare a Risiko, odio guidare e ho bisogno del bagno più di quanto sia necessario. Già mi davano del rimbambito ancora prima dell'operazione, figuriamoci adesso che non sono nemmeno autonomo.» «Cosa vuoi per accettare?» «Quello che mi serve lo si può trovare in qualsiasi cesso.» «Non riesco a seguirti.» «Prova a pensarci. Io ho tempo. Ormai la partita a sette e mezzo l'ho persa e devo soltanto riuscire a capire come Salvatore poteva avere quel maledetto sette di quadri.» «Non mi piacciono gli enigmi.» «Impegnati. Ragionare sui dettagli è basilare per fare questo lavoro. Ormai fanno decidere tutto ai computer, che sono intelligentissimi certo, ma mancano di una qualità umana indispensabile. Si chiama intuito e non è una mera questione di velocità, anzi, meno impieghi a ragionare e più ti perdi qualcosa. Cos'è davvero indispensabile in un bagno?» «La carta igienica.» «Hai visto che se ci pensi bene le risposte più banali arrivano.» «Ancora non capisco...» «Ho bisogno di avere carta bianca, sia al cesso che per assumermi la responsabilità di un'indagine complessa come questa.» «Nessuno al SSI ti firmerà una delega in bianco.» «Non la voglio da uno di quei generali impettiti» sorrise «la pretendo dal capo del Governo.» «Cazzo Arthur, non è così che ci stiamo dando una mano per risolvere questo casino!» «E poi mi serve un autista, anzi una autista di genere femminile. Andrebbe bene una poliziotta giovane e dinamica... che sappia anche cucinare, mi raccomando. Dovendo passare con lei un sacco di tempo, è d'obbligo che non sia una rompicoglioni.» «Niente altro?» domandò il capitano con aria sarcastica. «Il senso di avere carta bianca comprende davvero tutto: finanziamenti illimitati, disponibilità di mezzi e quant'altro mi possa venire in mente. Ho specificato la necessità della poliziotta autista per puro sfizio personale.» «Addio!» «A presto capitano.» lo salutò con noncuranza «La settimana prossima mi puoi trovare a Marzamemi, da 'u Curtu e ci resterò per una decina di giorni.» Quando l'ufficiale in borghese si fu allontanato di un centinaio di metri, sentì l'anziano bestemmiare ad alta voce. Ritornato sui propri passi, lo trovò che malediva il nome di Salvatore in tutte le sfaccettature del dialetto siculo. «Che diavolo succede ancora?» «È colpa tua... è tutta colpa tua! Quando sei entrato dalla porta del circolo hai fatto il danno. Quel minchione ha approfittato dalla mia distrazione e si è fottuto il sette di quadri da sotto il mazzo, e naturalmente gli altri suoi compari gli hanno retto il gioco. Adesso, oltre alla carta bianca, alla poliziotta autista e cuoca... e anche un poco badante, devi farmi avere anche un panetto di Astrolite G. Forse basta anche mezzo, perché la casa di quell'imbroglione è già terremotata di suo e se dovesse collassare, nessuno si preoccuperà di cercarne il vero motivo.» «Avevano ragione a dirmi che avrei fatto una strada a vuoto. Non ci sei più con la testa.» «Dovevi dar loro retta e avallare le loro indagini a senso unico. Ti ricordi cosa ti ho detto prima sui tentati omicidi di Paolo VI e Giovanni Paolo II?» «Se davvero avessero voluto ucciderli lo avrebbero fatto.» replicò prontamente il capitano. «Quindi ti sembra logico che due arabi, quasi certi di essere intercettati, si gongolino all'idea di appendere la loro bandiera nera sul Vaticano?» «Come hai saputo questi particolari? No, lascia perdere... non voglio sentire un'altra volta la storia dei ratti nel vicolo. Comunque buona fortuna, divertiti a Marzamemi.» «Ti faccio tenere in caldo un piatto di cernia alla matalotta. Va bene per giovedì al ristorante di 'u Curtu?» «Addio Arthur,» lo abbracciò «è stato bello lavorare con te ai tempi dell'Iraq. Cerca di vivere al meglio questi anni, specialmente dopo quello che hai passato.» «Mora...» lo salutò col cenno della mano quando ormai si stava allontanando «la poliziotta la voglio mora.» «Un tempo ti piacevano le bionde!» gli urlò. «Le bionde si riconoscono anche sotto il burqa. Non vanno bene per questa indagine!»
