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E se ti portassi rose?
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Flavio
Per lui, la vita che conosceva, finì un mese dopo l'aver compiuto i diciassette anni. Sempre, fino a quel momento, si era considerato un ragazzo fortunato che aveva avuto tutto quello che qualsiasi altro ragazzo della sua età potrebbe desiderare. Era l'amato e coccolato figlio unico di una coppia di classe media, baciato dalla fortuna che lo aveva premiato con un'intelligenza acuta, un corpo atletico e un fisico che, in genere, lo aveva sempre favorito con le ragazze che conosceva. Già dagli anni della pubertà era piuttosto alto, paragonato ai ragazzi della sua stessa età, era appassionato di sport nautici, che praticava in compagnia di suo padre, con cui faceva squadra; e dall'età di tredici anni faceva anche parte della squadra di rugby della sua scuola. A quindici anni aveva conosciuto quella che amava chiamare sdolcinatamente - l'amore della sua vita - : Luciana, una ragazzina di quattordici anni che dal momento in cui si era trasferita con i suoi genitori in un appartamento del primo piano del suo stabile, era riuscita a svegliare in lui l'inquietudine. Vero era che conosceva altre ragazze, forse molto più carine di lei, ma Luciana sapeva come conquistarlo, come svegliare l'agitazione nel suo intimo, col suo sguardo provocante e le sue maniere di Lolita irresistibile. Con lei perse la verginità, in un deposito nel seminterrato del loro edificio. Da allora e per i futuri due anni lei divenne la sua ossessione fatale e anche la sua fidanzatina - ufficiale - , per così dire; sotto gli sguardi compiacenti e anche un po' divertiti dei rispettivi genitori, che consideravano la cosiddetta relazione come un semplice innamoramento tra adolescenti. Eppure, in Luciana non esisteva niente che potesse essere catalogato come semplice. Più che una bambina, era una donna precoce, da una sessualità morbosa e un po' perversa ed esaltata; insaziabile. Lei
amava mettere in pratica giochi erotici che lui neanche riusciva a indovinare dove e con chi li avessi imparati. Realizzava la fellatio, con una padronanza che tante donne adulte sicuramente ignoravano, e gli piaceva esercitare il ruolo di sottomissione. E così fu: lui diventò il suo schiavo. Ciò nonostante si sentiva contento dentro quella relazione un po' sordida, che era un segreto per la gente adulta intorno a loro. Solo con uno dei suoi amici più vicini aveva Flavio osato rom- pere quel segreto e, in certe occasioni, soleva narrargli con torbido piacere gli incontri erotici vissuti con la sua giovanissima vicina di casa. Mai però, condivise queste storie con nessun altro e, così, lui e Luciana continuarono facendo vedere al resto del loro mondo l'apparente amore giovanile e piuttosto innocente che tutti si aspettavano e volevano tanto sperare. Lui, in fondo, la amava perdutamente.
Con la prima crisi convulsiva che Flavio ebbe, scoprì che forse lei non lo aveva mai amato. Lui fu ricoverato in ospedale e lei venne a visitarlo accompagnata dai propri genitori, e appena seppe la diagnosi dei medici tutto cambiò. Dopo il ragazzo ebbe altre due crisi in un periodo di due giorni consecutivi e rimase ricoverato per quasi una settimana in cui le analisi e gli esami medici gli sembrarono interminabili. Quando finalmente ritornò a casa, depresso e arrabbiato per la sfortuna, si sentì ancora peggio nell'accorgersi che le cose con Luciana non erano, né sarebbero più state, come prima. Lei lo guardava con una certa commiserazione e poco a poco le sue visite si diradarono fino a finire completamente. Per quanto riguardava i genitori di Flavio, invece, loro si dedicarono a sovra proteggerlo in una maniera che lo esasperava. Forse, se fosse stato un adulto, avrebbe ringraziato e capito il loro gesto; ma era solo un ragazzino di diciassette anni, che guardava spaventato come la propria vita cadeva a pezzi, senza che potesse fare niente per evitarlo.
