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Inurasi il paese dei Venti
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«Maggiore Asaloi...» Nel salutarlo si era messo sull'attenti, come se l'ufficiale fosse stato ancora in servizio. L'anziano era in congedo da anni, invece, ma Wess lo conosceva bene: uno come lui, anche senza indossare più la divisa, sarebbe rimasto immerso nello spirito e negli ideali del Corpo Diplomatico fino all'ultimo respiro. L'uomo lo fece accomodare, mantenendosi molto composto. Era informato da giorni, per quanto possibile doveva essersi preparato. Quando il giovane gli tese il distintivo, però, sembrò che il viso gli si crepasse e che la calma che si era imposto andasse in pezzi. Il dolore per quell'unico figlio che non sarebbe più tornato gli tirò la bocca in una smorfia, le labbra presero a tremare, le palpebre batterono veloci. E Wess dovette far ricorso a tutte le sue forze, per reggere quella vista. Quando tre giorni prima aveva tenuto in pugno il piccolo oggetto, dicendosi che toccava a lui consegnarlo, la sua presa era stata così stretta, uno spasmo, da tagliarsi. E poi, subito dopo, non si era dato, non aveva voluto darsi, un solo istante per pensare. Aveva riposto l'oggetto nella custodia e si era buttato nel lavoro, spostando date o delegando impegni, per liberarsi e poter partire. Tenersi occupato era stata la salvezza. Il maggiore, intanto, con uno sforzo evidente aveva ritrovato la voce. Strozzata, ma il bisogno di sapere doveva essere troppo forte. «È stato un vero incidente? Un attentato? O lo ha, voglio dire, cercato?» Wess sentì un sapore di fiele salirgli in bocca. «Certo che lo è stato. Cosa sta pensando? La morte di Rachele lo aveva devastato, sì, ma Fidelio non si sarebbe mai... non avrebbe mai lasciato sua figlia sola, se avesse potuto evitarlo. Lo conoscevo bene, il mio amico!» Deglutì per mandare giù quel dolore che si rinnovava a ripensarlo mentre prestavano giuramento insieme, mentre veniva appuntato loro sul bavero un identico distintivo. «Lei sa bene, Maggiore, quanto sia ingrato il nostro lavoro. È stato Navigatore prima di noi. Non basta che ormai quasi tutte le nazioni si siano raccolte in Confederazione, la violenza è ancora lontana dal potersi considerare sradicata». Tacque un istante, e si strofinò le dita della destra sulla bocca, come per pulirle da una bava invisibile e amara che gli seccava le labbra. «È come un virus in quiescenza: appena le difese dell'organismo calano, divampa. Si risvegliano frange separatiste, riprendono vigore vecchi odi o si aprono nuove contese. Noi accorriamo per impedire che parlino le armi, ma non agiamo mai in situazioni facili». Ora tutti i ricordi che aveva del suo miglior amico premevano dietro le palpebre e avrebbero voluto diventare lacrime. Lottò per ricacciarli indietro. Si rivedeva insieme a lui a Polaris, ricordava la meraviglia nell'ammirare la città allora ancora nascente e i viali che confluivano nell'immensa piazza centrale, e poi l'emozione dell'amico per la nascita imminente della sua bambina, che lo faceva correre a casa, e la promessa di ritrovarsi, in un domani mai arrivato, per visitare insieme la nuova capitale senza fretta. «Fidelio era un inviato tra i migliori». Lui poteva affermarlo con certezza, senza timore che parlasse solo l'affetto. «Prudente e accorto. Ma ci sono follie che non si possono prevedere, nonostante tutto. L'esplosione, devastante, ha coinvolto anche molti civili, stiamo indagando sulle responsabilità della polizia locale e ho chiesto di poter concludere io la sua missione. La informerò di ogni cosa che dovesse emergere». L'anziano maggiore annuì. Abbassò lo sguardo sul distintivo. «Non ho riavuto indietro neanche un corpo da seppellire». Wess si schiarì la gola. Aprì la bocca e la richiuse. Ricomporre i pezzi, mescolati ai resti di altre cinque