Ristorante 'u Curtu - Marzamemi
Il mare strapazzava la spiaggia come fa il vento con le foglie d'autunno. Le persiane scolorite del vecchio ristorante dondolavano in una specie di danza scomposta, seguendone l'alito caldo che soffiava dall'Africa. «Lo scirocco è sempre di buon auspicio perché spinge le barche verso casa.» affermò l'oste «Ma ditemi una cosa, perché tutti vi chiamano Arthur? Voi siete siciliano come me e dovete avere un nome vero da siciliano.» «Per la verità non sono nemmeno italiano» gli rispose, tenendo d'occhio il livello del vino che saliva lentamente lungo il calice. «Sono nato ad Aleppo da madre friulana e padre inglese. Siamo tornati in questo Paese nel 75.» «Però parlate proprio perfettamente come noi!» «Si vede che ho visto troppe volte il “Padrino”!» scherzò, alzando il bicchiere per evitare che strabordasse. «Io invece vi ho sempre creduto uno di noi,» continuò l'oste, pulendo col tovagliolo il collo della bottiglia «per me siete proprio un siciliano autentico.» «Se si vuole scomparire all'interno di un gregge, bisogna avere il pelo come tutti gli altri.» gli sorrise. «Non ho capito,» scosse il capo «ma a Monterosso tutti parlano bene di vossia.» «Invece della tua cernia si dice che sia la migliore di Siracusa e dintorni,» sollevò di nuovo il calice nell'atto di mimare un brindisi «per questo vengo a trovarti così spesso.» «Mi avete fatto preparare la tavola per due,» obiettò, facendo un passo indietro e chinandosi in segno di ringraziamento «ma siete da solo come sempre. Non ditemi che state aspettando una bella fimmena, perché non tengo nemmeno una rosa da mettere in mezzo alla tavola. Bisogna essere premurosi e romantici con le picciotte. Non ve lo devo certo insegnare io.» «Aspetto un amico, ma se dovesse davvero arrivare, la prossima volta mi vedrai accompagnato anche da una bella picciotta, almeno spero.» «Non lo potete chiamare questo vostro conoscente, così mi organizzo meglio in cucina?» «Da qualche anno non ho più il telefono. Se qualcuno ha qualcosa da dirmi, mi può venire a trovare!» «Forse il vostro amico è arrivato,» allungò lo sguardo verso la strada «c'è un macchinone che pare quello del Presidente della Repubblica.» «I soliti esagerati!» commentò Arthur, continuando a sorseggiare il vino «Se non hanno duecento cavalli sotto il cofano, hanno paura di non arrivare a destinazione.» Il capitano questa volta non era venuto da solo, ma in compagnia di una ragazza dall'aria pensierosa. Indossava un paio di jeans e una camicia blu scura, camminava dietro di lui e quasi si nascondeva alla vista. Si avvicinarono con passo svelto, per poi arrestarsi lungo la balconata che si affacciava sul mare. «Curtu!» gridò Arthur, battendo con la forchetta sul bicchiere «ce la possiamo fare ad aggiungere un posto a tavola?» «Come quella famosa commedia dottore!» annuì «Un posto in più lo si trova sempre. A mia moglie piaceva assai Johnny Dorelli. E io ero pure geloso!» Solo allora il capitano si avvicinò al tavolo e rimase in piedi senza parlare, finché l'oste aggiunse il piatto mancante e una sedia. «Quindi sei tornato?» lo interrogò, appena restarono soli «E hai portato con te anche la mia autista mora, nonché brava cuoca.» «Mi chiamo Isotta Lentini,» si presentò la ragazza «mi scusi... agente scelto Isotta Lentini per servirla.» «Ti piace la cernia alla matalotta?» «Non saprei, non l'ho mai assaggiata.» «Da dove vieni?» «Sono originaria di Torino.» «Si passano i filetti di cernia in un po' di farina, mentre in una padella si fa soffriggere metà cipolla tagliata alla julienne e l'aglio a lamelle con un po' d'olio. Poi si aggiungono i filetti e si fanno rosolare. Un poco di vino bianco, pomodorini tagliati in quarti e si condisce il tutto con sale e pepe. Il segreto è irrorarli con il brodo di pesce, quindi si aggiunge l'alloro e i funghi precedentemente puliti. Un pizzico di prezzemolo tritato e si fa cuocere a fuoco lento per 5 minuti. È una meraviglia!» «È importante spiegare nel dettaglio come si cucina questo piatto?» intervenne nervosamente il capitano. «La ragazza deve pur sapere cosa sta per mangiare. Ti ho già spiegato l'altra volta che i dettagli sono estremamente importanti.» «Arthur, stiamo sprecando del tempo prezioso.» «Il tempo prezioso è quello che serve per capire chi abbiamo davanti. Ora ti dimostro che, a differenza tua, Isotta ha prestato molta attenzione alle mie parole. Sei in grado di ripetere tutto quello che ti ho detto vero?» Immediatamente, la ragazza elencò uno ad uno i passi della ricetta appena ascoltata, proprio come erano stati illustrati da Arthur. «Lo vedi capitano? Non è un semplice agente scelto, pescato a caso nella lista di quelli che non si sa dove sbatterli. No, viene