- Chissà, forse, la lesione è la conseguenza di un trauma sofferto durante qualche partita di rugby... forse ... - Aveva affermato lo specialista e loro ricordarono che, infatti, Flavio aveva subito mesi prima un incidente sul campo di gioco che l'aveva lasciato incosciente per qualche minuto. - Niente da temere - disse l'allenatore e lui aveva raccontato l'incidente ai genitori minimizzando i dettagli. Mancò a scuola per quasi un mese, al suo ritorno, già tutti conoscevano la sua storia. Era questo il principale svantaggio di abitare in una piccola città: cioè che le notizie correvano molto in fretta! E con il passare dei giorni le cose peggiorarono ancora di più: le crisi convulsive si ripeterono ─almeno due di esse avvennero a scuola─ e sua madre dovette rinunciare a lavorare nel negozio di articoli sportivi che possedeva nel centro del paese, poiché doveva passare la maggior parte del tempo affianco a lui. Perciò contrattò un'impiegata che avrebbe potuto gestire il negozio mentre lei si dedicava, quasi a tempo pieno, alla cura del figlio ammalato. L'impegno consisteva in portarlo a scuola e passare a prenderlo all'ora dell'uscita, portarlo a Roma (vicina trenta chilometri); quando lui desiderava fare shopping, e anche portarlo alle riunioni e festicciole in casa di amici. Finché anche queste, a poco a poco, non cessarono. Flavio non voleva più uscire da casa, odiava sentirsi sorvegliato e curato da tutti. La malattia gli aveva portato via le due cose che amava fare di più nella vita: il rugby e navigare sulla sua barca. Contemporaneamente, suo padre si sforzava inventando tante attività nuove ma meno rischiose che potevano condividere insieme ma che in realtà Flavio odiava: tennis, pesca nel lago, guardare dal vivo le corse della Formula 2. Così la sua adolescenza cambiò e passò da essere il giovanotto atletico e di carattere espansivo che tutti amavano a diventare una persona totalmente nuova e diversa: timido, taciturno, con un carattere tagliente e un senso dell'umorismo tante volte sarcastico; che evitava il contatto con i suoi coetanei e che era evitato da tanti di quelli che una volta soleva chiamare - amici - .
Qualche anno dopo. Sophie
La parola più adatta per descriverla fisicamente era; - piccola - , poiché era appena alta un metro e cinquantasei, ma nonostante questo non sentiva nessun tipo di complesso; anzi al contrario si sentiva sicura di sé perché sapeva bene di essere una donna attraente e abbastanza carina. Nonostante i suoi quarantadue anni si manteneva agile e snella, grazie alla sua routine fatta di corsa, tre o quattro volte a settimana. E anche se non faceva uso di raffinati e costosi trattamenti di bellezza, era consapevole del fatto che appariva più giovane di quanto lo fosse veramente, forse a causa dei setosi capelli che portava in una melena mediana che le cadeva a cascate ondulate sulle spalle o perché era abituata a usare un trucco molto leggero che le conferiva un aspetto molto naturale, da ragazza acqua e sapone. O forse anche per la sua pelle impeccabile, prodotto dell'eredità e dell'assenza totale di vizi nella sua vita, come l'uso di alcol o consumo di sigarette. Aiutava anche il suo stile di vita piuttosto rigido e ordinato: difatti si alzava molto presto, con la prima luce del giorno, ma allo stesso modo aveva una vita sociale alquanto povera e il più delle volte tornava presto a casa, faceva una cena leggera e andava al letto prima della mezzanotte. Viveva dedicata totalmente al suo lavoro. Così era stato durante i cinque anni che aveva vissuto a Napoli e così continuava a essere anche quando si era trasferita a Roma. Nella sua vita esisteva unicamente la professione... almeno fino al giorno in cui fu licenziata. Licenziata, come tante altre persone che avevano perso e continuavano a perdere il loro lavoro negli ultimi tempi, da quando, cioè, la crisi economica europea si aggravasse.