persone? Un'operazione difficile, e inutile. I morti sanno essere molto più fratelli dei vivi. «Fidelio aveva chiesto di essere sepolto in terra di missione, se gli fosse accaduto qualcosa». Un desiderio manifestato in tempi non sospetti, quando la morte era un'evenienza di cui parlare, ma in fondo irreale e lontanissima. Il maggiore sospirò. «Giusto. Quindi non piangerò mio figlio su una tomba, e insegnerò a mia nipote a non farlo. Dovrà sentire che suo padre le è vicino, sempre e comunque. E credere che la morte li abbia separati solo in parte, perché c'è qualcosa che sopravvive». Strinse il pugno intorno al metallo. «C'è qualcosa che sopravvive sempre»
L'approdo
L'ultimo tratto del viaggio si compiva via mare. Ci era nata, in riva al mare, ma questo era l'oceano e Leona ne aspirava avida l'intenso odore peculiare, assoluto, senza accenti di vegetazione costiera. Erano all'altro capo del mondo, rispetto alla sua Gialesia, e al di sotto dell'equatore. Quanto poteva mancare, ancora? Un fischietto modulò più note, impartendo ordini in un linguaggio a lei sconosciuto, e alcuni marinai la incrociarono frettolosi, lanciandole i soliti sguardi che ignorò. Aveva chiesto al comandante il permesso di fare movimento sul ponte, e come loro considerassero la cosa non la riguardava. Iniziò le sue serie di esercizi, pronta a ripeterle fino allo stremo, come ogni giorno. Un ottimo modo per non pensare, per tenersi occupata e per prepararsi alle prove fisiche che la attendevano. Ma tra una serie di flessioni e l'altra, la curiosità tornava a molestarla: quanto mancava? Partendo si era imposta di non chiedere in quanti giorni avrebbero raggiunto l'isola, e anzi, quando a mensa ufficiali il comandante aveva fatto un accenno alle condizioni meteo che potevano far variare la durata della traversata, Leona l'aveva subito interrotto. «Non è importante, davvero. La mia missione pretende uno spirito adattabile, disposto ad assecondare gli eventi senza esercitare alcun controllo. Devo dimostrarmi pronta ad accettare le cose, nel momento in cui accadono. Quanto durerà il viaggio non deve interessarmi». L'uomo non aveva commentato, i membri del corpo diplomatico erano noti per la loro singolare disciplina mentale. E la giovane sembrava incarnare a pieno la figura dell'Inviato. ‒ E invece, si rimproverava da sola Leona, eccoti di tanto in tanto a fare calcoli approssimativi. Questo è un sintomo di debolezza, lo sai? Ormai, ogni porta sulla sua vita passata avrebbe dovuto essere chiusa: aveva l'obbligo di proiettarsi solo sul futuro imminente, sulla missione. I marinai, ad esempio, appartenevano al mondo che lasciava, e per questo quando li aveva accanto, nelle pause e a mensa, di proposito li guardava a stento. A malapena, in più giorni di navigazione, aveva scambiato con loro qualche parola. «Gradisce?» «Mi passa il piatto?» «Oggi il tempo è magnifico». «Davvero vuole sbarcare a Inurasi?» Ecco, infine uno di loro aveva osato dirlo ad alta voce, e Leona l'aveva guardato in viso stupita dalla sua audacia. Da oltre cinquant'anni nessuna imbarcazione, neppure commerciale, aveva permesso d'approdo, e nessun confederale sapeva cosa accadesse davvero in quella terra. Sapere che era lì che l'accompagnavano sbalordiva l'equipaggio, e più si approssimavano alla meta, più l'incredulità nei loro sguardi aumentava. Forse la giudicavano afflitta da una follia contagiosa, visto come anche loro le stavano alla larga. Soltanto quella volta le avevano rivolto una domanda diretta. «Davvero vuole sbarcare e restare lì?» «Sì. Sono la nuova inviata federale a Inurasi, sbarcherò come e dove convenuto». Cioè, sulla costa della sola nazione del pianeta estranea alla Confederazione, abitata dal popolo del rifiuto. Capiva che sembrasse loro incredibile, eppure aveva voluto quella missione con tutte le sue forze, e il tempo del viaggio, dal suo punto