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Colpevole - il pianto degli ulivi
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13 anni fa- Portodimare, giugno. Sara Montanari esce di nascosto.
Aveva silenziato il cellulare. Non poteva permettersi il rischio di svegliare il padre che dormiva alla fine del corridoio. Già le aveva fatto una smorfia di disappunto nel vederla andare in bagno col telefono, quando si era affacciato sulla soglia per darle la buonanotte prima di coricarsi. Figurarsi poi le prediche, se avesse sentito la suoneria di WhatsApp nel bel mezzo della notte. Il sonno era prezioso per lui che di rado riusciva ad avere una nottata tutta per sé e si irritava se veniva svegliato senza motivo. Così, per evitare questioni, Sara aveva lasciato solo la vibrazione e adesso sonnecchiava vestita sotto il lenzuolo, lo smartphone stretto in mano per non perdersi la notifica. Era quello il motivo per cui se l'era portato appresso in bagno rischiando l'ennesima storia! Si era lavata i denti facendo più rumore possibile per farsi sentire e con altrettanta evidenza aveva posato dentifricio e spazzolino nell'armadietto. In ultimo, aveva aperto con cautela l'anta in cui lui teneva le sue cose e preso una delle compresse dal blister. Una sola. Stava lì lì per inghiottirla, ma aveva arrestato il movimento della mano che la portava alla bocca. Una sola? Beh, forse era meglio due. Confidava che non se ne sarebbe accorto, o che ritenesse di aver sbagliato i conti... Ma sì, un paio, giusto per fare festa. Le aveva buttate giù senza neppure un sorso d'acqua, come gli aveva visto fare tante volte. Piccole e lisce com'erano non aveva avuto difficoltà. Neppure ripensamenti. Sarebbe stata una serata speciale, unica, e gli antidepressivi del padre l'avrebbero resa euforica ed esorcizzato ogni paura, in particolare quella di essere scoperta. Era rientrata in camera ad aspettare l'arrivo delle amiche. Non era facile restare sveglia. Sara non aveva immaginato che le compresse ingerite potessero avere anche un effetto soporifero, ma contava comunque sulla sua ansia di uscire per essere certa di accorgersi della notifica silenziosa. E infatti eccola, inconfondibile. Si alzò di botto, improvvisamente sveglissima. «6 pronta? Noi siamo qua sotto.» Era il messaggio che stava aspettando per filarsela con Gió, la sua migliore amica. Era più grande di lei, Giovanna aveva compiuto i diciannove anni già da un po', ma frequentavano la stessa classe per colpa di un paio di incidenti di percorso, come ripeteva spesso la ragazza con una risatina sfrontata. Eppure i genitori erano così fighi che mica le avevano detto niente! Non come suo padre che le rompeva le palle in continuazione perché prendesse dei bei voti. E al suo compleanno, l'anno prima, le avevano addirittura regalato una macchina, altro che il vecchio motorino con cui girava ancora lei, residuato dei quattordici anni. Il dito di Sara scattò rapido sulla tastiera. «Eraiv!», scrisse nello pseudoinglese dei loro messaggi. Sotto le lenzuola fece poi un fagotto che le assomigliasse. Dormiva sempre raggomitolata nonostante il caldo ed era quindi un fagotto credibile, perlomeno a un'occhiata superficiale. Socchiuse la porta a vetri del balcone, diede a Shado che la guardava come a dirle “dove vai?” l'ordine di non abbaiare, gli fece una rapida carezza sulla testa e uscì sul terrazzino. Fece scorrere nuovamente la porta finestra sul binario, accostandola senza far scattare la chiusura. Non voleva mica rimanere fuori, al ritorno, e pazienza per l'aria condizionata che avrebbe sprecato. Se il padre avesse scoperto l'uscita notturna, non era dell'inutile consumo di corrente elettrica che si sarebbe dovuta preoccupare. La stanza era al piano ammezzato e scendere era facilissimo. Bastava scavalcare la ringhiera, allungare la gamba verso il ramo del fico, spostare il peso del corpo in direzione del tronco e in due movimenti era a terra. La pianta non era molto robusta, ma Sara era piccola e leggera, non costituiva un gran peso per l'albero. I rami cedevano leggermente quando lei vi si appoggiava, ma la reggevano. Non era la prima volta che lo faceva. Non c'erano allarmi che potessero scattare. Lei e il padre vivevano in una villetta in un tranquillo quartiere di periferia, con un bel giardino ampio tutto intorno. La loro sicurezza era affidata a Shado, il grosso mastino color grigio cenere dalla