Writer Officina
Autore: Dario Villasanta
Titolo: Angeli e Folli
Genere Narrativa Noir
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Angeli e Folli
Mi chiamo Dax, sono un idiota e forse lo sono sempre stato.
Tecnicamente, sono un ‘pregiudicato con problemi psichiatrici'; qualcuno ha detto che sono stato semplicemente ‘sfigato', qualcun altro mi ha dato del coglione. In tutti i casi, la definizione giuridica di cui sopra mi rimane, e rimarrà sempre, appiccicata addosso. Come d'altronde calzerebbe a pennello per molti di voi, per quanto non lo sappiate ancora.
Ma non affronto il discorso qui e ora, perché quella che segue è parte della storia di altre persone, dove nulla è ciò che sembra ma ciò che sembra è tutto.

Milano profuma di fiori di tiglio le sere di maggio, o forse è sempre stata una mia impressione. Ma in certi momenti anche lo smog ha un buon odore.
Mi è sempre piaciuto girare a piedi di notte nelle città in cui sono vissuto e quella sera non iniziò diversamente da altre, salvo che non cercavo pusher o fornitori come spesso era accaduto in passato, quando ero più giovane e, diciamolo pure, più pirla. Probabilmente però, anche allora, ero solo curioso delle varie esperienze che la vita poteva offrire.
In realtà sono curioso anche ora e, passeggiate solitarie a parte, ho sempre avuto sete di nuove conoscenze perché affascinato dalle molte sfaccettature di carattere dei miei simili, variabili anch'esse a seconda delle situazioni.
In conclusione, direi proprio che la specie umana con le sue comunità è il giardino zoologico per eccellenza del pianeta, con la varietà di forme di vita più vasta, unica e inimitabile che io conosca.
Quella sera, come dicevo, non era iniziata diversamente da altre: cenato e fumato (dannazione, era dura smettere!), ero uscito anonimamente abbigliato. Mai avere un aspetto troppo ben curato quando si gira a piedi di notte per una grande città! Soprattutto se si hanno addosso denaro e oggetti di valore che è meglio tenere nascosti. Jeans e scarpe da ginnastica visibilmente usati non attirano l'attenzione dei malintenzionati, veri o presunti che siano - e nel mio caso ignari della persona con cui hanno a che fare - quanto abiti nuovi, sgargianti e firmati, orologi da urlo e scintillii dorati di vario tipo che, al contrario, sono una quasi irresistibile tentazione per il disperato di turno. Vera fauna metropolitana dal tramonto all'alba in cui s'incappa inevitabilmente, prima o poi. E l'abbiamo attirata noi, senza volerlo davvero, ma l'abbiamo fatto, la sfiga non c'entra per nulla. Per lo meno si deve avere l'accortezza di non portare tutto insieme il denaro nel portafoglio o in una tasca sola, è sempre meglio dividerlo in diverse tasche. Così è più probabile che se ne salvi un po', almeno per le emergenze per le quali può risultare inutile un bancomat o una carta di credito. Io addirittura, pur essendo ormai ricco e il come per ora lo taccio, non portavo con me nessuno dei due, neppure quella sera di maggio per le vie di Milano, durante la mia peregrinazione senza meta per i quartieri est che non avevo programmato, non lo faccio mai. Senza meta, né scopo. Sarebbero arrivati loro da me.
La prima giunse rapidamente. Erano circa le 21.30, ci stava bene una buona birra bella fredda e magari una Gauloises, per il solo fatto di non averne fumate altre da quasi un'ora e mezza.
Scelsi - o non scelsi, a seconda dei punti di vista - il primo e unico bar che scovai nascosto tra le vie nel quartiere greco, che conoscevo a malapena e non frequentavo da vent'anni e, più che un bar, entrando fui felicissimo di accorgermi che altro non era se non un erede dei vecchi ‘trani', le osterie milanesi di una volta. Là si serviva vinaccio originario appunto di Trani o giù di lì, si mangiava e si beveva a basso costo, ci si dava tutti del tu e l'unica regola che vigeva era di non rompere i coglioni.
Il locale era abbastanza ampio e caldo, con l'aria che odorava forte di fritto, e suonava non troppo sommessamente di movimenti, voci stentoree in milanese e dialetti del sud, schiocchi di boccette sul biliardo, cozzare di piatti e tintinnii di bicchieri in lavastoviglie. Qua e là echi lontani di voci in sardo tra l'uomo alto, moro, pettinato e ben rasato dietro al banco e le due donne - una mamma con la ragazzina adolescente - che mi fece intendere che la gestione era di una famiglia sarda. E se avessi avuto qualche motivo per dubitarne, questo svanì quando vidi l'ambiente costellato di bottigliette di birra Ichnusa.
Mi avvicinai al banco e chiesi proprio quella, mentre domandavo all'uomo di che parte della Sardegna fosse e gli dicevo che avevo nonni sardi anch'io e, via così, scambiammo qualche parola prima del debutto della birra sarda, che si fece strada ghiacciata nella mia gola dopo parecchi anni.
Intanto di fianco a me, un altro uomo stava appollaiato su uno dei pochi sgabelloni presenti. Dimostrava circa cinquant'anni, ma forse ne aveva meno; portava capelli brizzolati fino a sopra le basette ben tenute e camicia e pantaloni più nuovi dei miei jeans, ma con un'aria dimessa lo stesso. Anche se, forse, era lui che avrebbe avuto un aspetto così pur indossando un gessato su misura di Armani.
Venni subito a sapere che si chiamava Domenico e spontaneamente iniziò una conversazione: come al solito, mi sarebbe toccato tacere o mentire su tante cose. Scelsi di fare il meno possibile di entrambe, ma credo proprio di non esserci riuscito, neppure in seguito. Rimpiango quel momento...