di vista, gocciolava via con esasperante lentezza. Nel primo pomeriggio del decimo giorno sentì il ruggito dei motori declinare. Interruppe il lavoro, per capire se la nave rallentasse la sua corsa. Sì, la velocità di crociera si era ridotta in modo drastico. Percorse l'orizzonte con gli occhi, mentre il cuore prendeva un ritmo accelerato. Se fosse stata sull'alta scogliera a picco sul mare dov'era nata, avrebbe distinto una terra distante anche venticinque chilometri. Per un istante si ripensò bambina, accanto a suo nonno che puntava il braccio verso l'orizzonte e le spiegava: «Più si è in alto, più lontano si vede». «E se fossimo alti cento metri?» Neanche sapeva bene quanti fossero, cento metri. Ma intendeva in alto, in altissimo. «Vedremmo a occhio nudo l'isola di Coresta, che è lontana quaranta chilometri» aveva però risposto serio il nonno. Lo aveva messo a dura prova, povero lui, con la sua curiosità bambina senza fine. Sospirò e tornò a calcolare: fin dove avrebbe potuto distinguere una costa dalle basse murate della corvetta? Non oltre undici, dodici chilometri. Presumibilmente troppo poco, per avvistare Inurasi. E infatti, l'orizzonte sfumava azzurrino e piatto in ogni direzione. La sola cosa che emergesse dalle acque, poco lontano, era una sorta di pinnacolo roccioso abitato da una colonia di uccelli marini. Le autorità inuri avevano proibito ai federali di avvicinarsi alle loro coste oltre un dato limite, e si era stabilito che l'inviata sarebbe stata lasciata presso un'isola minore. Leona valutò le misere dimensioni dello scoglio. Possibile fosse quello, l'isolotto? Non poteva ospitare neppure una costruzione, e l'unico segnale di un intervento umano era una ringhiera metallica visibile tra le rocce. Leona diede un respiro profondo, la corvetta si era fermata, dunque le coordinate dovevano essere quelle. Se avevano raggiunto il limite concesso, significava che lì, arrampicata su quel sasso in mezzo alle onde, avrebbe dovuto attendere, da sola, gli inuri. Xenofobi. Misogini. Chiusi in un irragionevole rifiuto di ogni modernità. Scosse la testa. Pareva quasi una missione suicida, vista così, e a Polaris nessuno le aveva risparmiato commenti al limite dell'insulto per la sua temerarietà nell'accettarla. Ma lei sola poteva sapere quante e quali forze l'avevano condotta fino a quel punto; quindi raddrizzò le spalle, scese in cabina e tornò in coperta col suo bagaglio. Attese, stringendo i manici del borsone, che i marinai calassero una lancia. Un borsone, infatti, era tutto ciò che le era stato concesso. Pochi indumenti e se stessa: quello sarebbe dovuto bastare, per affrontare Inurasi. La mano prese a pulsare, dovette allentare la presa, in quella stretta stava sfogando tutta l'impazienza che la mordeva. Quanto avrebbe voluto, almeno, distinguere già quella terra emergere dall'oceano australe! La conosceva dalla documentazione studiata, aveva cognizione delle sue vaste dimensioni, della varietà dei paesaggi, dai deserti settentrionali alle pianure centrali, fino agli alti monti orientali. La corvetta aveva avvicinato l'isola da ovest e quindi Leona guardava a est, col desiderio che quasi gliela faceva intuire, benché fosse oltre la curvatura dell'orizzonte. Il capitano si avvicinò. «Credevo fosse una base militare. Immaginavo almeno un faro». Leona sorrise. «Non importa. Non dovrò attendere a lungo, non serviva un riparo». L'uomo si dimostrava contrariato e Leona si dispiacque per lui. Intanto la lancia era stata calata in acqua e tre marinai erano già a bordo in attesa. «Grazie della crociera» disse al capitano, mettendosi poi sull'attenti per salutarlo in modo consono. Non aveva altro da dire. Estranea era salita su quel mezzo e come tale preferiva lasciarlo. Nessuna commozione, nessuna effusione. Lui le rese il saluto militare. «Buona fortuna, Navigatrice». Leona scese in fretta lungo