Writer Officina
Autore: Annalisa Scaglione
Titolo: La partita va giocata
Genere Narrativa Contemporanea
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La partita va giocata
Tre.

Martedì.
Batte incessante da due giorni.
Nella testa di A. la voce di Marta è un tamtam di domande incalzanti;
“che cosa faremo adesso?”
colpi di tamburo sulla grondaia: gocce maledette che rimbombano
“tu mi ami ancora, vero?”
e non lasciano scampo.
Non si può uscire, strade bloccate e nuovi allagamenti, dicono alla radio, linee telefoniche ancora interrotte.
Un lampo di luce, improvviso, illumina a giorno la pila di piatti sporchi e il tuono spezza il rumore continuo della pioggia e scuote il tavolo basso accanto alla poltrona. La cornice vuota va in frantumi,
“e ora che cosa faccio con questo bambino?”
mentre raffiche d'acqua spingono con violenza contro la finestra e il vetro si infrange. È impossibile riuscire a chiudere le persiane che sbattono, senza ritmo, contro la facciata grigia. La forza del vento entra nella stanza e in un attimo fa vortice di carte appoggiate sul frigorifero, bollette in scadenza, menu della pizza da asporto e del kebab giù all'angolo.
“Vuoi, perdio, dirmi qualcosa?”
“Io non so che cosa fare!”

Tirò su la schiena, concentrandosi a occhi chiusi per regolarizzare i battiti del cuore: solo un incubo, quell'incubo, puntuale come sempre. E dire che lo sapeva bene, era ricorrente da vent'anni, ventuno per la precisione, ma era evidente che il trambusto degli ultimi due giorni le aveva fatto dimenticare l'appuntamento fisso di fine gennaio e non aveva preso quelle gocce che all'occorrenza riuscivano a tenerle a bada le palpitazioni.
Scese dal letto e si infilò il cardigan beige vecchio una vita che usava solo in casa, bucato sul gomito sinistro e con due asole strappate da Milangio quando era bambino. Fece piano per non svegliarlo e mosse alcuni passi in direzione del bagno, quando si accorse che il letto di suo figlio era perfettamente rifatto. Accese l'abat-jour appoggiata sulla scrivania monacale e guardò l'orologio da tavolo che il Don aveva regalato a Michelangelo per il diploma di maturità: le otto! Come è possibile? Dalle persiane filtrava una luce fioca, segno che l'orologio segnava l'ora giusta e che era già giorno, lei era in ritardo sulla tabella di marcia, la messa del mattino cominciava e il caffè per... Don Donato! Quel sogno maledetto l'aveva scombussolata del tutto. Si accasciò sul gabinetto, guardandosi riflessa nello specchio di fronte, questa stupida smorfia non se ne vuole andare. Anzi, l'immagine di sé era peggiorata dal giorno prima, per quanto possibile: il ghigno che le schiacciava la guancia scopriva ancora di più le arcate dentali di destra che gli angoli delle labbra non riuscivano a coprire, rivelando le otturazioni dei molari, nere di amalgama vecchio di anni. Sono un mostro. Sotto gli occhi arrossati due borse gonfie di pianto erano il segno visibile della sofferenza che si portava dentro e che, per assurdo, non ricordava. Aveva pianto tutta la notte? Avrebbe giurato di no, ma quella faccia lì davanti suggeriva l'esperienza di un dolore perfetto.
Eppure erano passate venti primavere, anzi, ventuno, da quando quel maledetto stick aveva decretato la sua gravidanza, dopo quattordici anni di matrimonio disgraziato e sterile. Lei ne aveva già quaranta, e il mondo le era caduto addosso, perché sapeva. Si era concessa – e per una sola volta – un momento di amore distratto con l'uomo più sbagliato del mondo, un essere addirittura peggiore di quel marito perso in Sudamerica con una ballerina che veniva da laggiù. Quello stupido stick le aveva sbattuto in faccia tutta l'imprevedibilità dell'esistenza. Aveva gridato no con disperazione viscerale, prendendosi a pugni la pancia e poi tirando forte i capelli che cominciavano a ingrigire. Piangendo, si era raccolta in posizione fetale, ancora seduta sul gabinetto, e aveva cominciato a dondolare il busto avanti e indietro. Le urla, a poco a poco, avevano ceduto il passo a un sordo lamento, una specie di cantilena che sembrava cullarla. Si era alzata piano, con la sensazione di essere ubriaca. Non riusciva a realizzare quanto mistero potesse stare in pochi centimetri di plastica bianca colorata da due strisce rosso fuoco.