muscolatura possente, e al fatto che nessun ladruncolo si sarebbe mai infilato in casa di un funzionario di Pubblica Sicurezza col rischio di trovarselo poi di fronte in una stanza della Questura, incavolato nero. In pochi istanti Sara arrivò alla macchina di Giò. Aprì la portiera e si infilò nell'abitacolo e salutò allegra anche l'ultima componente del terzetto, Alberta. «Ciao ragazze!» Poi si rivolse all'amica al volante, abbassando il tono della voce. «Danilo?» La risposta le arrivò con un sorriso storto e un tono secco. «Partito. Addio, baci baci e tanti auguri.» «Vabbè dai, tornerà come nuovo» scherzò Alberta dal sedile posteriore. «Sì, come no.» Gió raddrizzò inconsapevolmente le spalle e cambiò argomento. «Piuttosto, Shado dove l'hai lasciato? Gli volevo dare un biscottino» le chiese, cercando di sbirciare sul balcone di Sara. «E dove vuoi che l'abbia lasciato... Sta in camera mia ad aspettarmi, come al solito. E senza biscotti, che il veterinario dice che non gli fanno bene.» «Che palle!» Con una contorsione da professionista per liberarsi dalla cintura di sicurezza senza staccarla, estrasse dal taschino dei jeans un biscotto da latte. «Vedi? L'ho portato apposta per lui. Io lo adoro quel cagnone, è fantastico!» «Eh, lo so. E anche lui ti adora. Te e i tuoi biscotti, che però non deve mangiare, quindi buttalo dal finestrino che almeno se ne vedono bene le formiche.» «Ah, dici che alle formiche non farà male?» «Non lo so, ma chi se ne frega di quelle! Dai, metti in moto, non perdiamo tempo.» «Hai paura che paparino si svegli?» le chiese sorniona dal sedile posteriore Alberta. Era una cara amica, le tre ragazze formavano un gruppetto affiatato dai tempi delle elementari nonostante la differenza d'età, ma aveva la lingua tagliente e non si risparmiava mai una battuta, se appena ne aveva la possibilità. «Avresti paura anche tu, se avessi un padre come il mio, spiritonza!» la rimbeccò Sara. Spiritonza. Era una delle parole che aveva inventato. Questa l'aveva coniata un paio di anni prima apposta per Alberta, una crasi tra spiritosa e stronza, e le stava addosso così bene che anche Gió aveva iniziato a chiamarla in questo modo. Era brava, Sara, con le parole. A scuola prendeva sempre otto e nove, ai temi di italiano. «Ehi, stasera non si parla di genitori, okay? La notte è nostra!» le rimproverò la guidatrice. Innestò la marcia e schiacciò l'acceleratore, forse con un po' troppa foga. Era un modo come un altro per distrarsi dall'idea dell'amico che avrebbe voluto al suo fianco. Con Sara e Alberta si divertiva sempre, ma se ci fosse stato anche Danilo... Non doveva andare così. Loro due erano cresciuti insieme, nella stessa strada, anzi quasi nella stessa casa. Le loro stanze erano separate da una parete talmente sottile che era come se non ci fosse. Quella vicinanza fisica negli anni era diventata affetto e forse anche qualcosa in più, almeno da parte sua. Poi era giunto il primo strappo, il trasferimento deciso dalla madre che volle andare a vivere in un altro quartiere, in una casa più grande fornita di uno spazio a parte per il suo laboratorio. Ma in fondo le andava bene lo stesso. Forse con frequenza un po' minore, ma si vedevano ancora. Negli anni successivi, c'era stata la dipendenza dalla droga che aveva iniziato a scavare un solco e infine qualche mese prima, poco prima dei suoi vent'anni, la decisione di disintossicarsi. Giusta, giustissima decisione. Ma così quel solco era diventato un fossato che l'aveva lacerata. «Cazzo!» esclamò, e batté un pugno sul volante. Poi ingoiò le lacrime. Non avrebbe dato soddisfazione al dolore che minacciava di travolgerla. «Rave, aspettaci!» dichiarò quindi con entusiasmo misto a rabbia. Se lo sarebbe goduto comunque, alla faccia del destino bastardo. Per Sara era la prima volta. Gió e Alberta invece ne avevano già vissuti altri e gliene avevano parlato in termini così entusiastici da convincerla a sfidare il rischio di uscire nella notte, all'insaputa del padre. In realtà aveva già approfittato un paio di volte della porta finestra per sgattaiolare fuori e non era accaduto niente, ma era stato un giretto fino al pub lì vicino, una cosa innocente e senza pericoli. Bastava una passeggiata di due minuti e arrivava. Questo sabato di fine giugno invece era totalmente diverso: prima di tutto andavano con la macchina di Gió e quindi era legata all'amica per il rientro, e poi era un