direttamente dalla scuola del SSI, istruita a non perdersi un solo dettaglio di cosa le succede intorno. Avevo chiesto una poliziotta mora come autista e cuoca, non una balia che vi informa di quante volte sono costretto ad andare in bagno!» «È quello che mi hanno dato.» «Se la ragazza si permetterà di condividere con chiunque altro una sola informazione sul mio operato, farò trapelare negli ambienti degli animalisti la sua propensione a scuoiare vivi gli scoiattoli.» «Ma non è vero!» si affrettò a replicare Isotta. «Preferisci forse che mandi la tua foto agli integralisti islamici, immortalata mentre calpesti un ritratto di Maometto?» «Va bene Arthur,» lo interruppe nervosamente il capitano «ora diamoci una calmata e veniamo alle cose serie. È già spaventata abbastanza senza che tu esageri col tuo atteggiamento oltranzista.» «Volevo soltanto assicurarmi che avesse capito cosa pretendo da chi lavora con me.» La guardò dritta negli occhi. L'arrivo della cernia sciolse la tensione che si era creata e per tutto il tempo del pranzo sembrò regnare una sorta di tranquillità imposta. Solo al termine, al momento del caffè, il capitano domandò ad Arthur il motivo per cui non gli avesse ancora chiesto la famosa carta bianca che avevano pattuito. «Mi conosci,» gli rispose, alzando alternativamente le natiche dalla sedia «e quindi sai benissimo che non mi fido dei tuoi capi. Sarebbero capaci di falsificare persino i miei esami del sangue. Grazie comunque per non esserti interessato della mia salute, ma sappi che sto abbastanza bene. Niente chemio né radioterapia, non sono necessarie. A questo punto credo proprio che Gesù Cristo abbia dovuto scegliere tra me e il Papa, perché altrimenti in tutta questa storia non trovo una spiegazione logica. A meno che mi abbia tenuto in vita perché ritiene che sono l'unico che può salvare il suo avatar sulla Terra.» «Il Presidente del Consiglio sarà a Lampedusa tra una decina di giorni» gli confidò «quindi si rende necessario un incontro privato tra voi. In quel contesto potrai richiedere direttamente a lui ciò a cui tieni così fermamente.» «Se siete arrivati sino a questo punto,» affermò Arthur, allora siete proprio nella merda più totale! Chiedo scusa a Isotta, ma a volte non ci sono termini che rendono l'idea quanto quelli meno signorili.» «Non si preoccupi,» lo rassicurò la ragazza «ho fatto l'accademia in mezzo ai maschi e sono vaccinata contro ogni sproloquio.» «Il plico con tutte le informazioni riservate dov'è?» «Nel bagagliaio dell'auto.» rispose il capitano, allungando l'occhio verso la strada. «È già un miracolo che ti abbiano lasciato le ruote,» lo schernì «se non fosse per me saresti tornato a casa a piedi. Il bagaglio della ragazza?» «È insieme al fascicolo.» «Ti dispiace andare a prendere tutto quello che serve e portarlo qui mentre faccio quattro chiacchiere con Isotta? Impiegaci pure tutto il tempo che ti pare, anzi... anche di più.» Una volta rimasti soli, restò a fissarla senza proferire parola. «Devo preoccuparmi per qualcosa che ho detto o fatto?» «No,» le rispose con voce calma «stavo soltanto cercando di collocarti tra i miei parenti.» «Non capisco.» «Sì, ho deciso, ti presenterò come una mia nipote.» «Mi scusi, presentarmi a chi?» «Intanto mi devi dare del tu e poi devi cercare di trattarmi come se fossi un vecchio nonno un po' confusionario. D'altronde non saresti credibile come amante.» «Troppa differenza di età?» sorrise. «Lo sanno tutti che ho un debole per le bionde!» le rispose. Prima che tornasse il capitano, Arthur si alzò in piedi e chiese alla ragazza di accompagnarlo fino alla balconata che si affacciava sul mare. «Lo so fare da solo,» le spiegò «ma mostrarsi deboli a volte può servire a ingannare i potenti. Non te lo chiederò un'altra volta, te la senti davvero di lavorare al mio fianco?» «Ne parli come se dovessimo affrontare la fine del mondo.» «Cara ragazza, se qualcuno di quei fanatici col turbante riuscisse ad ammazzare il Papa in diretta TV, le Crociate sarebbero soltanto una flebile schermaglia al confronto.» «Non basterebbe rafforzare le misure di sicurezza?» «Se fossi tu a volerlo fare, hai idea di come oltrepassare tutte le protezioni?» «Sinceramente no. E tu?» «Sarebbe già appeso a testa in giù sulla croce.» decretò Arthur «Ma il problema non è assassinare il Papa, ma il modo in cui lo vogliono fare. È questa la differenza: l'ostentazione della forza è tremendamente più deleteria dell'atto stesso. Comunque non hai ancora risposto alla domanda.» «Accetto...» esclamò «a questo punto non ho molte alternative.» «Allora lascia il tuo cellulare e la pistola sull'auto del capitano. Ci sarebbero solo d'impiccio.» «Non so se posso abbandonare l'arma.» «Non era un consiglio.»