la scaletta e la scialuppa si staccò dalla nave. Sentì di aver dato l'ultimo taglio, netto. Girarono intorno allo scoglio, cercando un approdo; ma quel lembo roccioso era già Inurasi, e dunque ostile ai visitatori. Se mai una barca in difficoltà l'avesse raggiunto, dei naufraghi avrebbero a malapena potuto rifugiarsi su una ridotta piattaforma, scalpellata perché la roccia aguzza non ferisse la carne. Infine, ai federali non restò che agganciare, con un rampino, la ringhiera infissa nella roccia, deducendo che la stessa fosse lì a indicare il punto in cui una imbarcazione poteva accostare sicura, senza sventrarsi sugli scogli. Non c'era un vero molo, non c'erano gradini, soltanto, dietro la balaustra, lo spazio addomesticato dallo scalpello. Leona gettò la sacca sulla scogliera e saltò agile dalla lancia alla pietra, aggrappandosi alle solide sbarre. Poi, recuperato il bagaglio, preferì inerpicarsi di qualche metro, dove gli schizzi di quel mare inquieto non l'avrebbero raggiunta. Osservò in silenzio la lancia sganciarsi e tornare verso la nave, assistette in piedi al suo recupero; poi attese, mentre la corvetta rimaneva lì a dondolare sulle onde. Forse il comandante esitava a lasciarla su quello scoglio sperduto. Leona fece trascorrere ancora del tempo, infine alzò il braccio in segno di saluto e indicò il mare aperto, per dir loro che andassero pure, tornassero indietro. L'ufficiale rispose al suo saluto e i motori si accesero. Leona guardò la nave allontanarsi e fu sola, come nei sogni che l'avevano tormentata nell'ultimo anno di preparazione. Si era ben guardata dal parlare di quegli incubi agli psicologi che la seguivano, per timore che ne traessero conclusioni sbagliate. Lei era pronta. Lo era e voleva quella assegnazione con tanta disperata tenacia da non potersi permettere di comprometterla per degli stupidi sogni. Diede un respiro profondo, per contrastare la stretta che le chiudeva il torace, e prese a studiare gli uccelli che volteggiavano sullo scoglio. La loro presenza, i loro richiami striduli e quasi assordanti, smentivano la sensazione di essere precipitata in uno dei suoi incubi. Ciò che la opprimeva di più, in quelli, era infatti il silenzio: si ritrovava in luoghi spaventosi in cui, impotente, comandava labbra e gola a vuoto. Nessun suono usciva dalla sua bocca e nulla, intorno a lei, si muoveva, né causava rumore, fino all'estremo orizzonte. Riemerse con un brivido da quei pensieri e badò a sistemarsi meglio che potesse, perché ignorava quanto avrebbe potuto durare l'attesa. A pomeriggio inoltrato il vento rinforzò, gelido, e Leona cercò di addossarsi ancor più alla roccia. Le corte ciocche castane intorno al viso, inumidite e scompigliate, la infastidivano, e poco vantaggio le portava il tentativo di farsi piccola dietro alla sacca di cuoio, ben povero scudo agli schizzi più forti che giungevano ormai anche là. Il freddo penetrava fino alle ossa, né su quella superficie irregolare, percorsa di creste taglienti, era possibile muoversi più di tanto e scaldarsi. Eccolo, il benvenuto inuri: caloroso come ci si poteva aspettare! Incassò la testa tra le spalle e si ammonì da sola a non farsi suggestionare da quella apparente ostilità della natura. Sapeva bene che razza di sfida avesse raccolto, e non aveva nulla a che fare con un po' di vento e di onde. Era una sfida al cuore e alla mente degli inuri, un popolo in cui lei aveva, nonostante tutto, fiducia. Una sfida che non aveva potuto fare a meno di raccogliere, che sentiva nel suo destino, nel suo sangue. Infine, mentre il sole, scendendo, sfiorava già l'orizzonte, il rumore di un'imbarcazione le disse che l'attesa era conclusa. Leona tornò verso l'inferriata, la cui base era ora in parte sommersa. Lo scafo inuri che si avvicinava era di proporzioni molto più modeste della corvetta. Accostava con prudenza, con alcuni marinai sul