Writer Officina
Autore: Antonella Alboni
Titolo: Amandine
Genere Contemporaneo Saga
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Amandine
Un anno a Kinnaber Vol.3

Si guardò intorno e non si riconobbe. Il suo riflesso, nella perfezione di cui amava circondarsi, era sparito.
Per lavoro, abitava luoghi unici, si tuffava nelle atmosfere che sapeva creare e trasferiva quanto poteva nello zaino del suo vissuto.
Non si era mai sentita giù di corda quando doveva separarsene, a progetto terminato, ma ora quei capitoli chiusi la privavano della libertà che si era illusa di avere; non voleva una vita fatta di belle scatole, sparse qua e là e nemmeno una di queste poteva dirsi sua. Era una nomade dentro, e non per mancanza di radici, ne aveva troppe. Ora, il suo piccolo intimo desiderio era una piccola radice che tenesse in piedi la piccola pianta che era la sua vita, la nutrisse, le facesse cadere le foglie in autunno e le rinnovasse in primavera, tenere speranze di un verde pallido, entusiaste per l'estate che stava arrivando.
Era lì, di nuovo bellezza a profusione, il sole di fine estate bucava l'aria frizzante che sapeva di mosto e la brezza trascinava con sé i rumori della vendemmia. Aveva davanti vallate di viti, le foglie che viravano al rosso, un giardino ben curato, allevato con la stessa dedizione che si riserva ai figli fragili. Era appena arrivata ma sapeva che sarebbe dovuta ripartire e la magia divenne oscura, un peso sullo stomaco. Si sentì una portatrice sana di perfezione. Per una vita si era detta menzogne, lei era quanto di più lontano ci fosse dal sublime che creava per gli altri, elargiva promesse che non sapeva mantenere nemmeno per se stessa.
Una distinta signora, che aveva detto di chiamarsi Ada, l'aveva invitata a sedere sotto al portico e si era allontanata per avvisare il signor Anderson e portarle un caffè.
Prima di sedersi dette un'occhiata al giardino che circondava la casa e si affacciava sulla valle operosa.
Era arrivata un'ora prima dell'appuntamento. Non conosceva la strada e fortunatamente si era mossa da San Francisco con molto anticipo perché il GPS l'aveva guidata per un percorso discutibile ma, alla fine, aveva varcato l'arco in ferro battuto che introduceva alla proprietà e sulla cui parte superiore si intrecciavano una serie di volute che disegnavano le iniziali F ed A. Dopo il cancello c'era un bivio: proseguendo diritto si arrivava alla casa, mentre la stradina a sinistra conduceva alle cantine, o, perlomeno, queste erano le indicazioni che le avevano consegnato al Feroda.
Doveva vedere Thomas Anderson, il proprietario della casa vinicola che Google definiva la più prestigiosa dell'intera contea.
La famiglia Anderson voleva ristrutturare la casa padronale e lo studio Feroda Partners se ne era incaricato.
Non aveva stupito nessuno, gli architetti del Feroda, si occupavano dei progetti edilizi di una società del gruppo Anderson e, per loro, avevano firmato un paio di avveniristici ospedali, per non parlare delle aree residenziali sparse nell'intero pianeta che avevano fatto scuola negli istituti di architettura di tutto il mondo.
Pure lei ora lavorava nello studio Feroda; c'era entrata per un'accorata presentazione o forse per una malaugurata coincidenza. O per entrambe.
La sua specialità era ristrutturare antiche magioni, vecchi Chateaux o attempate dimore nella campagna inglese.
Era molto ricercata per avere portato nel XXI secolo valorosi pezzi del passato, tanto belli quanto scomodi.
Al Feroda Partners non avrebbero mai assunto una come lei, se non per ristrutturare quell'angolo di storia della Napa Valley, dopo che Thomas Anderson aveva rifiutato una serie di loro proposte.
Per un problema di immagine non potevano permettersi che si rivolgesse ad un altro studio e Mandie Johnson era la soluzione. Lo studio Feroda rappresentava una grande occasione per lei, soprattutto per essere un ripiego d'emergenza.