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Pensione Marenostrum - Marzamemi
La camera non lasciava scampo. Un letto matrimoniale diviso a metà, un tavolino con una sola sedia e uno stretto balcone con una panchina di legno verniciata di azzurro. «Che ci facciamo qui?» domandò Isotta. «Ci facciamo conoscere per qualche giorno.» «E poi?» «E poi andiamo a trovare Giovanni Messina.» «È latitante da tre anni.» obiettò «Lo cercano tutti, compresa l'antimafia e una squadra speciale mista di Carabinieri e Polizia.» «Ma noi non siamo una squadra speciale, quindi andiamo nella sua villetta al mare e chiediamo gentilmente se ci fanno parlare con lui di persona personalmente, come si diceva sempre nei telefilm di Montalbano.» Isotta sospirò profondamente. «Ammesso anche che riuscissimo a sapere dove si trova, non capisco a cosa ci serve parlare con un capo mafioso. Sempre che non ci sparino addosso appena ci avviciniamo a qualcosa che gli appartiene.» «Abbiamo bisogno di soci.» «Di soci? Noi siamo la Polizia, non cerchiamo soci tra i mafiosi.» «Quando si difendono i medesimi interessi, tutti possono far comodo. Gli Israeliani sono soliti dire che i nemici dei loro nemici possono essere quasi considerati amici.» «A cosa ci serve la mafia?» «Se scoppia l'ennesima guerra santa, gli spostamenti di ogni tipo di merce subiscono un brusco rallentamento. E comunque, chi controlla il flusso dei migranti è sempre ben informato anche su chi transita nei nostri confini.» «Quindi andiamo a casa di Messina,» ripeté con tono sarcastico «suoniamo il campanello e chiediamo di bere una tazza di caffè in compagnia?» «No, tu suoni il campanello e quando esce la signora gli spieghi che tuo nonno sta male e ha bisogno urgentemente di un bagno.» «Non può funzionare.» Scosse il capo «Bene che vada ci cacciano a calci.» «Giovanni Messina non è uno stupido come l'antimafia vuol far credere. Sa benissimo chi sono, altrimenti non mi avrebbe lasciato prendere casa in questa zona. Se avesse voluto affogarmi dentro un pilone di cemento armato, lo avrebbe già fatto da tempo. A volte conviene tenersi vicino un buon nemico per lasciar credere a tutti che il giardino di casa è pulito. Se non proviamo, non sapremo mai se la nostra strategia può funzionare.» «Anche il suicidio organizzato può essere considerato una strategia? Hai già deciso quando andremo al patibolo?» «Forse domani, forse dopo...» sospirò Arthur «prima dobbiamo passeggiare in quella strada più volte. A proposito, ci serve un cane e un guinzaglio per rendere più credibile il nostro girovagare. A Pozzallo c'è un canile, dovresti farci un salto oggi stesso.» «Con quale auto?» «'u Curtu ha un camioncino. Domani a pranzo glielo chiediamo in prestito.» «L'ho visto, è un Ape Piaggio degli anni 80,» obiettò Isotta «era parcheggiato dietro il ristorante e probabilmente lo usa soltanto per trasportare il pesce!» «Vedrai che al cane piacerà starsene su quel cassone tutto profumato. Sarà il viaggio più entusiasmante della sua vita.» «Certamente non della mia. Che cane vuoi?» «Uno che sta zitto.» replicò prontamente Arthur «Lo sai come sono fatti, hanno una testa, quattro zampe e una coda. Insomma sceglilo tu, ma resta su una taglia piccola. Sarà più comodo e maneggevole da portare in giro. Però ricordati di fartelo solo prestare. Digli che lo prendi per un periodo di prova perché tuo nonno è arteriosclerotico e vuoi vedere come reagisce.» «Questa potrebbe non essere una bugia.» sorrise Isotta.
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Quando il giorno successivo la ragazza tornò col cane, era disperata. I jeans strappati e la camicia lercia di zampate. Arthur la sentì arrivare da due isolati di distanza, mentre urlava per cercare di tenere a freno l'irruenza di quel molosso che non era mai uscito dalla gabbia in tutta la sua povera esistenza. Le andò incontro con aria rassegnata, tese la mano alla bestia e questa gliela sbavò completamente di saliva. «Più piccolo non c'era?» domandò con aria disinvolta. «A detta delle due donne che gestiscono la struttura, questo era l'unica bestia adottabile. Non vogliono nemmeno che lo riportiamo indietro e mi hanno pregato di lasciarlo libero in un altro paese.» «Allora lo teniamo,» allargò le braccia «ha la stessa espressione di quando mi hanno lasciato uscire dall'ospedale. Ha un nome?» «Sul collare c'è una medaglietta con scritto Cat.» «Cat tipo gatto in inglese?» «Credo sia Cat, il diminutivo di Caterpillar.» Arthur prese dalla tasca una caramella, la scartò con calma, ordinò più volte al cane di sedersi e poi gliela ficcò letteralmente in bocca. «Adesso giri con le caramelle in tasca?» «Le ho prese dal meccanico mentre acquistavo l'auto.» «Quale auto?» «Non vorrai andare in giro con quel furgone che puzza di pesce? Dobbiamo darci un'apparenza più signorile. Ho preso un auto per spostarci in autonomia.» «Che tipo di auto?» «Carina, quasi nuova, quattro posti, verde.» «Ha un nome, una marca?» «È una tedesca. Loro sono bravi con la meccanica.» «Perché non l'hai portata a casa?» «Se fossi in grado di guidare decentemente, non avrei chiesto una simpatica autista come te.»