ponte che sorvegliavano la distanza dagli scogli. Aveva un albero verso prua, a due terzi di nave, e un fumaiolo alla metà. Propulsione mista, registrò, a vela e a vapore. In quel momento comunque era attivo il motore, l'elica assicurava più velocità e manovrabilità. Nonostante il mare inquieto, l'imbarcazione accostò fin quasi a un passo dalla ringhiera, a cui agganciarono una gomena. Sul ponte un ufficiale in divisa blu la fissava a gambe larghe e braccia conserte, ben saldo. Leona si irrigidì nel saluto di quel popolo, così simile peraltro all'attenti federale, e badò a restare del tutto immobile. Era investita in pieno da vento e spruzzi, ma non poteva permettersi alcun movimento, la disciplina inuri non consentiva a un sottoposto alcun gesto, se non dopo il permesso dell'ufficiale. Ghiacciò, in attesa che l'uomo le impartisse un comando preciso. Lo vide infine alzare la mano, e poi abbassarla con violenza. Giù, le ordinava. La statua che si era sforzata di essere riprese vita all'istante. Afferrò il borsone e lo lanciò sul ponte, quindi percorse con due balzi la distanza fino a dietro la ringhiera, vi appoggiò la mano per far leva e la scavalcò con un volteggio, pregando che i muscoli irrigiditi dal freddo non la tradissero. Atterrò quasi ai piedi dell'ufficiale, flessa sulle ginocchia, le mani a sfiorare il ponte, poi si raddrizzò e tornò sull'attenti. I suoi preparatori atletici sarebbero stati fieri di lei. Non un suono. L'ufficiale le girò le spalle con ostentazione e diede il segnale di riprendere la navigazione. La piccola nave arretrò, poi puntò la prua a oriente.
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Mi chiamo Cinzia, Cinzia Fabretti, ho infranto la fatidica soglia dei sessant'anni e per l'occasione mi sono fatta un regalo: ho pubblicato un libro. Pubblicare era un mio sogno antico, sulle radici più profonde del quale ancora mi interrogo, sento che non ne ho sviscerato del tutto i motivi. Comunque, per riuscire a portare un mio scritto fino allo scaffale delle librerie ho lavorato molto, anche se nulla mi garantisce che sia stato abbastanza. Spero che il lettore che dovesse trovarsi tra le mani il mio 'La leggenda di Mezzafaccia', giudichi di sì. Mi si chiede di presentarmi come persona, e mi riassumerò con tre parole: figlia, moglie e madre. Questo mi sento. Poi anche amica, per mia fortuna, di molte persone. E essere umano. Che non è poco, perché non basta nascere con il DNA della nostra specie: esseri umani si deve scegliere ogni giorno di restare, io credo. Amo la vita, la gente, ma anche la solitudine. E i colori. Amo tutto ciò che si può disegnare, dipingere, scolpire, intrecciare, incollare, fotografare, in un continuo stupore per la bellezza, che sia nel minuscolo o nell'infinito.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Cinzia Fabretti: Direi molto, molto prima di conoscere il significato di questa parola. Ho imparato a considerare i libri oggetti di grande valore da mio padre, osservando come li apriva, come li riponeva e li custodiva con cura. Prima di saper leggere già li amavo, e stupivo della loro magia, oggetti piccoli che ad aprirli contenevano mondi. E crescendo non ho fatto che amarli sempre più profondamente. Oggi, che buona parte della mia vita è trascorsa, il mio rammarico è di non averne fatto specifico oggetto di studio, di essere rimasta tanto a lungo solo una lettrice per diletto. Diversamente avrei forse imparato a mia volta a scrivere in modo migliore, e la fantasia che amo sbrigliare nelle mie storie saprebbe raggiungere i lettori con più forza, e saprei donare più emozione. Questo è il mio impegno, oggi: studiare e migliorare, perché la scrittura cui tanto mi piace dedicarmi, che tanta emozione mi regala, comunichi altrettanto ai lettori, legittimandomi a pubblicare ancora.