Philippe le voleva bene e l'aveva aiutata a sparire dalla faccia della terra. Questo lavoro era la rinascita che le avrebbe permesso di guardare al futuro e lasciarsi alle spalle il terreno paludoso degli ultimi anni della sua vita da Amandine de Villepin.
Doveva togliersi dalla mente il suo vero nome, ora era Mandie Johnson. La nonna americana la chiamava così ma le sue frequentazioni da adulta non conoscevano quel vezzeggiativo e Philippe l'aveva scelto proprio per essere comunemente prosaico, ne era certa.
Era un nome da cameriera di fast food, uno di quelli che si leggono sulle targhette appuntate ai grembiuli, quanto di più lontano da Amandine non ci poteva essere.
Andava bene così, non voleva niente che la riallacciasse al suo passato.
- Signora Johnson buongiorno, mi scusi per averla fatta aspettare - . Thomas Anderson le tese la mano mentre si avvicinava.
- Colpa mia, sono arrivata in anticipo - .
- Ci sediamo un attimo prima di cominciare il giro? Cosa ne pensa di questo posto? - .
- È esattamente dove vorrei vivere dopo avere sbattuto la porta in faccia al mondo. È isolato ma non lontano dalla civiltà, la mano benigna dell'uomo è in tutte queste valli, un'oasi per l'anima. E la casa è splendida, almeno per quel poco che ho potuto vedere - .
- La penso allo stesso modo ed è il motivo per cui ho intenzione di ristrutturare tutti gli edifici nella proprietà. Era il progetto che aveva in mente mia moglie prima di ammalarsi e non l'ha nemmeno visto iniziare. Voglio esaudire il suo desiderio ed è sia un modo per ricordarla sia una necessità, questa casa ha davvero bisogno di una risistemata - .
Le parole di Thomas Anderson erano energiche anche se, quando aveva rammentato sua moglie, il suo sguardo si era adombrato.
- Non so cosa le abbiano detto al Feroda, probabilmente che sono oramai fuori di testa, ma davanti ai loro progetti sono sicuro che mia moglie avrebbe riso. Non ricordo esattamente cosa volesse lei, ma saprò riconoscere l'idea giusta - .
- Non le posso promettere niente e il mio, spesso, viene definito un approccio intimistico, e le assicuro che i miei metodi sono conservativi, nella struttura e nello spirito, in tutti i miei lavori. Le hanno anticipato che mi fermerò qui? -
- Certo, e le ho fatto preparare una dependance, dove potrà stare comoda. Abbiamo messo un grande tavolo da lavoro, come aveva chiesto. Cominciamo il giro? - .
Mandie lo seguì in una visita accurata della grande casa. Preferiva essere accompagnata dal proprietario perché le interessava come la famiglia viveva fra quelle mura, le loro abitudini, il loro posto preferito per leggere, come il sole entrava al mattino e le ombre dipinte dai tramonti.
L'edificio rispecchiava il modo di vivere delle grandi famiglie d'altri tempi in una comunità agricola.
Aveva una struttura solida, a ferro di cavallo attorno ad un giardino ben curato delimitato da loggiati, preziosi per ripararsi dalla calura estiva.
Un'appendice, costruita successivamente, comprendeva tutti i locali di servizio che si dipanavano attorno ad un secondo cortile con al centro una grande fontana all'ombra di un solitario sicomoro della California.
Quando salirono al piano superiore erano passati al tu e avevano abbandonato le formalità di rito.
- In questa casa vive anche Catherine, la sorella di mia moglie, ma, dalla sua morte, fa una vita molto ritirata. Spero che il rinnovamento della casa le sia di stimolo per uscire dal suo lutto. Le due sorelle erano molto unite e, dopo il suo divorzio, Cat decise di aiutare Flora nella gestione della casa vinicola, per cui venne a vivere qui. Del resto, la casa è così grande che a volte non ci si incontra per giornate intere. E non mi piace, io voglio vedere la mia famiglia, o quello che ne è rimasto. Gregory, mio figlio evita con cura questo posto con la scusa che da qui non può lavorare.