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Era un'agile e scattante Prinz mille del 75, motorizzata con un glorioso bicilindrico di derivazione motociclistica, che non lasciava dubbi sulla sua scarsa propensione a correre. Di buono c'era la sua proverbiale robustezza e la solidità dei paraurti a cui Cat veniva regolarmente legato durante i pranzi da 'u Curtu. Ogni volta che volevano passeggiare davanti alla villetta di Messina, la parcheggiavano sul lungomare e poi risalivano a piedi la stretta via che rasentava quell'alta recinzione cieca, protetta da una pesante cancellata. Lo fecero regolarmente tutti i giorni per una settimana, finché Arthur, in un momento di deliberata follia, si accasciò senza preavviso davanti al cancello incriminato. Isotta si preoccupò immediatamente di suonare il campanello e finalmente un'anziana signora si avvicinò al portone, chiedendo cosa volessero. La messa in scena non durò che pochi secondi e la proprietaria si affrettò ad allontanarli, minacciando addirittura di chiamare la Polizia. «Abbiamo fatto la figura dei deficienti!» sbottò Isotta, da lì a poco. «Caso mai sei tu ad aver fatto una figuraccia,» replicò Arthur «io me ne stavo tranquillamente a terra finché sarebbero arrivate le forze dell'ordine.» «In un primo momento mi sono persino preoccupata che avessi picchiato la testa contro il portone. Non potevi almeno cadere in modo più comodo?» «Certo, ma non sarei riuscito a far filtrare un pizzino oltre il cancello.» «Tu sei pazzo!» gli sussurrò, allontanandosi col cane «Me lo avevano detto che eri andato davvero fuori di cervello, ma non volevo crederci. Avevo letto persino i tuoi rapporti sull'Iraq e ti stimavo per ciò che avevi fatto. Mi stupisco che si siano rivolti a te per questo casino... a cui certamente sei in grado di aggiungerne dell'altro!» Mentre la ragazza gridava, la serratura elettrica del portone emise un rumore metallico, la vecchia signora uscì con in mano una tazza e la porse ad Arthur, che lentamente si ricompose. «Non si può far mancare un poco d'acqua a un povero cristiano,» disse «mi dovete scusare per prima, ma non vi avevo riconosciuto e, con tanta brutta gente che c'è in giro, non si sa mai chi ci si può trovare di fronte.» Isotta guardò la scena a debita distanza, continuando a scuotere il capo senza darsi una spiegazione. Con Cat che tirava come un ossesso, ritornò sui propri passi fino a raggiungere Arthur. «Non ci capisco più niente.» ammise «Prima ci manda via dicendo che va a chiamare la Polizia e poi esce con una tazza d'acqua per rincuorarti?» «La tazza è vuota.» sogghignò «mostrandole il contenuto.» Ciò che invece la ragazza non si aspettava di certo, era la risposta al pizzino lasciato qualche minuto prima. «Cazzo... cazzo... cazzo... » bisbigliò Isotta «allora Messina è lì dentro? Cosa c'è scritto?» «Niente, è solo un biglietto da visita di 'u Curtu con sottolineato l'orario di chiusura serale.» «Cazzo... l'abbiamo beccato!» «No, veramente è lui che ha beccato noi. Questo è un invito a cena che non si può proprio rifiutare.» «Potremmo preparargli una sorpresa.» «Chiediti perché sono arrivato alla mia età senza mai essere stato davvero in pericolo.» «Perché ti sei sempre nascosto dietro le spalle degli altri che andavano a rischiare la vita al posto tuo?» «Lo pensi davvero?» «Ti diverti a lasciar credere che sei un totale rincoglionito vero? Ed io sono la stupida perfetta con cui ti diverti a sparare le tue cazzate, tipo quella degli scoiattoli scuoiati e della foto di Maometto.» «Esiste una parola magica che ci salva il culo in ogni occasione» le rispose «e si chiama rispetto. Rispetto delle regole, rispetto delle persone e rispetto delle gerarchie. Noi qui siamo ospiti, magari poco graditi, ma sempre ospiti. Messina è preoccupato quanto noi di un possibile attentato al Papa. La mafia ha bisogno di quiete per lavorare in tranquillità e un attentato non è certo ciò che le serve.» «Quindi lo incontrerai?» «Lo incontreremo.» annuì, rifilando una carezza al cane. «È una vita che aspetto questo momento e mi sono trasferito in Sicilia proprio per questo.» «Prima o dopo aver scoperto delle intercettazioni che riguardano il Papa?» «È importante?» «Pretendi che io mi affidi completamente a te, anima e corpo, e invece mi tieni all'oscuro di quello che ti passa realmente nella testa?» «Ancora non so se posso fidarmi.» ammise Arthur «La verità è che non sono abituato a condividere qualcosa con gli altri.» «E allora vattene a fanculo!» gli urlò Isotta «Non ero obbligata a venire qui. Ho accettato per l'ammirazione che ho sempre avuto nei tuoi confronti. Mi sono offerta volontaria appena ho saputo che cercavano qualcuno per questa indagine. Tu invece sei uno spocchioso vecchio egoista, che tratta tutti come se dovessero pendere dalle tue labbra. E guai a permettersi di dissentire, perché altrimenti tiri in ballo gli animalisti e i terroristi a cui puoi mandare l'indirizzo di casa di chi ti sta sui coglioni! Ho lasciato una vita per venire qui e mi tratti come una cretina qualunque.» |
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Sono un raccontastorie. Gli scrittori veri sono diversi perché seguono le regole e i dogmi prefissati dalla casta. Un ribelle tutto questo non lo può accettare, se non a un prezzo troppo alto per riuscire a sopravvivere oltre le convenzioni. Mi piace pensare di non aver mai dovuto chinare la testa, se non di fronte alla bellezza interiore. Sorrido all'idea di non aver mai dovuto “chiedere” e mi cullo nella convinzione che non esistano confini, se non quelli che alziamo noi stessi per difenderci dagli altri. Sono impudente, a volte sfacciato, pragmatico, combattivo e mai domo. Amo la libertà, ma questo è il sogno di chiunque. Io però l'adoro al punto da andarla a cercare nei luoghi dove il nulla è sinonimo di meraviglia. Ma sono anche un “solitario pentito” che non disdegna la buona compagnia. La passione per la fotografia completa il quadro terreno della mia mancata spiritualità e mi conduce da sempre sul sentiero impervio che ha costellato la mia vita.