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Cinzia Fabretti: Se è vero che già a sei anni regalavo favole da me inventate alla maestra, scritte a mano e illustrate (Almeno così ritenevo, di illustrarle elegantemente!) immagino che dovrei nominare le favole di Esopo che mi leggeva mio padre, come primo input. Ma davvero ne ho un ricordo confuso. Subito dopo, ci sono stati tutti i libri classici che un tempo si regalavano ai ragazzi, che esaurii entro i nove anni: tutto Verne, tutto Salgari, Dumas padre e figlio... dopo, ancora un salto e fui a Hemingway, Steinbeck, tutti i libri sulla seconda guerra mondiale possibili e immaginabili. E in un vortice di generi, dallo storico all'umoristico, da Eco a Woodehouse, dalla fantascienza ai libri sugli animali, da Asimov a Herriot. Un libro che mi diede la spinta? Tutti! Di tutti pensavo: vorrei averlo scritto io.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Cinzia Fabretti: Allora... per definizione un testo diventa libro quando è stato revisionato, editato, impaginato... e una sola delle mie storie ha ottenuto tutto questo ed è stata proposta a un editore: La leggenda di Mezzafaccia. Non era la prima storia che avessi scritto, ma ho ritenuto che avesse una qualche possibilità di essere pubblicata, soprattutto per la sua lunghezza: gli altri miei testi erano tutti o troppo brevi o troppo lunghi. Ho scelto la cosa che ritenevo più adatta, benché non fosse, lo confesso, la cosa che amavo di più. Comunque ebbi due risposte, una da Bookabook, il cui meccanismo, il crowdfunding, mi lasciava incerta, e una da una piccola CE non EAP, la Brè edizioni. Ho accettato la seconda ed eccomi qui.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Cinzia Fabretti: Dipende. Non è stata la mia scelta, ma se uno scrittore è pronto, se è consapevole di possedere una penna matura, se non si sta buttando impreparato in una avventura, allora sì, credo che pubblicare in self possa essere una grande opportunità. Ma non deve essere un modo per improvvisare, per eludere una professionalità che si traduce in accuratezza. Un editing lo credo quasi sempre opportuno e né impaginazione né copertina possono essere arrangiate. Inoltre qualsiasi autore, self e non, deve essere psicologicamente pronto a lavorare molto sulla promozione, perché oggi un libro ha tanta formidabile concorrenza da scomparire in un lampo dalla scena, se l'autore non si occupa di lui con abnegazione.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Cinzia Fabretti: Come accennavo prima, ho un lavoro cui tengo davvero tanto. È stato quello in cui ho investito più passione, più entusiasmo, e in cui ho commesso più errori. Sto cercando di staccarmi da lui, di dimenticarlo, perché andrebbe riscritto ed è una storia così lunga da distribuirsi su più volumi... una mole di lavoro esagerata! Ma benché cerchi di andare avanti, finisco per tornare su quelle pagine goffe e tanto care. Non credo riuscirò mai a pubblicarlo, ma tant'è... è lui il mio preferito, una saga caratterizzata da una commistione di generi, anche questa caratteristica indigesta per molti editori.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Cinzia Fabretti: Tento di crearmi una scaletta di massima, ma è davvero poca cosa. Ho visto gli schemi di altri autori, così dettagliati, con gli archi narrativi scadenzati con cura, con una programmazione sui capitoli, persino sulla quantità di parole approssimativa da rispettare nelle tappe intermedie... e questo mi ha fatto sentire piccolissima. Io scrivo molto di getto, persino le poche linee guida su cui mi baso all'inizio si stravolgono spesso nel prosieguo. Sono consapevole che questo mi espone a molto lavoro in più, spesso perdo il filo e mi areno, ho più manoscritti iniziati e rimasti a metà. Ma non riesco a fare altrimenti, quando cerco di organizzare un lavoro in modo più disciplinato il risultato è... non riuscire neppure a partire!