- Non prenderlo come qualcosa di personale - , le disse il primario del reparto di psichiatria dell'ospedale in cui aveva lavorato per quattro anni. Infatti, altri medici di altri reparti avevano avuto anche loro la sua stessa cattiva fortuna, le spiegò; - Non è colpa nostra ma del sistema, soprattutto dei dirigenti politici... ma già lo sai come funziona: sono loro a ridurre le risorse destinate ai servizi pubblici - . Certo che lo sapeva! Vivevano in un mondo e in una nazione corrotte in cui i politici, ricchi e potenti, destinavano ogni volta sempre meno denaro per soddisfare i bisogni basici dei cittadini che pagavano le tasse, per poi poterlo usare impropriamente nella soddisfazione dei propri lussi e piaceri. Fortunatamente lei si adattò subito a questo nuovo stato sociale, ovvero; quello di disoccupato eccellente, perché apparteneva a una famiglia ricca. Possedeva: un appartamento nel centro della sua città natale, Torino; regalo di suo padre per essersi laureata con i più alti onori, due importanti conti in banca e l'appartamento che aveva acquistato appena cinque mesi prima in una piccola cittadina. Questo - paesello - , come lei lo chiamava, si trovava a una trentina di chilometri da Roma, orlato di campi di girasoli, di colline e di boschi colore smeraldo. Amava la tranquillità della campagna e perciò aveva deciso di comprare quell'alloggio sito al secondo piano di un complesso di appartamenti formato da tre edifici tutti da tre piani ciascuno, immersi in un parco dove il verde era traboccante, poi ancora alberi di noce, mele e albicocche. C'erano due alloggi per ogni piano con l'ascensore che si trovava nel vestibolo che dava all'accesso degli appartamenti, le scale invece erano state costruite nell'area esterna alla quale si poteva accedere solo attraverso una grande porta di vetro un po' oscurato, fiancheggiata da due grandi vetrate; una a ogni lato di essa. Tale disposizione conferiva al complesso un'apparenza molto piacevole, al tempo stesso consentiva agli abitanti di godere di una bellissima veduta panoramica dei giardini.
Sophie lasciò l'auto nel parcheggio sotterraneo e salì usando le scale, come faceva di solito. Era una giornata di novembre, insolitamente calda, con più di 20° gradi all'ombra. E questa piacevole temperatura, unita alla calma che regnava nel giardino, fu come un invito a rimanere lì per un po', ascoltando il canto delle tortore e altri uccellini che giocherellavano tra i rami degli alberi, ancora coperti di foglie. Più che sedersi, si lasciò cadere su uno dei gradini che portavano al terzo piano. Chiuse gli occhi, si coprì il viso con entrambe le mani; con i gomiti appoggiati sulle cosce, e fece un respiro profondo; come se così potesse esorcizzare i furiosi pensieri che le popolavano la mente. Soffiava una brezza leggera che le accarezzava i capelli e cominciava ad agire su di lei con un effetto calmante sul suo alterato stato d'animo. Purtroppo, quel momento di benessere durò poco, poiché il silenzio fu interrotto prematuramente, quando lei appena cominciava a sentirsi rilassata. Qualcuno si avvicinava, proveniente dal vestibolo; forse una persona anziana, dedusse dal rumore dei passi, quel rumore caratteristico del passo stanco di un vecchio che trascina i piedi. Con un po' di fastidio afferrò la borsa, pronta ad andarsene ma, prima che potesse mettersi in piedi, arrivò un uomo; non l'anziano che aspettava di vedere, ma per il contrario, un giovane. - Buongiorno - . La salutò e quando lei lo guardò in faccia la prima cosa che notò furono un paio di bellissimi occhi chiari, che la guardavano da un bel viso, anche se un po' sciupato. Lui era abbastanza alto, più di un metro e ottanta, con spalle da nuotatore; e il forte contrasto fra la sua robusta figura e la fragilità che gli conferiva il bastone ortopedico a tre piedi che portava, quasi le riportò alla mente qualcosa di familiare. Per caso si conoscevano? Lui la prego di rimanere, di non andarsene per causa sua e le chiese se poteva sedersi accanto a lei per farle un po' di compagnia. Lei accettò, alquanto sorpresa della sua cordialità; giacché da quando fosse arrivata alla nuova casa, era lui la prima persona che si dimostrava amichevole. Gli sorresse il bastone, mentre lui scivolava piano, usando la mano destra per afferrarsi alla ringhiera di ferro battuto della scala, finché non si trovò seduto accanto a lei, con le loro braccia che si sfioravano leggermente. Sophie notò che soffriva di un certo grado di emiparesi sinistra. - Non ti ricordi di me, vero? - - No - rispose, anche se continuava a sentire