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Tornano ad ardere le Favole
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Quattro anni fa uccisi un uomo a sangue freddo. Gli crivellai i testicoli con la pistola di ordinanza, lo inondai di benzina e appiccai il fuoco. Quell'uomo era mio padre. I suoi occhi si conficcarono nei miei. Le fiamme gli assaltarono le gambe, che implosero come una corteccia destinata a sbriciolarsi, mentre le mani piovvero al suolo, imbrattandolo di rosso. Il male che mi aveva fatto scorticava la pelle di brividi, si inabissava nella carne e nelle vene. Il calore del rogo si miscelava con l'oscurità che soggiogava i nostri profili. Era dolore. Era piacere estatico. Caddi in ginocchio, dove quel corpo stava cedendo alla morte. Le mie dita, prigioniere degli incubi peggiori, furono risparmiate dal sangue che inondava il pavimento. Le labbra balbettarono inezie. La mente si tramutò in una tabula rasa. Mi riappropriai dei sensi quando il metallo delle manette mi avvinghiò i polsi, imprimendo il freddo di quella serata invernale, densa di una pioggia sospesa. I lampeggianti delle ambulanze e della polizia martellarono il mio viso. Oltre i vetri dell'auto, dove i colleghi mi fecero sedere, gli occhi di Andrea Moncino penetravano le mie pupille. Non scorgevo se fossero umidi per le lacrime o per la brina che aveva steso un velo su di noi; d'altronde, non aveva più importanza. Lo smog si levò dalla marmitta e inglobò i trulli della Valle d' Itria, segnando la scia del lampeggiante che squarciava la notte. Qualunque cosa fosse accaduta nei minuti precedenti non mi apparteneva più. Non mi apparteneva quella vita che avevo custodito nel silenzio dei miei corridoi. Non mi apparteneva più il disgusto per quel delitto. Avevo trascorso l'adolescenza desiderando di diventare uno sbirro, per riscattare, con l'ossessiva ricerca della giustizia, i soprusi che avevano distrutto la mia dignità; ma la fiaccola della giustizia si era spenta ed era divampata la vendetta. Ero morta anch'io, assieme a mio padre. Oppure ero rinata. Quella sera di febbraio, tremavo all'idea di scoprirlo.
Io, Maya Desìo, non ero esistita negli anni precedenti a quell'evento, e non esistetti dopo di esso, per tanto tempo. Piombò su di me un siero anestetizzante che mi impediva di percepire il caldo, il freddo, il piacere e il dolore. Ogni sensazione transitava sull'epidermide senza scuotermi: il gusto sciapito dei cibi, il vociare della polizia penitenziaria, i pareri inutili dell'avvocato, gli sguardi e i commenti delle altre detenute. Ero un'omicida; ma anche questo mi sfiorava soltanto, senza lasciare traccia di stupore. Vegetai in un limbo comatoso. La voce di mia sorella Tania, ogni qualvolta veniva a trovarmi, era un sottofondo smarrito nella coscienza. Nell'apatia della stanza dei colloqui, scorgevo la sua presenza, i lineamenti del suo viso smunto, la sagoma del corpo che per anni avevo provato a proteggere dalle ingiustizie della vita e che ora mi appariva distante. Ero sigillata in una capsula di vetro, spedita nell'etere e inebetita, come lo spettatore di un palcoscenico sommerso dalla nebbia.
Giunse quel giorno in cui Tania avvicinò la sua sedia alla mia. Sedette adagio, mi afferrò la mano bagnata e la portò sul proprio ventre, gonfio e teso. Un piccolo calcio sotto la pelle spezzò l'incantesimo in cui ero calata da mesi. - Maya - sussurrò con le labbra che emisero un'eco flebile - Ci siamo: nasce mercoledì. Ho programmato il cesareo perché ha sforato la settimana ostetrica questa pigrona! - - È femmina? - mormorai, sciogliendo la lingua dall'apatia. Non ricordavo il suono della mia voce e mi sembrò una melodia sconnessa che si dissimulava nell'aria. - Sì! - sgranò gli occhi in un sorriso, carico di tutte le cose non dette. Aveva la couperose in fiamme sulle guance diafane, e la treccia scompigliata penzolava sugli omeri come quand'era bambina. - Come la chiamerai? - Tania emise dei lievi balbettii. Strofinò sul volto le mani affusolate, alzò lo sguardo, che aveva smarrito sul pavimento, e vi lasciò transitare un impeto di coraggio: - La chiamerò Selvaggia - . Il mio sangue si arrestò nelle arterie. Non respirai fino a diventare cianotica: - Ma perché?! - Mi strinse la mano, incollandola all'utero che germogliava di vita, sotto la pancia: - Perché voglio ridare la vita. Una vita che nostro padre ha spezzato, quando ha fatto ammazzare Selvaggia Boccarosa - . - Lui è morto - scolpii le parole con la forza di un macellaio. - Maya, questa è la mia occasione per riscattare tutto il male che abbiamo vissuto. - Il picchiettio delle mie dita rimbombava sul tavolo sbilenco: - Claudio cosa ne pensa? - Tania si strinse nelle spalle e la treccia oscillò ancora. - Voglio solo che voi siate felici, Tania - biascicai, rompendo il silenzio che la mia domanda avevo eretto. Tania estrasse dalla borsa una stecca di cioccolato: - Ti ho portato questa - . Sulla carta, nera come l'onice, spiccava una scritta rossa che stentai a leggere. Gustai il sapore di quella piacevole amarezza, come non accadeva da tanto, mentre si scioglieva morbida e impastava il palato.