rave. Appunto. Suo padre non le avrebbe dato mai il permesso di andarci. Figuriamoci, la sua bimba in mezzo a ubriachi e drogati, impossibile! Cavoli, papà, perché sei così... così... così sbirro, ecco! pensò Sara tra sé e sé mentre si allontanavano nella notte. Cavoli, sì. Perché nonostante il caldo insolito di quell'inizio di estate, nonostante il velo di sudore che le imperlava la fronte, sulle braccia era evidente la pelle d'oca che le rizzava la peluria dorata. Ma lei voleva godersela tutta, questa serata! Scrollò inconsapevolmente la testa e si lasciò alle spalle ogni pensiero. Non avrebbe permesso a nessuno di rovinarle la festa, nemmeno alle paure di un padre troppo apprensivo. Che poteva mai accaderle di male, in compagnia delle sue migliori amiche? «Quanto ci vuole, Gió?» Non vedeva l'ora di arrivare. «Per il rave? Non più di un quarto d'ora, credo. Proprio lì sul posto con la macchina non ci sono mai andata, ma so dove dirigermi, più o meno. Avete presente il vecchio pastificio sotto al cavalcavia dell'autostrada?» «Ah sì, quello dove ci portarono quando eravamo alle elementari? Ma non era praticamente crollato una decina d'anni fa?» chiese Sara, improvvisamente dubbiosa. Dove caspita stavano andando? «Sì, ci fu un tremendo incidente proprio sul ponte della tangenziale, quando si scontrarono due autocisterne cariche di gas. O di esplosivo, mai saputo di preciso, boh. Vi ricordate quel botto spaventoso e le fiamme nere che si vedevano da tutta la città? Un lato dell'edificio venne schiacciato dal crollo del viadotto, ma gran parte è rimasta in piedi. Pericolante, ma in piedi.» «Certo che mi ricordo, io volevo stare sul balcone a guardare ma i miei chiusero le imposte per paura dei fumi e dei detriti! Se non sbaglio fu giusto uno o due giorni dopo che ci avevano portate là in visita, mia madre ci ha ripensato per anni e ogni volta piangeva come se ci fossi rimasta secca. C'eri anche tu, vero, Gió? Danilo no, invece, se ricordo bene» rispose Alberta. «E certo, lui stava già alle medie e quella era una gita delle elementari. Comunque sì, c'ero anch'io, ci andò tutta la scuola, no? Però io stavo con la maestra Elena comesichiama, in quinta. Quella deficiente mi tenne stretta a lei per tutto il giro. Vi ricordate che regalavano i pulcini? Beh, io non ne potei prendere nemmeno uno, perché la signora maestra aveva la fobia dei pennuti e non mi ci fece avvicinare. E io che già mi vedevo arrivare dalla mamma di Danilo con un pulcino pure per loro, che rabbia!» «Davvero? Che peccato! Io me ne portai a casa tre» disse Sara. «È vero, mi ricordo! E ricordo anche che uno di quei tre pulcini era il mio» intervenne Alberta. «Perché tu non lo volesti.» «Figurati! Mia madre mi avrebbe uccisa se l'avessi portato in casa. Molto meglio a casa tua.» «Sì, perché mia mamma...» Sara si interruppe. Ogni volta che pensava alla madre le saliva un groppo in gola. Era passato già un anno, eppure il dolore era solo assopito, riposto in un cantuccio impolverato del suo cuore, ma non scomparso. Non sarebbe scomparso mai, credeva. Quello che proprio non riusciva a dimenticare era la corsa in ospedale nella macchina del padre, ancora vestita da scout, appena di ritorno dal campo estivo. Quanto si era sentita assurda con la divisa, gli scarponi da montagna e il distintivo nuovo appuntato sulla camicia mentre, seduta su una delle scomodissime sedie del pronto soccorso, aspettava di sapere se avrebbe abbracciato ancora la mamma. Quando le avevano dato la notizia della sua morte non aveva pianto. Non perché non soffrisse, ma perché proprio non riusciva a crederci. E anche dopo, per giorni e giorni, aveva negato quella morte che lei non aveva potuto affrontare di persona. Con l'intenzione di attutirle il colpo infatti non le avevano consentito di vederla per l'ultima volta. La spiegazione che le aveva dato suo padre rifiutandosi di farla entrare nella stanza dove giaceva, fu che per lei era meglio ricordarla viva che non morta, col volto deturpato. Ma questo aveva fatto sì che il suo inconscio negasse la scomparsa della mamma, come se si fosse solo allontanata per uno dei suoi viaggi di lavoro, e per mesi si era aspettata di vederla apparire sulla porta, stanca ma sorridente, carica di pacchetti e con i lunghi capelli annodati in una pratica coda di cavallo. Quando infine il suo cuore si era convinto che non sarebbe mai tornata, ripetuti incubi in cui la