Nunzia Alemanno: Come ti è venuta l'idea di realizzare una piattaforma web come Writer Officina? È un progetto a cui stavi già lavorando da tempo oppure è stata una lampadina che si è accesa di recente?
Abel Wakaam: È un'idea che covavo da tempo e che ha preso corpo frequentando diversi Gruppi di letteratura su Facebook. Mi è parso di capire che gli Autori volessero insistentemente far conoscere i propri testi, ma che al tempo stesso fossero intimiditi da certe critiche che mi erano sembrate immotivate. Inoltre, mi sono reso conto di come la formattazione di Facebook non fosse adatta alla lettura di un testo abbastanza corposo da incuriosire i lettori, e quindi si rendeva necessaria una pagina WEB strutturata in modo da facilitare questo compito. Riguardo alle recensioni pubbliche, spesso tendono a incensare più chi le fa, ponendo lo scrittore in una sorta di colpevolezza immotivata. Questo è il motivo per cui ho preferito renderle strettamente private su Writer Officina. E poi sono arrivate le interviste a completare un processo di visibilità degli autori stessi. Ma non ci fermeremo qui.
Nunzia Alemanno: Si legge nella tua biografia che hai una grande passione per l'Africa, “un luogo dove ognuno percepisce la netta sensazione di esserci già stato”, da una tua citazione. Quanto, questa terra, ha contribuito alla tua scrittura? Ci sono dei testi in particolare che ricalcano le tue esperienze vissute in quei bellissimi luoghi?
Abel Wakaam: L'Africa è una parte di noi rimasta altrove, una forma arcaica di memoria che è stata marchiata a fuoco nel nostro DNA. Arriviamo da lì, da quella terra sconfinata che ci ha visto scendere dagli alberi per camminare eretti, e non possiamo cancellare le nostri origini semplicemente assumendo le vesti dell'Omo Tecnologicus! Nei mie testi, l'Africa è presente come “parte istintiva di un'azione incondizionata”. In alcuni la si percepisce “sotto pelle” mentre in altri è una “forma ribelle” che si rifiuta di seguire le regole. A volte credo che l'Africa sia la nostra parte più umana che cerca di emergere in questa società che diventa sempre più disumana.
Daniele Missiroli: Sei un esploratore e un bravissimo programmatore. Come fai a conciliare due attività così diverse?
Abel Wakaam: Sono principalmente un uomo curioso e non mi accontento di ammirare “le cose degli altri”. Voglio guardarci dentro, voglio scoprire come sono costruite come quando ero bambino, e poi cercare di farle meglio. Non importa se si tratta di un sito WEB, di un'immagine fotografica, un'escursione in alta montagna o nel mezzo del cratere di Empakai sulla via dei vulcani nell'Africa nera, il mio primo istinto è quello di farlo a “modo mio”. E allora credo sia normale evitare ogni replica perché pretendo che la mia vita, e tutto ciò che faccio, sia prima di tutto originale. E poi sono multitasking e quindi programmo mentre scrivo e nel frattempo preparo le interviste. Daniele Missiroli : Per scrivere usi un sistema che hai messo a punto con l'esperienza, oppure prendi delle note e poi le rielabori con calma?
Abel Wakaam: Per scrivere uso, prima di tutto, un sistema proprietario. Non utilizzo un editor di testo se non per impaginare il romanzo alla fine. Scrivo online usando un'interfaccia che mi fa accedere direttamente al server. In questo modo posso scrivere ovunque mi trovo senza bisogno di un programma dedicato. Alcuni beta lettori hanno accesso al file nel momento stesso in cui viene aggiornato. Ovviamente non prendo nota di nulla, non memorizzo appunti, non seguo schemi, non utilizzo tracce, se non per quantificare la lunghezza di un capitolo. Tutti i miei libri ne contano dieci di varie lunghezze a seconda del genere.