Bene, voglio che tu mi faccia un ambiente dove possa essere a suo agio o addirittura dove lui non possa fare a meno di vivere, per lo meno quando il lavoro glielo permette - .
- Sbaglio o stai usando la ristrutturazione come catalizzatore? - .
- Sì, e non me ne vergogno. Voglio che questa sia la casa per i miei nipoti e per la famiglia di Greg, quando ne avrà una - .
- Io mi aggirerò fra queste mura per capire meglio la vostra vita; è il mio modo di lavorare e non so ancora dirti quanto ci vorrà - .
- Prenditi il tempo che vuoi, tu sei la mia ultima speranza - .
- Al Feroda mi hanno detto che ho carta bianca - .
- Fai quello che ritieni più opportuno. L'unica richiesta è il trasferimento delle camere mie e di Cat nell'ala sud e il vecchio appartamento mio e di Flora sarà la nuova sistemazione di Gregory - .
- Bene, appena capisco come muovermi ti faccio sapere. Avrò bisogno anche di incontrare tua cognata - .
- Se riesci a tirarla fuori dalla sua camera te ne sarò eternamente grato - .
- Vedrò quello che posso fare - .
- A proposito, mi è piaciuto che tu sia arrivata un'ora prima. Ci vediamo per cena? - .
- Grazie, volentieri - . Mandie lo salutò e seguì la signora Ada, la governante, alla dependance che le avevano preparato. Era defilata rispetto alla casa principale e si affacciava sul piccolo lago che si estendeva in gran parte della proprietà. Ringraziò mentalmente che ci fossero le zanzariere alle finestre e appoggiò la valigia accanto al letto.
Non aveva con sé molte cose, la sua divisa da lavoro erano jeans e maglietta e non le sembrava fossero troppo formali da quelle parti. Le valigie portate dall'Europa erano rimaste nel baule della sua auto, avrebbe valutato con calma se era il caso di aprirle.
Thomas era un bell'uomo, con la tranquilla eleganza del signore di campagna. Gli era piaciuto quando lo aveva visto arrivare con in testa un panama a tesa larga che aveva un foulard annodato al posto del solito nastro.
Era sicuramente un ricordo di sua moglie e le piaceva che continuasse a portarlo anche dopo la sua morte.
Sembrava un uomo forte, lo si intuiva da come entrava in una stanza e stringeva la mano, uno di quelli che non aveva paura di dire al mondo che era capace di amare, fosse anche solo un ricordo.
Aveva una buona percezione, le piacevano le valli a perdita d'occhio e la casa che le dominava dall'alto della collina, come una vigile custode.
Sarebbe stato un buon posto per lavorare. Era un progetto maestoso e, se avesse ottenuto l'incarico, sarebbe stato il suo rifugio per molti mesi dell'anno a venire. L'oscura sensazione percepita al mattino si dileguò e ricominciò a respirare a pieni polmoni.
Magari in Francia si sarebbero dimenticati di lei. Aveva bisogno di quel progetto, non doveva fallire. Se tutto fosse andato per il verso giusto, avrebbe seguito i lavori e si sarebbe occupata anche degli interni, oltre che delle opere strutturali. Avrebbe avuto necessità di andare a San Francisco qualche volta, ma si poteva gestire.
Terminato di sistemare le sue cose nell'armadio uscì per un giro in giardino. Non aveva la grazia dei parchi inglesi, addomesticati da mani esperte, ma una bellezza naturale, lasciata al caso e alle decisioni della natura, comunque curato, con degli scorci pieni di fascino.
Come quell'enorme salice piangente che cresceva indisturbato nell'isolotto al centro del lago, con le fronde che sfioravano l'acqua e seguivano con grazia ogni respiro dell'aria.
Al piccolo molo era attraccata una barca a remi, doveva chiedere se poteva usarla, le piaceva remare e voleva vedere la prospettiva della casa dal punto di vista del salice.
Sentì il rumore di un'auto e vide la Land Rover di Thomas risalire il viale d'ingresso. Era quasi ora di cena, doveva andare a prepararsi.