Non sono un santo, non lo sono mai stato né lo diventerò mai: mi basta sapere di essere una persona che si comporta sempre e solo secondo coscienza. Ma ripeto, non sono un santo né m'importa di esserlo, poiché io non so proprio cosa voglia dire.
Quel tipo dell'altra sera, Domenico, mi ha fatto sbronzare o io ho fatto sbronzare lui, non lo so. Meno male, altrimenti avrei potuto presentarmi subito per come reagisco a certe cose, per esempio come uno che non tollera chi si comporta male con le donne: in galera ci finii anche per questo.
Per esempio quella sua amica che mi ha presentato è vero che è una prostituta, ma, se non mi fossi tenuto un po' a freno quando dei tizi hanno fatto i cretini con lei in quel locale del cazzo, avrei potuto alzarmi subito a fargli passare la voglia di scherzare... Bellina, davvero, e intelligente pure. Per me ha anche studiato e, credo, più di me. E mi sono sentito vicino a lei in qualche modo, lei, e quel locale fottuto insieme, mi hanno ricordato un'esperienza giovanile di cui non vado tanto fiero: mi stavo per prostituire anch'io, per due settimane della mia vita o, se non altro, ho pensato di farlo.
Davvero l'avrei fatto, ed è sorprendente che riesca a confessarmelo qui, oggi... Ma tant'è, ero giovane e sfacciato e volevo restare a Roma a tutti i costi in quel periodo e mi piacevano da morire le donne, come adesso, ma mi servivano anche dei soldi. Che fare, allora?
Decisi di restare da un'amica che era innamorata di me, in cambio di temporaneo aiuto. Nella mia testa avevo programmato di farmi conoscere da donne sui quaranta o cinquant'anni, che fossero ben tenute, e di offrire la mia compagnia: tecnicamente, accompagnatore con servizio di sesso a pagamento.
Sta di fatto che una sera presi a frequentare insieme a quest'amica - e ad altre due donne conosciute in un bar del centro di Roma - un club di cui taccio il nome, ubicato in una piazzetta dietro la festosa piazza Navona. Trasudavo spavalderia da tutti i pori e gli sguardi che lanciavo intorno a me erano inequivocabili, almeno fin tanto che non mi accorsi, dopo una più attenta panoramica, che... Sangue di Garibaldi! Erano tutte delle anziane... Gesù, e anche ormonalmente agguerrite!
Ebbi un attimo di sconcerto e credo di essermi trasformato nell'immagine dello spavento puro, allorché mi figurai mentre cercavo di scoparmi quelle nonne. E dovetti davvero trasformarmi poiché a un certo punto una già ben matura signora, agghindata in maniera che lasciava pochi dubbi sulle sue intenzioni, dopo un'oretta buona in cui mi ero messo mio malgrado al centro dell'attenzione, ruppe il silenzio che aveva contraddistinto lei sola tra la totalità delle presenti. Aveva occhi felini e modi suadenti di chi nella vita aveva bevuto troppo, amato troppo, visto troppo (e mi scusasse mr. Bukowski per avergli rubato questa frase).
- A' regazzì! - mi chiamò rimanendo seduta sul divano con le cosce accavallate. Mi voltai interrogativamente e lei mi fece cenno di avvicinarmi.
- Ci siamo - mi dissi, preoccupato e vanitoso insieme. E ci andai.
Con calma, lei si alzò dal divanetto e m'inchiodò con il suo sguardo da pantera. - Quant'anni c'hai? - mi chiese con voce morbida e calda.
- Venticinque - risposi ostentando un sorriso.
- Bene, regazzì. Venticinque. E dimmi: quanti anni ho io secondo te? -
- Non lo so... Diciotto forse? - provai a blandirla. Ma lei non vi badò, né cambiò espressione del viso.
- Io c'ho settantacinque anni. Me so' sposata due volte, tra un mese mi sposo la terza. E sai perché? -
- No -.
- Perché bisogna sempre ricominciare daccapo, e il quando nun lo sai mai. Tra un mese mi risposo e ricomincio daccapo -.
- Ah, però! - mi congratulai.
- E tu ‘o sai che significa che devi fa'? Mo' te ne vai a casa e te fai ‘na bbella dormita. Domattina, quanno te arzi, te metti davanti allo specchio e te guardi in faccia, e te devi da di': ho venticinque anni e da oggi ricomincio daccapo -.
Non l'avevo mai vista né conosciuta, le mie compagne di quella sera idem. Mi disse solo quelle parole e un "mo' vatte' a divertì" di congedo. Quelle parole non le ho scordate mai e, senza sapere il perché, il giorno dopo preparai le valigie e me ne tornai a casa su al nord, come se fossi ancora ipnotizzato da quella donna matura e sconosciuta. Abbandonai ovviamente le originarie velleità di vita dissoluta e ciò che lei mi disse quella notte divenne un mio mantra che continuo a recitarmi, con qualche riscontro tangibile.