Daniele Possanzini: Il Ghostwriter è un ruolo importante nello scenario editoriale mondiale. Adeguatamente informato di un tuo sogno letterario, potrebbe accadere che un giorno tu decidessi di utilizzarlo?
Abel Wakaam: Per gli stessi motivi che ho elencato prima, credo sia più facile il contrario. Non accetto neppure che un editor modifichi i miei pensieri scritti, figuriamoci l'idea di affidare ad altri il frutto della mia fantasia!
Daniele Possanzini: È evidente che sei autore di differenti generi letterari. Hai una personalità così composita, oppure riesci a scrivere in “terza persona” e comunque mantenere l'empatia con i tuoi personaggi?
Abel Wakaam: I personaggi che si vengono a creare sono la parte incondizionata del mio modus operandi. Non li controllo se non per il tempo necessario a essere risucchiati dentro la trama, poi fanno quello che vogliono e mi stupisco di quanto siano indipendenti, pur mantenendo uno stretto rapporto con me stesso. Insomma, sono un burattinaio sconfessato dai fatti, abbandonato nel mezzo del teatrino dell'impossibile dopo averne eretto le parti essenziali. A volte mi accorgo che c'è il mio ego dentro qualche personaggio e quindi l'empatia si tramuta in battaglia per evitare un plagio letterario in cui non voglio cadere.
Rosaria M. Notarsanto: La ricerca e lo studio sono parte fondamentale per realizzare una storia credibile e coerente, ma molti autori dichiarano sempre che a un certo punto della stesura dei loro manoscritti alcuni personaggi prendono il sopravvento, come se fossero entità vive, obbligando l'autore a cambiare le carte in tavola. A te è mai capitato questo? Eventualmente potresti parlarci dei personaggi che hanno rivoluzionato i tuoi progetti iniziali?
Abel Wakaam: Come ho appena spiegato, i miei personaggi sono talmente ribelli che fanno spesso quello che vogliono e mi conducono esattamente dove non avrei mai voluto o saputo andare. Ma in questo modo apprendo da loro una visione caratteriale che va oltre le mie capacità narrative. In fondo io sono soltanto un “mezzo” per cui possono esistere e quindi svincolano dal “dio supremo” di cui prendo le parti per decidere in ogni istante delle loro vite. È impossibile scegliere a chi di loro sono più affezionato perché dovrei rispondere che si tratta dell'ultimo in ordine cronologico.
Cenzie Loparco: Hai pubblicato diversi romanzi a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro. Come mai hai preso questa decisione? C'è un filo conduttore tra le diverse storie che hai raccontato?
Abel Wakaam: Questo accade perché nel mezzo di una storia mi assale un'idea nuova che non può coesistere con la trama che sto già architettando. E allora parto con un progetto diverso e lo conduco fino al punto in cui mi affascina. In questo modo, mi trovo spesso a portare alla fine diverse storie in contemporanea, che viaggiano parallele tra loro senza mai sfiorarsi. Mi viene quindi naturale pubblicarle entrambe a pochi giorni di distanza.
Cenzie Loparco: La trama di Timeline, i viaggiatori del tempo, è molto intrigante. Da dove ti è venuta l'idea dell'enigmatica fotografia di un uomo seduto su una panchina in una cittadina di Lopar praticamente identica a un'altra immagine scattata a New York oltre un secolo prima?
Abel Wakaam: La storia di Timeline si svolge quasi interamente a Rab, in Croazia, l'antica Felix Arbe dei Romani. È un'isola che conosco come le mie tasche perché vi ho passato molto tempo della mia vita. Uno dei luoghi in cui ho scritto diversi romanzi è il parco Komrcar che si trova oltre le mura della città vecchia e la sovrasta. Lì è normale incontrare gli abitanti che leggono all'ombra dei pini secolari e più di una volta li ho immortalati con un potente teleobiettivo. L'idea della somiglianza con un'identica fotografia scattata a New York mi è servita per coinvolgere gli Americani in una vicenda molto intricata che risale a tanti anni prima. Ma di più non posso raccontare per timore di svelare l'arcano.
Franco Filiberto: Viaggiare, conoscere posti nuovi e nuove persone arricchisce senza dubbio ognuno di noi, ma per uno scrittore sono anche una fonte preziosa di spunti per trame e personaggi. C'è qualcuno o qualcosa che è passato, anche se solo in parte, da un tuo viaggio a un tuo libro?
Abel Wakaam: Per semplicità, dovrei rispondere che ogni cosa che ha nutrito i miei occhi si è fatta parola attraverso le mie dita. Viaggiare è una ghiotta esca per la mente, perché è in grado di trascinarla con una lunga lenza oltre i confini della logica, per plasmare le idee che poi si tramutano in trama. Di ogni luogo che ho visitato mi resta almeno un ricordo più potente degli altri e lo rinnovo periodicamente riguardando le fotografie che hanno immortalato ogni istante di quei giorni. Senza di esse, molti frammenti sarebbero andati perduti e per questo credo che scrittura, viaggio e fotografia siano tre elementi inscindibili nella società moderna.