Trascorse il tempo dei pensieri, sovraffollato di dubbi che la porta dell'inconscio aveva rigurgitato. L'avvocato mi confermò che sarei uscita dal carcere, perché il giudice aveva approvato la tesi della temporanea infermità mentale: - Sentenza di assoluzione per non imputabilità dovuta a vizio temporaneo di mente, causato dalla straordinarietà del fugace turbamento psichico presente nel momento in cui è stato consumato il fatto - . In sostanza, aver ucciso mio padre in una condizione di totale compromissione delle facoltà cognitive, un delirio mentale scaturito dalla scoperta della sua implicazione nell'omicidio efferato della regista Selvaggia Boccarosa, era requisito sufficiente a restituirmi la libertà. Sputata fuori dal carcere che ormai mi accoglieva come un ventre materno, più caldo di quello che mi aveva generata, vissi mesi di isolamento, durante i quali mi resi irreperibile. Mi nascosi dove il mio respiro assassino non avrebbe inquinato l'aria delle persone alle quali volevo bene, cogliendo l'unica possibilità che mi restava: sparire. Quella vita, che giunse dopo l'aborto della precedente, non la scelsi con ponderatezza. Ci scivolai dentro, come ci si abbandona alle sabbie mobili quando si è ormai certi che sia vano lottare. Impugnai la penna e iniziai a scrivere. Solo inchiostro, steso come un tatuaggio sul corpo. Pensavo a tutto il tempo che ci era stato sottratto dall'ineluttabilità degli eventi. Pensavo a quanto io stessa avessi giocato a favore di quelle avversità. E, mentre le idee si formulavano in mente, scrivevo. Scrivevo con le lacrime che ungevano le catene del dolore. Una penna funesta e sola macchiava un foglio sporco. Mi sentivo soffocare dal guinzaglio con cui il mondo mi aveva trascinata. Sguazzavo nella rabbia, nell'angoscia, nell'amore straziato che distruggeva le mie cellule con potenza chemioterapica. Ero uno zombie, che cantava il proprio vuoto, affacciata alle sbarre di una prigione da cui non aveva nemmeno senso evadere. Nel buio delle mie riflessioni, prese corpo l'idea che tutto ciò fosse toccato a me perché dovevo raccontarlo. Mesi dopo, Tania riuscì a rintracciarmi. Mi disse che aveva dato alla luce la sua bambina, si era sposata con l'ispettore Claudio Lorusso e vivevano in un appartamentino a Torre a Mare, in provincia di Bari; ma non volli mai incontrarli: lei aveva diritto a una vita nuova, lontana dal passato, lontana dal male. Lontana da me.
La suoneria del cellulare infilzò il silenzio della notte. Le palpebre si scollarono con malgarbo dalla lacrimazione che le aveva saldate alle ciglia. La luna filtrava dalla finestra aperta, assieme all'aria di una torrida estate, che perfino la frescura delle Alpi non riusciva a mitigare. Dottor Freud ululò come solo un cane lupo poteva fare, fece un balzo sul letto e mi lavò la faccia, spalmando la lingua sulle guance, mentre agitava inquieto la coda che attivava una gradevole ventilazione nella stanza. Distesi la mano verso lo smartphone. Il display rifletteva la propria luminosità sul tetto in legno della mansarda, scolpito nel cielo notturno del Trentino; ma le dita si imbalsamarono prima di schiacciare il tasto di ricezione: lampeggiava la scritta ‘Claudio Lorusso'. Non udivo l'accento calabrese del mio ex collega dagli eventi di quella notte assassina, in cui era stato proprio lui, suo malgrado, ad agganciarmi le manette ai polsi. - Claudio? - La sua voce lacerò la mia carne: - Devi tornare subito a Bari. Tua sorella è scomparsa. - Erano le 22.50 di mercoledì 4 agosto. |
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Autori di Writer Officina
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Sono sempre stata una piccola impertinente, con la passione viscerale per l'arte e la scrittura. Ho conseguito una laurea in Marketing e una in Filosofia. Mi sono dedicata alla sceneggiatura cinematografica, alla regia di webseries su temi sociali e animalisti, alla collaborazione con importanti magazine culturali. Filosofa epicurea e postantropocentrica, ho vissuto con disagio il mondo cinetelevisivo, popolato da logiche clientelari e dinamiche inaccettabili. È esplosa in me la voglia di affrancarmi da una vita che non mi apparteneva più e creare un'attività itinerante che coordinasse l'amore per il viaggio alla mia professione di artista. La scelta radicale di praticare l'Arte pittorica e letteraria in maniera libera è stato uno scossone colmo di energia positiva, che ha consentito alle mie Favole di cominciare a volare. La felicità è un percorso coraggioso e personale. Nelle mie opere esprimo la simbiosi uomo-Natura come massima aspirazione della società civile.