Da oggi ricomincio daccapo, perché a quasi quarant'anni - non venticinque, come ho millantato quella sera - so per certo che nella vita non si smette mai di ricominciare daccapo e quando succede, davvero, non lo si può immaginare mai.
Se quella sera mi fosse sfuggito quell'imperativo imprevisto, sarei andato incontro a esperienze disgustose, ora me ne rendo conto. In primis avrei sfruttato, inconsapevole ma colpevole, un'amica che mi ha solo voluto del bene; in secundis, mi sarei dovuto far crescere del gran pelo sullo stomaco. Grazie alla sconosciuta di allora, ho evitato di avere oggi un motivo in più per farmi schifo. Eppure non ho mai saputo per quale ragione lei avesse deciso di rivolgermi quelle parole. Dentro di me le porto la riconoscenza più pura.
Questo è un episodio che avrei fatto ben volentieri a meno di ricordare, ma fa capire come mai io rispetto maggiormente le prostitute ‘dichiarate' piuttosto che le moltitudini di ‘brave mogli e madri' che si concedono in spose più per assicurarsi una tranquillità economica che per amore. È come se si vendessero, con l'aggravante dell'estrema ipocrisia verso i consorti e i parenti tutti. E sono solo patetiche schiave di loro stesse.
Quindi, ho ammirato quella Giulia perché portava avanti la sua vita a testa alta e senza ipocrisie e, almeno un poco, mi sono sentito di capirla senza saper bene il perché.
Di Domenico vi parlerò più avanti, forse. Lo avrei incontrato due sere più tardi a cenare da Renato e ricordai più volte anche a lui, durante la nostra conoscenza, le parole di quella sconosciuta.
Per ora vi racconto solo che andai nella trattoria di Renato un altro paio di volte e ancora v'incontrai Domenico. Di nuovo bevemmo insieme, di nuovo chiacchierammo di tutto e niente, poiché mi toccava essere ancora evasivo rispetto al mio passato (e il termine ‘evadere' usato da me mi fa un po' ridere, dato che sono davvero evaso, o ho provato a farlo, due o tre volte!).
Non ripetei la performance alcolica della prima volta, innanzitutto perché non ne avevo voglia, ma fondamentalmente perché nel corso degli anni ho iniziato a nutrire un non so che di avverso nei confronti delle esagerazioni in genere, e di chi regge male l'alcol in particolare. Domenico non andava mai oltre, ma notai che oltre a bere parecchio si teneva sempre su un livello costante: lo dicevano gli occhi acquosi e l'alito fresco di bevuta, i movimenti quasi rallentati e gli sbalzi di umore repentini. Notai anche che gli faceva difetto l'attenzione, aveva dei cali che non ritenevo caratteriali, in quanto alcuni tratti del suo modo di fare, che non sapevo ancora spiegarmi, mi dicevano che era una persona profondamente infelice.
Forse erano le camicie, fondamentalmente belle ma con polsini spiegazzati o lisi, dai quali faceva capolino sempre lo stesso orologio di plastica nero da poco prezzo, anche se il segno sul polso era più largo del cinturino, a testimoniare che d'abitudine ne usava, o ne aveva usato, uno diverso. Mi chiesi se non glielo avessero magari semplicemente rubato.
Fu la terza volta che lo incontrai a chiarirmi e confermarmi che aveva visto giorni migliori.
Dario Villasanta
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Dario Villasanta
Dico sempre di essere un viaggiatore delle strade sbagliate, e probabilmente è anche vero, ma forse sono soltanto un uccellino che ha impiegato più tentativi di altri per imparare a volare via dal nido e trovare la sua dimensione nel mondo. Nelle mie migrazioni ho vissuto diverse vite, fatto tanti lavori ed esperienze, conosciuto moltissima gente: ognuno di questi tasselli oggi trova una sua collocazione, mi ha reso il mosaico che sono, ma è poi quello succede un po' a tutti, no? Ho un pessimo carattere, ma oggi, dopo averlo conosciuto nelle sue situazioni peggiori, ho imparato ad amare l'uomo e le sue imperfezioni. Ciò nondimeno sono spesso intollerante, ma amo comunque le sue espressioni migliori come la musica e la parola scritta. Non amo le cose facili e ho pagato per questo, credo pagherò ancora. Sono profondamente coinvolto dalle questioni di principio, non posso fare a meno di incazzarmi per queste, per piccole che siano.

Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?

Villasanta: Non me ne sono proprio accorto. È cresciuta con me leggendo e io ho imparato a leggere a tre anni, sicché il primo libro l'ho letto quando ancora non avevo contezza completa di ciò che stavo facendo. Neanche mi ricordo quale fu.

Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?

Villasanta: La voglia l'ho sin da ragazzino, ma la decisione di provare a fare sul serio, intendo lavorandoci come un professionista, ha preso il sopravvento con On writing di Stephen King e, prima ancora, la lettura dei classici russi e francesi da giovanissimo.

Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?

villasanta: In realtà lo autopubblicai perché digiuno di contatti e nozioni del meccanismo editoriale, furono gli editori a cercare me perché con quello vinsi un premio speciale importante al Premio Internazionale Città di Cattolica nel 2015. Il risultato? Che in attesa di un editore di qualità (che ci sarà comunque nel 2023: anticipazione!) ho preferito ristampare di nuovo in self perché la pazienza non è il mio forte, anche se la possibilità di firmare per un buon editore l'ho avuta.

Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?

Villasanta: Questo lo sai sempre dopo, impossibile dirlo a priori. Per ciascuno cambiano le cose, soprattutto in base a come si muove sul mercato e sul WEB. A me è servito, ho imparato molto dalla gavetta e, sinceramente, mi sono anche divertito molto e non sono il solo. Anche autori già affermati spesso hanno provato e si sono divertiti.

Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?

Villasanta: Sono due: Angeli e folli (perché il primo e perché mi aprì una strada, inoltre segnò il mio stile) e il suo seguito naturale, Nella pancia del mostro, perché è scritto meglio ed è molto ‘forte' quanto a sensazioni che trasmette. Mi ha dato dei riscontri del pubblico commoventi, non esagero, per via dell'argomento.

Writer Officina: Cosa hai voluto dire con la tua storia?

Villasanta: Ho denunciato un sistema italiano sconosciuto e malato, quello psichiatrico e carcerario, ma ancor di più ho voluto dare voce agli ultimi, a quella numerosa folla silenziosa di persone che vorrebbero poter gridare la sofferenza al cielo ma non ne hanno gli strumenti: persone con disagi psichiatrici, di dipendenze, le persone a loro vicine, carcerati eccetera. Neanche a dirlo, ho preso spunto da fatti e personaggi realmente esistiti e mi sono documentato molto sul campo. Non ti nascondo che ho pagato un prezzo per tutto questo...

Writer Officina: La scrittura ha una forte valenza terapeutica. Confermi?

Villasanta: A lungo ho pensato di sì, poi però forse non è vero niente, forse cerchiamo solo di dare un senso a qualcosa dentro di noi. Oltre ad essere, diciamocelo, un esercizio di pura vanità. Non per niente noi scrittori siamo tutti degli insopportabili narcisisti, e lo dico senza sorridere.

Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?

Villasanta: Niente di tutto questo. Mi preparo tutto in testa per mesi, poi lo scrivo, ma a quel punto io so già tutto quello che devo fare. Oggi prendo qualche appunto durante la stesura, per evitare di incappare in buchi logici e non dimenticarmi alcuni particolari dei personaggi, ma fondamentalmente non sono mai riuscito a scrivere seguendo una scaletta scritta, tanto non la rispettavo mai. Forse anche per pigrizia, vai a sapere.

Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?

Villasanta: In questo periodo sono fermo, non scrivo nulla ma mi prendo tempo per leggere che è lo strumento indispensabile per poter scrivere. L'inedito è già pronto per l'uscita del 2023 ed è dello stesso filone dei due precedenti, ma vorrò chiudere un altro romanzo di genere molto diverso e anche più divertente da scrivere, se proprio devo dirlo.

Writer Officina: Che consigli daresti , basati sulla tua esperienza, a chi come te voglia intraprendere la via della scrittura?

Villasanta: Ha fatto più danni la voglia di scrivere senza leggere che l'analfabetismo, perciò: leggete! Altrimenti è come voler costruire una casa senza mattoni. E poi, preferibilmente, fate altro lo stesso (sorrido stavolta, nda)
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