***

Quel giorno gli allenamenti sarebbero ripresi come sempre. Dopo il primo sbandamento, il Mister era deciso ad affrontare la situazione nel modo più naturale e logico che conoscesse: buttandosi nel lavoro. Il suo secondo sarebbe arrivato al campo alle undici, e per quell'ora avrebbe avuto ben chiaro il programma di preparazione tattica in vista della prossima partita, di nuovo in casa, di nuovo al cardiopalma. Ma prima di cominciare doveva spendere almeno due parole con i ragazzi che ormai conoscevano l'accaduto, considerando le loro chiamate alle quali non aveva risposto. Che cosa dire? Se solo un assistente di Kurzemi l'avesse contattato prima delle undici, anche lui avrebbe avuto le idee un po' più chiare. I ragazzi avevano bisogno di una qualche certezza sul futuro della loro squadra, non poteva raccontare favole a un gruppo di ventenni intelligenti e determinati. Ma quella telefonata non arrivava: forse Michelangelo gli sarebbe venuto in aiuto, se solo fosse riuscito ad avere qualche spiegazione da don Donato.
Dopotutto era il prete il diretto responsabile di una decisione che agli occhi di tutti era una vera catastrofe e doveva assumersi le sue responsabilità di fronte all'intera cittadinanza che, incredula, reclamava a gran voce un veloce chiarimento.
Dopo l'intervallo notturno, l'assedio alla canonica era ricominciato. Alle telecamere di TelePanta, che il giorno prima si erano spente prima di cena con un nulla di fatto, si erano aggiunti i microfoni di giornalisti della stampa locale, più un paio di inviati di un'emittente e di un quotidiano nazionali, sensibili al futuro incerto della squadra del San Pantaleo. Il sindaco aveva disposto con un'ordinanza che il parcheggio a fianco del parco fosse destinato ai soli veicoli della stampa. Gratis. Gli era sembrato un bel gesto, anche se per raggiungere il massimo luogo di interesse – campo e canonica – i giornalisti avrebbero dovuto percorrere la strada fino all'ingresso del centro storico e poi, una volta nella rotonda, prendere la salita a destra, attraversare piazza Teobaldi, girare alla prima a sinistra e infine risalire per Salita dei Glicini.
Zia Marta li vedeva da dietro le tendine che avevano bisogno di una rinfrescata, ma se il tempo continuava così non era proprio il caso di far andare una lavatrice che si sarebbe asciugata chissà quando. Berto era riuscito a dribblare il cordone di giornalisti e curiosi che già alle otto e mezza facevano ressa ed era entrato dalla porta sul retro, dopo aver chiuso la chiesa al termine di una messa veloce celebrata da quel pretino che ogni tanto sostituiva il Don.
- Zia Marta, se ha bisogno io ci sono - le aveva gridato richiudendo la porta, - ma alle dieci e mezzo devo essere al campo per aprire ai ragazzi e dare una pulita - .
- Grazie Berto, siediti a prendere un caffè - .
- Lui dorme ancora? - .
- Ora vado a vedere, questa mattina mi sono alzata tardi, non so come sia potuto succedere, non ho nemmeno sentito Michelangelo - .
- Buongiorno - .
Berto si era girato di scatto, segno che quella mattina si era ricordato di girare al massimo il volume del suo apparecchio. Sulla porta della cucina don Donato era apparso come un fantasma. Incredibile come due giorni di letto e digiuno potessero trasformare un uomo grande e grosso in una figura stravolta dalla voce quasi irriconoscibile.
Zia Marta si alzò in piedi, senza riuscire a dire niente, tanta era stata l'attesa di un confronto.
- Sono lì fuori per lei - gli disse secca.
- Lo immagino - le rispose con una nota di malcelata rassegnazione.
- E non solo loro, Don. Un'intera città sta aspettando - .