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Carmen Trigiante : Da bambina avevo un sogno, anzi due: dipingere e scrivere.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Carmen Trigiante : C'è un libro che mi ha aperto le porte di una nuova concezione della vita, e quindi mi ha dato l'input per fare una scelta difficile: La lettera sulla felicità, di Epicuro.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Carmen Trigiante : Posso dire che il mio primo libro consapevole sia stato “Vola con me”, scritto due anni fa in piena e totale autonomia. La scelta del self publishing era l'unica che potesse combaciare con la mia idea di libertà artistica, una libertà troppe volte violata nella mia attività precedente di sceneggiatrice, nella quale dovevo sottostare ai dettami commerciali delle case di produzione, e che, invece, è condicio sine qua non per un artista. Arte è creare, forse anche sbagliando, ma senza mai adeguarsi a schemi reimpostati o becere logiche commerciali. Arte è mettersi in gioco, con un'opera che esprima se stessi.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Carmen Trigiante : Certo, a condizione che alla base ci sia una reale esigenza artistica e una solida preparazione culturale, non quella dei minicorsi di scrittura creativa, ma anni e anni di studio intenso e di riflessione su se stessi.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Carmen Trigiante : Ogni riga scritta esprime un continuo divenire, un Panta Rei di cui sarebbe difficile per me scegliere un frammento. Vi parlerò di “Tornano ad ardere le Favole” perché l'ultimo pubblicato. Si tratta di un noir dell'anima, che scava nella psiche umana, caratterizzato da risvolti forti. È il sequel indipendente di “La prigione delle Favole Sole” ed è narrato dalla voce della protagonista, l'ex commissario di polizia Maya Desìo che, dopo aver ucciso suo padre, esce di prigione con sentenza di temporanea infermità mentale. Si ritira sulle Alpi, decisa a tagliare i ponti con la sua vita precedente, almeno finché giunge la telefonata di suo cognato, l'ispettore di polizia Claudio Lorusso: Tania, sorella di Maya, è scomparsa mentre scriveva un dossier giornalistico segreto. Maya deve tornare a Bari, terra che ama e odia al tempo stesso, affrontare il proprio passato e una travagliata relazione clandestina con il suo amore impossibile, il sostituto procuratore Andrea Moncino, il quale ormai vive con un'altra donna. Mentre alcune sparizioni oscure conducono al covo di una strega dell'800, nel gioco esoterico di un perverso Minotauro, la rete dei sospetti ingloba chi le sta vicino, costringendo Maya al sodalizio con l'unico personaggio che può aiutarla, ma, dietro la maschera elegante, cela una vita criminale. Il romanzo è un urlo contro i soprusi che spesso avvengono in famiglia ed in una società che ancora cela una violenza insopprimibile. Per questo, ha ricevuto lo speciale contributo conclusivo di Carlo Maurizio Rositani, papà di Maria Antonietta, che fu vittima, due anni fa, di una violenza terribile da parte dell'ex marito. Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Carmen Trigiante : Il mio cervello pare attivarsi di notte, quando è libero da quel residuo di censura razionale e le trame si intrecciano da sé. Al risveglio, metto su carta. Poi leggo, rileggo e limo, fin quando sento di non poter apportare ulteriori modifiche costruttive. Allora passo la palla al mio editor personale e mio compagno di vita, che comprende il mio stile e lo migliora, utilizzando il mio linguaggio, senza mai stravolgerlo.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Carmen Trigiante : Al momento mi sto dedicando anima e corpo a far conoscere la mia ultima fatica letteraria, che ha occupato le mie serate estive... Ma in testa iniziano ad affacciarsi nuove idee...
Writer Officina: Perché hai scelto il thriller piuttosto che un altro genere?
Carmen Trigiante : Lo ritengo adeguato a scandagliare l'anima lacerata dei personaggi, creando comunque un rapporto di tensione e mai di stasi.
Writer Officina: Cosa c'è di te nel tuo romanzo?
Carmen Trigiante : Tutto: ogni sfumatura è una sofferenza vissuta, una riflessione maturata, un approfondimento nella mia anima, prima che in quella dei protagonisti del romanzo. |
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