Undici
Tutto questo non aveva potuto raccontare a Thomas, ma si era fatta un quadro generale a cui attenersi e gli aveva fornito una versione riveduta e corretta delle motivazioni che l'avevano portata fino lì.
La cena era stata piacevole e Thomas un anfitrione consumato.
Nei giorni successivi Amandine si aggirò per la proprietà e cominciò a formulare un'idea di base, unitamente ad una programmazione dei lavori che doveva essere il meno invasiva possibile per la famiglia che vi abitava. Complicava le cose ma poteva essere fatto. Ebbe anche alcuni piacevoli incontri con Catherine, la sorella della moglie di Thomas e cercò, a piccoli passi, di coinvolgerla nella ristrutturazione, facendo leva sull'affetto che Catherine provava per Flora.
Thomas si era raccomandato di sollecitarla il più possibile ad uscire dal suo lutto prolungato e il rinnovamento della casa gli sembrava un'opportunità.
Una sera furono sorpresi dalla sua presenza a cena. Si era preparata con cura e aveva partecipato alla conversazione incentrata sui lavori nella proprietà.
Si ritirò presto e, una volta soli, Thomas la ringraziò per quel piccolo miracolo.
Amandine era riuscita a non turbare gli equilibri della casa e aveva socializzato anche col personale di servizio che non perdeva occasione di raccontarle episodi di quando era viva la signora Flora, delle splendide feste che si davano in casa Anderson e degli amici e clienti che arrivavano da tutte le parti del mondo. Erano tutti collaborativi e si prodigavano ad aiutarla. Se fosse stata ancora Amandine avrebbe goduto dell'ospitalità squisita in quell'angolo di paradiso, ma, come Mandie Johnson, si portava dietro un fardello pesante, senza contare che doveva stare attenta di continuo a non raccontare troppo di lei e del suo passato. Dire che era evasiva era riduttivo. Era diventata la regina dell'elusione e le pesava dovere interpretare la vita di qualcun altro. Philippe era stato magistrale a trovarle quel posto e sperava di avere fatto perdere le sue tracce. Sarebbe dovuta andare diverse volte a San Francisco, ma aveva una nuova pettinatura e aveva preso l'abitudine ad usare un berretto con visiera calcato in testa, lo aveva visto spesso nei film. Era poca cosa, ma avrebbe diminuito la probabilità di essere occasionalmente riconosciuta. Il mondo è grande ma, a volte, sa essere molto piccolo.
Era arrivata alla fase del progetto in cui doveva pianificare i lavori nell'appartamento di Gregory, il figlio di Thomas e aveva preso diversi appuntamenti ma glieli aveva puntualmente cancellati e rimandati a data da destinarsi. E non erano stati fissati di nuovo. Aveva chiamato tante volte la sua assistente ma non lo riusciva mai a beccare. Una volta era in Europa, una volta a New York, un'altra volta aveva clienti e non poteva dedicarle tempo. In conclusione lei si era stancata di questo gioco a rimpiattino, ma non voleva annoiare Thomas per un suo problema.
Aveva saputo a cena, la sera precedente, che Gregory Anderson era rientrato e decise di presentarsi direttamente al suo ufficio.
Arrivò a San Francisco in tarda mattinata e salì ai piani alti della Anderson Group, con il pass che le aveva procurato Thomas e che aveva trovato alla portineria.
Una ragazza alla reception l'accompagnò dall'assistente di Gregory Anderson. Amandine si presentò e chiese di vederlo. La segretaria cercò di dissuaderla ma alla fine fu costretta a disturbare il suo capo.
- Il signor Anderson le chiede di accomodarsi, vede se riesce a trovare un attimo per lei - .
Dopo un'ora chiese se poteva avere un caffè e la segretaria la indirizzò alla zona ristoro. Fu la prima di una serie di visite, per un altro caffè, una cioccolata calda e una fetta di torta che qualcuno aveva portato per il compleanno di un collega. Era buonissima e chiese di poterne avere un'altra fetta e se la portò alla sua postazione fuori dall'ufficio del grande capo, non voleva mancare in caso l'avesse chiamata.
Alle cinque del pomeriggio il fuoco sacro dell'incazzatura l'aveva investita in pieno e stava bruciando inesorabilmente.
Quando, alle sei, il signor Anderson comparve sulla porta del suo ufficio, lei avrebbe voluto vederlo morire di una morte lenta e dolorosa.
- Signora Johnson, sono desolato, ma non riesco a dedicarle nemmeno un minuto - .
Si alzò con calma, ringraziò mentalmente di essersi messa un tacco di tutto rispetto così poté piantargli gli occhi addosso da un'altezza ragguardevole.
- Non ci sono problemi, lo scopo era conoscerla e un pomeriggio passato alla sua porta ha assolto il mio intento. Conosco la tipologia e mi è chiaro come vuole il suo appartamento. La ringrazio della sua disponibilità e spero sarà soddisfatto del mio operato. Ora la lascio, deve avere avuto una giornata molto pesante - .
Si girò per andarsene ma con la coda dell'occhio intravide il piatto con l'ennesima fetta di torta che si era portata per ammazzare il tempo. Con quanta più grazie poté, lo prese e lo consegnò nelle mani di Gregory Anderson.
- La assaggi, non credo abbia pranzato oggi - .
La vide sparire nel corridoio degli ascensori, con una andatura che lui definì, fra sé, tutta europea, dovuta certamente a quei due metri di gambe, a quella testa bionda e all'aria che si spostava quando lei passava e stendeva un tappeto rosso sotto i suoi piedi.
Si sedette alla sua scrivania per un paio di telefonate e si ritrovò a mangiare la fetta di torta sbocconcellata dalla signora Johnson. La trovò squisita.