***


“Caro Donato,
come vedi ho tirato fuori la stilografica che proprio tu mi hai regalato il giorno della laurea. L'ho sempre conservata con cura, nonostante in quest'epoca tecnologica abbia perso il suo scopo originario per trasformarsi in pregiato soprammobile. Eppure trovo che conservi un grande fascino, forse una vaga reminiscenza dei tempi passati. Ricordi quando il maestro ci faceva scrivere infinite pagine di ‘a' e poi di ‘b' e poi fino alla ‘z'? Lo ammetto: tu eri migliore di me, tanto preciso e veloce. In realtà non capivo come riuscissi a terminare i compiti così in fretta mantenendo un ordine mirabolante nelle pagine sottili di quei quaderni da quattro soldi che ti comprava tua madre. E bravo Donato, io non ci sono mai riuscito. A volte penso che già allora tu fossi naturalmente partecipe di quell'armonia delle cose a cui hai sempre dato tanta importanza: ci credi davvero, questo è il punto.
Io credo nel potere.
Ma ora lasciamo stare queste nostalgiche divagazioni e veniamo a noi: sai bene che in tutti questi anni mi sono sempre fatto carico del tuo, del vostro bene, lontano da lì con il corpo ma tanto vicino con il pensiero. È vero, non mi faccio vivo da un po', ma seguo sempre con interesse ogni faccenda che riguarda la mia piccola città e in particolare la parrocchia di cui tu sei, vecchio amico mio, la vera anima! Tralascio ogni mia vicenda personale e professionale, certamente noiosa per te, e ti assicuro che tutto procede, nonostante le difficoltà che vengono propinate dai mezzi di comunicazione. È così facile muovere i fili della società! Tutti burattini. Ci vuole niente a fargli dire e fare quello che vogliamo noi – e per noi, come ben sai, intendo quei tre o quattro che nel mondo reggiamo le fila. Ma questo è un segreto fra me e te, bada bene di tenerlo stretto come tutto il resto.
Sai anche che all'amicizia e agli interessi di famiglia tengo più di qualsiasi cosa, anche più di questo potere che è la mia stessa vita e che tu, tempo fa, hai disprezzato al punto di arrivare a offendermi. Che peccato, mi hai fatto male. Me lo ricordo perfettamente, non temere, la mia memoria è ancora ottima. E ti dirò di più, mantengo bene anche il fisico: una bella nuotata appena sveglio – è comodo avere una piscina in casa –, venti minuti di cyclette, massaggio rilassante e alle nove sono al lavoro, pieno di energia. Sai, a volte, dopo una dura giornata, mentre la cinese – o tailandese non so, le confondo tutte queste qui – mi fa rilassare, mi capita di pensarti. Non ridere, ti sembrerà strano, lo so, ma è così. Io qui e tu lì. Mi sembra di vederti davanti al solito piatto di minestra o concentrato in preghiera – mi sono sempre chiesto se sei mai stato veramente ascoltato. Il mondo è bello perché è vario, no? Siamo diversi, tutti sono diversi e ognuno fa le sue scelte. Che vuoi, la mia vita non è di certo stata semplice, ci sono voluti anni per costruirla e ci sono riuscito brillantemente. Tu sei preciso, io perseverante. Che bella coppia saremmo, mio caro, se solo le cose fra noi non avessero preso questa brutta piega! Potremmo arrivare ancora più in alto di così, ti assicuro, e senza aiuti esterni o soprannaturali, solo con le nostre magnifiche forze. Che spreco saperti così distante! È l'incomprensione, mio caro, la nostra condanna.
Sto di nuovo divagando, vedi? – e qui purtroppo l'età si fa sentire. È ora di venire al dunque.