quel senso di familiarità. - Ma io ti ricordo benissimo. Come non ricordare l'unica persona che si è dimostrata disposta ad aiutarmi in uno dei giorni peggiori della mia vita? Ci siamo visti al supermercato, vicino alla rampa mobile - . Subito capì di cosa parlasse e ricordò l'incidente, successo qualche tempo prima mentre si trovava a fare una spesa veloce in un supermercato romano. Si era accorta di quel giovane in sedia a rotelle, vicino alla rampa mobile che portava al secondo livello del negozio. Era lì, con la sua figura robusta, un po' incurvato e solo adesso ricordava come si sentì davanti all'aria indifesa e di abbandono del giovane. Lui era come un bambino solo un po' cresciuto, perso in mezzo alla gente che gli passava vicino; senza neanche accorgersi di lui, era indeciso tra chiedere aiuto o continuare a restare lì, aspettando affinché qualcuno gli offrisse aiuto. Sembrava imbarazzato e solo lei accorse in suo aiuto. Le disse che era in compagnia di sua madre, o qualcosa del genere e lei, adesso ricordava di avere pensato a lui mentre guidava di ritorno a casa: un ragazzo così giovane, così bello, invalido; sicuramente a causa di qualche incidente automobilistico! ─Pensava─ Un vero peccato! - Sì, adesso ti ricordo. E mi fa tanto piacere vedere che tu sia già in grado di camminare - . Lui accennò un sorriso e le piccole rughe, che gli si formarono intorno agli occhi, fecero capire a Sophie che forse non era così giovane come le fosse sembrato al primo sguardo. - Se vuoi, puoi chiedere; non rimanere con la curiosità di sapere - , disse. - Che cosa? - Chiese un po' intontita. Le risultava strano sentirsi a disagio davanti a un ragazzo. Lui non solo le sembrava simpatico, ma anche attraente e perciò il contatto casuale con il suo braccio la stava turbando un po'. Chissà, forse, era passato troppo tempo dall'ultima volta in cui era stata con un uomo e quel solo sfiorarsi la stava agitando e allo stesso modo le stava dando sensazioni un po' sopite. - Sei un medico e immagino che ti piacerebbe sapere i dettagli sul mio incidente, giusto? - Adesso Sophie si sentiva sorpresa. - Come fai a sapere la mia professione? - Lui rise e quel gesto lo fece vedere quasi infantile agli occhi suoi. - E quello che si dice in giro... - aggiunse il giovane. - Oh! Vedo che avete un servizio segreto molto efficiente da queste parti... hai ragione sono un medico, una psichiatra per essere più precisa; ma diciamo che in pratica da oggi mi trovo disoccupata. Già lo sai ... la crisi economica che obbliga a chiudere ospedali e scuole affinché i politici non debbano rinunciare ai loro privilegi - . Lui sembrava dispiaciuto ma prima che potesse aprire bocca, sentirono il rumore di una porta aprirsi proveniente del vestibolo, e dopo un po' arrivò una donna alta e bionda, molto magra e con i capelli corti. Aveva un'apparenza alquanto maschile, era la madre del giovane, e Sophie capì subito da chi Flavio avesse ereditato il colore degli occhi. La donna, sulla sessantina, salutò con un asettico: - Buongiorno - , senza sorridere neanche un po' e diede al figlio l'ordine di rientrare a casa il prima possibile.
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Mi chiamo América Moy Mata, sono italo - venezuelana, la terza di quattro figli, nata in una città di mare chiamata Barcelona, Venezuela. Nell'anno duemilasei conobbi Salvatore (adesso, mio marito), ci siamo sposati e, anche se la nostra idea iniziale era quella di stabilirci nel mio paese di origine, la terribile situazione politica e sociale della nazione ci obbligò a cambiare piani ed è così come adesso abitiamo in provincia di Torino, già da ben quattordici anni. Di professione sono uno psicologo ma anche uno psicopedagogista clinico e in Venezuela lavoravo specialmente nel trattamento clinico di bambini e ragazzi con problemi di apprendimento e di condotta. Purtroppo, dovuto alle difficoltà per trovare impiego in Italia, adesso sono disoccupata, ma non so se questo sia stato una sfortuna, perché è stato giustamente il fatto di trovarmi in pausa della mia regolare attività lavorativa, quello che mi ha permesso di dedicarmi alla mia passione di scrivere. Prima di congedarmi questo non sarebbe stato possibile. Tra altre cose, sono un'amante delle arti culinarie e mi diverto spesso inventando ricette nuove, così come cucinando tanto i piatti tipici venezuelani come quelli della tradizione italiana. Tra i miei Hobby ci sono anche il disegno e la pittura.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorta di aver sviluppato la passione per la letteratura?