Franco Filiberto: Cosa pensi dell'editoria italiana e delle piattaforme di self publishing?
Abel Wakaam: A mio parere, l'Editoria italiana è morta e sepolta. Con tutto il rispetto che posso avere per i professionisti del settore, non vedo un futuro plausibile che possa contrastare la spinta liberista che è emersa in questi ultimi anni. Per farti un esempio, se oggi scrivo la parola fine su un romanzo, domani posso effettuare l'upload su Amazon KDP e due giorni dopo mi arriva a casa stampato e rilegato, pronto per essere letto. Con un click può essere acquistato e consegnato in tutto il mondo a tempo di record. Quale CE può fare altrettanto?
Chiara Cipolla: Il mondo del self publishing sta esplodendo; secondo te le Case Editrici si stanno adeguando al cambiamento di stile, di genere, di marketing, di lettori ecc. oppure sono come cattedrali nel deserto, immobili e attaccate ai vecchi schemi?
Abel Wakaam: La Case Editrici tradizionali hanno reagito all'esplosione del self publishing nello stesso modo in cui gli antichi Romani hanno provato a contrastare il cristianesimo. Prima l'hanno deriso e poi trascinato al macero, in nome di una qualità e di un'appartenenza alla Casta degli Scrittori Professionisti. Poi, senza rendersene conto, si sono ritrovate nella stessa Arena e hanno utilizzato le medesime piattaforme online per vendere i propri libri. Con questo grave errore, hanno posto sullo stesso piano entrambi i prodotti, esponendoli uno accanto all'altro in un'unica grande vetrina. È stata l'apoteosi della loro sconfitta.
Barbara Repetto: Cosa pensi delle tecniche di scrittura? Le utilizzi?
Abel Wakaam: Una tecnica riconosciuta, applicata a ogni elemento strutturale, permette di replicare all'infinito un progetto corretto, basandosi sull'esperienza già acquisita. Ma l'arte è un'esplosione di creatività, non è una trave portante su cui far leva per sollevare il mondo. È un velo impalpabile che lo avvolge e che prende forme diverse a seconda della prospettiva con cui lo si guarda. Per evitare di produrre dei cloni, non ci resta allora che evolvere questa tecnica, tralasciando le basi sicure per sperimentare l'impossibile. Io credo che la creatività di un autore debba prendere in considerazione il rischio di abbandonare le strade già conosciute per inerpicarsi laddove nessuno è già arrivato prima.
Barbara Repetto: Cosa ne pensi delle EAP?
Abel Wakaam: Pagare per essere pubblicati è una forma di prostituzione intellettuale a cui ci si rivolge esclusivamente per appagare il proprio ego. Allo stesso modo considero l'assoggettarsi allo sfruttamento di quelle piccole case editrici che, pur non essendo a pagamento, non ripagheranno mai l'autore per il frutto del suo lavoro.
Barbara Repetto: A un autore emergente che spera di realizzare il suo sogno nel cassetto consiglieresti le piccole/medie CE, oppure il mondo del self?
Abel Wakaam: Non amo dare consigli a nessuno perché ogni individuo deve sperimentare sulla propria pelle il risultato dei mille errori che lo porteranno a crescere ed evolversi in continuazione. Personalmente considero principalmente solo due figure legate alla letteratura: l'autore e il lettore. Tutto ciò che si intrufola tra loro deve soltanto essere considerato un mezzo e, come tale, essere al servizio dei protagonisti basilari. Barbara Repetto: Quale ingrediente fondamentale non deve mai mancare in un buon romanzo?
Abel Wakaam: Per rispondere a questa domanda servirebbero decine di discussioni e ci ritroveremmo alla fine senza riuscire a ricordarci il capo del groviglio da cui siamo partiti. Siccome odio evitare le domande, ti rispondo con l'unica parola che davvero mi appare insostituibile: l'originalità.
Marialuisa Moro: Da dove trai ispirazione per le tue storie e per i tuoi personaggi?
Abel Wakaam: Ho provato a riflettere molte volte su questo enigma e sinceramente non ho trovato una risposta. Di certo l'ispirazione non mi si presenta come un'apparizione divina e nemmeno come una missione da compiere per esaudire i miei sogni. L'ispirazione non concede preavvisi perché altro non è che un impulso riconducibile a fattori irrazionali e fortuiti, spesso privilegiati da una forma di intuizione geniale. Come già detto, i miei personaggi non sono burattini obbedienti che assecondano ogni trama precostituita. Potrei risponderti che tutto avviene per caso... nel caos che precede un ordine precostituito. Ma credo che anche il caos sia frutto di un ordine pregresso, dove ogni concetto si aggrega ai propri simili per poi abbandonarli senza una ragione plausibile. Credo quindi che l'ispirazione possa essere equiparata a uno sguardo furtivo tra due sconosciuti... una mera questione di feeling che non concede scampo a entrambi.
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