Dunque Donato, negli ultimi tempi ho attentamente considerato le situazioni che continuano a tenerci a nostro modo uniti. Purtroppo le cose non vanno come mi aspettavo, lì i miei investimenti non fruttano a dovere. Poca roba, penserai tu, ma sai com'è, una perdita qui, una di là e si fa presto a finire male. Gli affari si fanno così, mio caro Donato. L'altro giorno sono stato contattato da quella piccola società che fin dall'inizio ho messo a gestire il campo della parrocchia di San Pantaleo. Luxi, mi sembra proprio che fosse la Luxi. Ma questo è irrilevante. Dicevo, Donato, che uno dei procuratori di quella società mi ha contattato per informarmi della vergognosa decisione di riappropriarti della gestione del campo. Vedi, questo mi ha fatto male, molto male. Il procuratore ha confermato di averti corrisposto l'affitto lo stesso giorno di ogni mese per tutti questi anni e di non aver mai sgarrato – tutti i miei dipendenti nel mondo sanno che sulla puntualità nei pagamenti sono inflessibile –, e allora non capisco, resto allibito di fronte a questa tua volgare pretesa. Ogni mese ti ho fatto pervenire una buona rendita, più che sufficiente a coprire quelle spese che hai liberamente deciso di accollarti anni fa. Sono stato piuttosto generoso nonostante il trattamento che mi riservasti durante il nostro ultimo incontro e se ora ti trovi in difficoltà economica la cosa non mi riguarda. Io ho fatto, per la mia parte, tutto il possibile.
Con il cuore in mano sono costretto ad applicare la clausola di risoluzione prevista dal contratto di gestione che hai firmato con la Luxi. Ti ricordo – e non sono tenuto a farlo ma tu resti il mio vecchio Donato, anche in questo imbarazzante frangente – che scatteranno penali particolarmente onerose per te. Sappiamo entrambi che non basterebbero le donazioni di tutti i tuoi più facoltosi fedeli per riuscire a stare a galla.
Questa notte, però, rientrando in aereo dal Sudafrica, ho pensato a quelle ritrite parole di misericordia, responsabilità, amore e bla bla bla con le quali mi avevi detto addio piangendo per me, dicevi, per la mia esistenza traviata, per la vita che lasciavo con egoismo e per quella che avrei abbracciato con infinita cupidigia – sì, usasti proprio queste parole. Pensavo allora, e penso ancora oggi, che tu sia stato eccessivo e fuori luogo e che abbia usato termini e modi tremendamente ingiuriosi. A distanza di tempo, però, mi sono scoperto più ‘morbido' nel mio modo di vedere il nostro rapporto e proprio stanotte, dicevo, ho pensato a un possibile compromesso per evitare a te di vendere anche l'ultimo pezzo dell'altare e a me di rimetterci. Una soluzione che ti permetterebbe di ampliare finalmente quelle due stanzette e avere spazi ampi e ben attrezzati per soddisfare le esigenze della tua comunità. E poi potresti finalmente ristrutturare quell'icona che dicono sia del settimo secolo – ho fatto fare le mie ricerche, è del sesto – ma questa differenza secolare è insignificante ai fini dell'effettivo valore del bene che sono lieto di contribuire in qualche modo a proteggere.
Pertanto, se sei d'accordo, suggerisco un vero affare per entrambi: sono pronto ad acquistare il campo da gioco per una buona somma. Con questo realizzo riuscirai a rimettere in sesto le finanze della tua parrocchia e io impiegherò finalmente quel terreno per scopi più redditizi. Sono sicuro che accetterai la mia proposta e per questo mi sono permesso di mandare alcuni tecnici per un accurato sopralluogo. Non ti disturberanno, hanno libero accesso al campo. Se il loro parere sarà positivo sul mio progetto di un parcheggio esterno e uno sotterraneo, ebbene, allora sarai contattato per firmare il contratto di vendita a condizioni che, ti garantisco, non potrai rifiutare.
Distruggi ora questa lettera che è destinata solo a te, non voglio altrimenti immaginare quali spiacevoli conseguenze potrebbero verificarsi in caso di una tua disattenzione. Ma tu sei preciso, per questo mi fido.
Ti abbraccia il tuo vecchio amico,
Alfonso”.
Annalisa Scaglione
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Autori di Writer Officina