.:.

Si sedettero fuori e Greg preparò religiosamente la sua pipa.
- Perché mi guardi? - .
- Mi piace l'uomo che fuma la pipa e ti sta bene. Hai stile - .
- Il mio ego sta volando in cielo - .
- Il tuo ego è di norma ad altezze siderali - .
- Se voglio camminarti a fianco...Perché l'Africa? - .
- L'Africa è come eravamo milioni di anni fa. È primordiale, priva di costrutti, anche se ci hanno provato in molti a portare ognuno i propri. Ma, se scegli bene il posto, sei tu e Dio, o quello che per ciascuno di noi è Dio. Sei tu e l'energia cosmica e ridiventi il granello di polvere che il Rinascimento ha poi elevato e plasmato. L'Africa è un calcio nello stomaco, ma sa anche lenire il dolore. L'Africa è un percorso dentro se stessi, non puoi barare. L'Africa è aspettare che piova, che faccia fresco, che faccia caldo, che ripiova - .
- Perché hai voglia di Africa? - .
- Perché voglio sedere sotto un baobab e aspettare che venga sera - .
Antonella Alboni
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Antonella Alboni
Per un certo periodo, la mia vita è stata un susseguirsi di peregrinazioni in giro per il mondo. Sono laureata in informatica e grazie ai miei studi ho avuto occasione di lavorare a lungo negli Stati Uniti. Fin da adolescente ho sentito il fascino dell'avventura unito ad una sfrenata passione per l'Africa. Fantasticavo sull'Africa attraverso le pagine della Blixen, Doris Lessing, Coetzee, e dei tanti autori che ne hanno scritto. Quando si è giovani si ha la sfrontatezza di sognare in grande e ogni volta che l'ho fatto mi è andata bene. Ho esaudito questo sogno e mi sono trasferita in Africa, un momento struggente della mia vita a cui sarò legata per sempre, anche perché in Africa sono nati i miei figli. Non ho mai scritto mentre vivevo in Zimbabwe, nonostante ne avessi il tempo e i mezzi. L'Africa è totalizzante e non c'era spazio per nient'altro, se non per viverla. Ora, il mio quotidiano è in Toscana, con frequenti puntate a Londra e in Scozia dove le mie figlie rispettivamente lavorano e studiano e dove sono ambientati i miei romanzi.

Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?

Antonella Alboni: Ho sempre subito il fascino della letteratura, per gli infiniti mondi a cui si può accedere aprendo le pagine di un libro. La letteratura era però relegata nei confini della passione e ho scelto di studiare altro, accettando la sfida del mondo dei teoremi. Non me ne pento, mi ha fornito un ulteriore punto di vista.

Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?

Antonella Alboni: Certamente, la scintilla fu Niente e così sia, della Fallaci. Lei mi aveva colpito il cuore e la mente e, mentre era in vita, ho seguito tutto il suo percorso.

Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?

Antonella Alboni: Nessun editore, non avrei avuto la pazienza di aspettare una risposta visto che c'era un'alternativa.

Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?

Antonella Alboni: Trovo che sia un'ottima opportunità, non mi interessano i detrattori. Ovviamente accetterei la proposta di una CE di livello soprattutto perché mi piacerebbe che i miei romanzi fossero tradotti e, da sola, non ho i mezzi e le entrature per affrontare un mercato anglosassone o spagnolo.

Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?