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Cinzia Fabretti: Purtroppo, subito dopo aver pubblicato sono finita in un turbine di necessità. In primo luogo avere dei profili social attivi, io che fino a quel momento usavo Facebook solo per seguire un paio di gruppi di appassionati di scrittura. Improvvisamente, sono piombata in un mondo che non è il mio, in cui mi muovo male e senza una guida sicura. Nel contempo, il mio sforzo di conoscere di più, di migliorare la mia scrittura, sta portando via buona parte del tempo che prima dedicavo solo a scrivere. Anche gli impegni di lettura, sia per apprendere che per curiosità nate dal conoscere ormai di persona certi scrittori, si sono moltiplicati. Quindi di fatto ho smesso di scrivere cose nuove da sei mesi buoni. Ma ho deciso che queste novità vanno padroneggiate in modo diverso, e che è tempo di riprendere la vecchia strada. Sarebbe assurdo che tutto quello che ho fatto, con lo scopo di scrivere meglio, finisse per impedirmi del tutto di farlo!
Writer Officina: Tornando al tuo romanzo, cosa vorresti che le persone dicessero dopo averlo letto?
Cinzia Fabretti: Vorrei dicessero che ha lasciato loro una carica positiva. Ho riflettuto molto su questo, perché non volevo che una cosa per me così bella, lo scrivere, diventasse, pubblicando, solo un atto egoistico, un modo per raccogliere qualche consenso e magari sterili lodi. Con la lettura io ho un grande debito di riconoscenza, le devo buona parte di me, una parte di cui sono soddisfatta. Il piacere di scrivere già è fonte di benessere, per andare oltre e pubblicare è stato necessario ci fosse di più, volevo poter offrire qualcosa, restituire almeno una parte del moltissimo che ho ricevuto. Quindi ho indagato a fondo sui sentimenti che la mia storia poteva suscitare. E quello che oggi più mi rende felice è avere da un lettore la conferma che ha chiuso il mio libro con una sensazione di speranza e di serenità.
Writer Officina: Che consigli daresti, basati sulla tua esperienza, a chi come te voglia intraprendere la via della scrittura?
Cinzia Fabretti: Consiglierei di non farsi autocensure. Di non temere la propria inadeguatezza. Di scrivere, perché è tra gli atti più liberatori che si possano immaginare. Poi, se il desiderio spingesse però oltre e diventasse non solo scrivere ma pubblicare, allora il consiglio diventa di cercare, prima, altri appassionati e di ascoltare, ascoltare tutti, ascoltare il più possibile, avendo la pazienza di conoscere prima, almeno in parte, questo mondo così variegato dell'editoria. Non improvvisarsi, assolutamente. Darsi il tempo di capire che scrittura è la propria, quanto sia acerba, a chi si può e si vuole parlare. Prima di farsi illusioni per poi vivere profondi dispiaceri, prendere coscienza di quello che si ha dentro e di quanto si riesce a esprimerlo. Poi, decidere. Perché qualsiasi sia in seguito il risultato, che si realizzino o meno le nostre speranze, non avremo rimorsi. Se ci saranno stati impegno e passione, pazienza e ricerca, allora avremo fatto il nostro meglio, e già quello sarà un premio, anzi, il vero, il migliore dei premi.
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