América Moy Mata: Posso giurare di non ricordarlo poiché ho l'immagine di me da sempre con un libro in mano, già da piccola. Per dire il vero, sono nata in una famiglia di lettori e penso che mio padre e la mia sorellastra, Nancy (di ventuno anni più grande di me) siano stati fondamentali nel fatto che io abbia iniziato ad amare la letteratura. La nostra casa era piena di libri e nonostante miei fratelli ed io avessimo a disposizione tanti libri per bambini, ricordo che a un certo punto, ho cominciato a rubare di nascosto i libri di questa mia sorella più grande, che nell'accorgersene; poi ha iniziato a raccomandarmi delle letture che considerava potessero piacermi. Quando iniziavo la lettura di un nuovo romanzo, non mi fermavo più finché non lo finivo e li portavo con me a scuola in maniera di poterli leggere nell'ora della ricreazione.
Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
América Moy Mata: Direi che Maria, di Jorge Isaacs, un classico della letteratura latinoamericana che ho letto per la prima volta quando avevo undici anni. Sono certa dell'età perché quel libro era una lettura obbligatoria nel primo anno delle medie. Anche mi piaceva tantissimo leggere i piccoli libri della scrittrice inglese Barbara Cartland. Così, ispirandomi in queste storie ho cominciato a scrivere agli undici anni. Nonostante, scrivevo solo per me e non avrei mai sognato di fare conoscere a nessuno i miei scritti, tranne che per qualche racconto corto pubblicato sul giornale della scuola, sempre per quei giorni.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
América Moy Mata: L'anno scorso, quando è venuto a sapere che avevo tanti manoscritti letteralmente nel cassetto, mio marito mi ha invogliato a provare l'invio a qualche casa editrice. Alla fine è riuscito a convincermi e mi sono messa a lavorare nella traduzione di una di queste storie; ed è venuto alla luce il primo romanzo, intitolato "E se ti portassi rose?" Ho inviato il manoscritto a due editori e, per fortuna, ho ricevuto una notifica tre mesi dopo, della C.E. LFA Publisher; dove mi facevano sapere che erano interessati in pubblicarlo. È un romanzo che racconta una storia vera, anche se ovviamente romanzata, sul caso di Flavio, un ragazzo malato di una grave forma di epilessia. Con questo libro ho voluto dare un messaggio di speranza alle persone che fanno fronte a situazioni similari e quando faccio le presentazioni, cerco di abbordare il tema dal punto di vista psicologico e di dare risposta alle domande che mi vengono fate al riguardo. Di queste esperienze ho trovato che, ancora nei nostri tempi, ci sono tanti tabù per quanto riguarda questa malattia e anche un enorme vuoto di informazione.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionata? Puoi raccontarci di cosa tratta?
América Moy Mata: Sono appena una scrittrice emergente che ha pubblicato solo due romanzi, ma è il primo quello cui mi sento più legata per tanti motivi. Evidentemente perché il primogenito ed è come se fosse stato un primo figlio, che mi ha fatto provare emozioni che non conoscevo. Poi, perché una storia vera, un po' romanzata, dove racconto dei fatti accaduti a delle persone che conoscevo, e che conosco; anche se non siamo più in contatto come prima. Il romanzo racconta la vita di un giovane ammalato di epilessia refrattaria, cioè una forma di questa malattia che non risponde ai trattamenti farmacologici e che ha delle conseguenze terribili sulla vita delle persone che la soffrono, giacché essa impedisce loro di condurre una vita normale. È una malattia di cui si parla poco ma che stravolge la vita non solo del malato ma anche dell'intero circolo familiare e, addirittura, ancora in questi tempi è un tema tabù, molto difficile di maneggiare nella società in genere.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
América Moy Mata: Direi che sono istintiva perché scrivo le idee come mi arrivano. In certe opportunità, prendo appunti ma quello che mi occupa di più è fare ricerca su certi particolari, specialmente su temi medici, geografici o tecnici, in maniera di fare la storia la più veritiera possibile. Comunque, quando ami fare una cosa, il tempo che dedichi a essa è sempre un tempo piacevolmente speso.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
América Moy Mata: Sto lavorando in una raccolta di racconti ed è una cosa completamente diversa di scrivere un intero romanzo; anche come genere sarà diverso perché sarà una mischia di temi diversi, con storie che andranno dall'onirico alla realtà.
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