Annalisa Scaglione
Sono nata e vissuta a Genova, dove ho studiato (diploma di maturità classica e laurea in Giurisprudenza, tutto con il massimo dei voti. Sono sempre stata diligente...). Dopo alcuni anni di esperienze professionali a Milano, dove ho lavorato nel marketing e relazioni esterne di due importanti società informatiche americane, sono rientrata in Liguria. Mare, vento e basilico sono gli elementi magici senza i quali mi sono accorta di non poter vivere. Dal 2000 conduco una vita “a misura d'uomo”, in provincia, con il mare sempre a portata di vista e di tuffo. Attualmente ho un marito, un cane e sono tutor specializzata in Disturbi Specifici di Apprendimento. Insomma, aiuto i ragazzi a studiare e cerco di renderli il più possibile autonomi. D'altronde studiare mi è sempre riuscito bene e cerco di trasmettere a chi seguo fiducia nelle proprie capacità, organizzazione e ottimismo.

Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorta di aver sviluppato la passione per la letteratura?

Annalisa Scaglione: Prestissimo, direi dalle elementari, le medie al massimo. Leggere e scrivere, invece, sono amori nati ancora prima, intorno ai quattro anni. Quando ho capito come funzionava il “gioco”, e cioè che più lettere compongono una parola che corrisponde a un concetto, mi sono illuminata. Così mi hanno raccontato. E non ho più smesso.

Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?

Annalisa Scaglione: Sono esordiente nel 2020, con “La partita va giocata”, edito da Scatole Parlanti. Prima di proporlo a un editore, nell'ambito dell'evento Sugarpulp ho vinto uno speed-date letterario con una importante casa editrice, che ha richiesto il manoscritto. Dopo quasi un anno di attesa, mi hanno suggerito di testare il romanzo con una casa editrice medio-piccola. Ho mandato quindi il romanzo ad alcune selezionate case editrici e ho poi pubblicato con Scatole Parlanti. Dall'invio del manoscritto alla pubblicazione sono passati circa cinque mesi.

Writer Officina: Raccontaci quale è stata la scintilla che ha dato vita all'idea

Annalisa Scaglione: Si è trattato di un evento banale. Un giorno, a casa di mia madre, chiacchieriamo insieme e lei mi dice: - lo sai che vogliono vendere il campo della parrocchia di San... per farne un parcheggio? - . Da qui sono partita. Mi si è aperto uno scenario meraviglioso!

Writer Officina: Cosa hai voluto dire con la tua storia?

Annalisa Scaglione: L'ambientazione del romanzo in un piccolo paese di provincia mi ha permesso di mettere in luce molti meccanismi che fanno parte delle relazioni umane, laddove, in una piccola comunità, le maschere sociali sono ancora più evidenti. Il legame fra sovramondo e sottomondo della storia, fa emergere il contrasto fra il ruolo sociale dell'individuo e il suo personale agire interiore. Il calcio è la cornice tutta italiana (e non solo) entro la quale si svolge la trama.

Writer Officina: Cosa c'è di te nel tuo romanzo?

Annalisa Scaglione: Sono convinta che in ogni romanzo ci sia molto dell'autore. Non necessariamente in via diretta, ovvio. Le esperienze di amici e conoscenti, le frasi ascoltate alla cassa del supermercato, i ricordi infantili, i racconti e gli aneddoti di cui si è stati protagonisti o semplici ascoltatori. Tutto è esperienza personale e molto viene riversato in un romanzo, soprattutto se si tratta di narrativa contemporanea, non ascrivibile, quindi a uno specifico genere tradizionale. Come nel mio caso.

Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?

Annalisa Scaglione: Un po' e un po'. È fondamentale il canovaccio, lo scheletro per poter scrivere: dall'idea alla definizione dei personaggi, quello che voglio dire, le dinamiche principali. Poi molto avviene in corso di scrittura. I personaggi finiscono con il prendere vita propria, mi guidano loro verso sviluppi che inizialmente non avevo immaginato. E scrivere diventa un'avventura.

Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?

Annalisa Scaglione: Sto scrivendo, sì. Il nuovo romanzo è ancora ambientato a Crescobene e i personaggi sono più o meno gli stessi, con l'arrivo di un paio di interessanti new entry.
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