Antonella Alboni: Un anno a Kinnaber è una saga, e mi affeziono sempre all'ultimo che ho scritto. Scrivendo si impara e l'ultimo è migliore dei precedenti. Racconto la vita di un gruppo di amici che si ritrovano a vivere le situazioni più disparate, a risolvere intrighi e misteri. Diciamo che sono racconti di cappa e spada in un mondo contemporaneo, frutto del mio amore per il ciclo arturiano. L'ambientazione è internazionale e ho fatto tesoro del mio vissuto, riproponendolo nei miei libri. Sono romanzi divertenti e brillanti. Il tema comune alla saga è l'amicizia che lega i personaggi che ruotano intorno a Kinnaber, una tenuta scozzese dove si produce il whisky McFarland, da qui il titolo del primo libro.
Le situazioni raccontate sono di fantasia e sopra le righe, comunque c'è sotto un'attenta documentazione e ricerca di episodi realmente accaduti e a cui ho attinto. In ogni libro la parte avventura si intreccia alla storia personale dei protagonisti, il tutto con una scrittura essenziale e veloce, adatta alla storia.
Altro tema comune alla saga è che Niente è come appare. Del resto la realtà, come le persone, hanno tante sfaccettature e dipende dall'angolazione con la quale le guardiamo.

Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?

Antonella Alboni: La storia nasce nella mia testa, come un film. Nei miei libri ci sono molti personaggi quindi ho necessità di schede per ognuno di loro e schemi per la tempistica. Per le parti più inerenti all'intrigo preparo dei grafici che mi sintetizzano l'intrecciarsi degli eventi. A parte questo, scrivo d'istinto, senza scalette e descrivo l'azione come la immagino. L'unica tecnica che uso è Show, don't tell. Mi piacciono i dialoghi brillanti e li trovo adatti per le storie che racconto.

Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro?
È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?


Antonella Alboni: Sto scrivendo il quarto libro della saga, i miei lettori la stanno aspettando. Contemporaneamente, ho già nel mio cassetto mentale qualcosa di totalmente diverso, più intimistico, dove l'Africa sarà protagonista. Per ora, avevo voglia di divertirmi e Un anno a Kinnaber e stato un ottimo modo per farlo. Tirando le somme questi tre libri sono stati un'esperienza più che positiva, ho un piccolo pubblico che mi segue e ogni giorno qualche nuovo lettore mi contatta sulla mia pagina Facebook scrivendomi che si sono divertiti leggendomi, era quello che volevo. E se, insieme ai miei lettori, continuerò a divertirmi, ci sarà il quinto, il sesto, chissà!

Writer Officina: Cosa hai voluto dire con la tua storia?

Antonella Alboni: Prendo a prestito una frase di Federico Fellini: Io non voglio dimostrare, voglio mostrare. Avevo una storia e l'ho raccontata. Chiaramente la storia convive con mille situazioni, problemi e affanni e io osservo le reazioni dei vari personaggi. Affronto le loro incertezze interiori non attraverso i loro pensieri ma usando il dialogo, incessante fra tutto il gruppo, I Famigerati di Kinnaber, una seduta terapeutica continua, sempre ironica, spesso sarcastica.

Writer Officina: Cosa c'è di te nel tuo romanzo?

Antonella Alboni: Tutto e niente. Io sono romagnola e vengo da una famiglia di donne forti. Non è necessariamente una cosa positiva, ci sono aspettative alte e la sfida è continua. Io sono sopravvissuta e questo modello femminile lo ripropongo nei miei romanzi. Le mie, sono donne che, di volta in volta, portano dei carichi pesanti ma devono agire, la situazione lo richiede. Credo che sia necessario proporre una donna intimamente convinta di non essere da meno di un uomo e che si pone al fianco della figura maschile, non un passo indietro, ma accanto. Le donne sono fortissime, affrontano la battaglia del quotidiano e a loro si richiede anche il sorriso sulle labbra. Devono essere consapevoli delle loro capacità, devono uscire dall'immaginario dell'amor cortese, di figura femminile che ha necessità di un uomo e di un amore per compiere se stessa. La forza delle mie protagoniste sta nel prendere decisioni, pur tra gli affanni, pianti e incertezze. Sono dilaniate dentro ma agiscono, perché la situazione lo richiede e Niente è come appare.
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