vedeva ricoperta di sangue e ferite, e la sentiva implorare e piangere, avevano iniziato a perseguitarla. Sara aveva fatto di tutto per dimenticarla, e a volte si illudeva di esserci riuscita. Bastava tuttavia che il pensiero si volgesse anche solo per un istante alla donna, che doveva controllarsi per non piangere tutte le lacrime trattenute nel corso dell'anno. «Lei amava gli animali. Lo sapete, no? Shado è stato il suo ultimo regalo. Era un cucciolone quando morì.» Con tutti i pericoli che aveva corso per anni come corrispondente dai paesi del Sud Est asiatico, aveva perso la vita in un modo così banale... Quasi a rinfacciare al marito la sua richiesta di farsi trasferire alla cronaca locale per essere più al sicuro. Era morta sotto casa, mentre andava al lavoro. Aveva messo un piede in fallo, era caduta e aveva sbattuto la testa contro il bordo del marciapiede. Che morte stupida! E adesso lui avrebbe voluto tenere sotto una campana di vetro anche lei, come aveva cercato di fare con la moglie. «Ma non può tenermi in casa per sempre!» esclamò completando a voce alta il pensiero iniziato in sordina. «No, niente» aggiunse rivolta alle ragazze. Le due amiche, che la conoscevano bene, non le chiesero spiegazioni. Magari non per filo e per segno, ma avevano compreso il percorso mentale di Sara. In macchina restò solo il silenzio. Non c'erano parole per commentare. Ma erano tre adolescenti, e la giovinezza riprese il comando. Gió allungò la mano verso lo stereo e fece partire il cd all'interno. La musica spacca timpani riempì l'abitacolo e le tre amiche continuarono il viaggio a tempo di tekno. L'automobile di Gió era una piccola utilitaria di seconda mano, ma a loro sembrava di star viaggiando su una fuoriserie, moderne Cenerentole degli anni 2000. E non dovevano neppure tornare a casa entro la mezzanotte. Entro l'alba, semmai, per non farsi scoprire.
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La prima cosa che posso dire di me, ormai da diversi anni a questa parte, è che sono diversamente giovane, perché il fisico ha un'età che la mente non condivide nel modo più assoluto, tanto è vero che continua a pensare a cosa farò da grande. I progetti sono tanti e non posso smettere di sognare i prossimi passi. Non so ancora con certezza quali saranno, so però che l'ultimo è deciso. Se sono nata sul mare e vivo sui monti, voglio morire su un lago. Ho persino già scelto il lago, la mia Shangri-La. Amo vivere nella mia casetta, con il giardino, i cani, i gatti e ho poca necessità di compagnia. Anche i miei hobby sono solitari. Amo il giardinaggio, le passeggiate in montagna, leggere, comporre un puzzle – in particolare prediligo quelli tratti dai dipinti di Thomas Kinkade – e... i videogiochi!
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Gabriella Grieco: Ho questa passione da sempre, da prima ancora di saper leggere e scrivere. Prima di dormire, inventavo storie e passavo dalla veglia al sonno in compagnia dei miei personaggi. E ancora adesso, dopo aver posato il libro, chiudo gli occhi e mi racconto storie.
Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Gabriella Grieco: Credo che a influenzarmi sia stato non un libro, ma l'intera biblioteca di mia madre che, appassionata di gialli, me ne ha dato libero accesso sin da piccola.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Gabriella Grieco: Sì, perché allora, parlo di tanti anni fa, o si provava con un editore o ci si rivolgeva a una tipografia. I primi romanzi quindi li ho proposti a un editore che mi ha insegnato tanto e mi ha molto supportata. Quando quella casa editrice ha chiuso, ho provato con altri, ma non ero contenta e ho deciso di far da sola, anche perché nel frattempo è apparso Amazon KDP.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Gabriella Grieco: Assolutamente sì. Certo, è impegnativo, ma anche nella piccola editoria è tutto sulle spalle dell'autore. E KDP offre la possibilità di mettere a frutto questo impegno, è gratificante rendersi conto che tutto ciò che hai, l'hai ottenuto per merito tuo. Nella grande editoria invece, forse l'autore è più supportato, ma deve dare ben più di quanto riceve, a mio parere. E in quel caso scrivere smette di essere un piacere per diventare un dovere. Preferisco divertirmi.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Gabriella Grieco: Non ho dubbi, anche se più che al libro sono affezionata alla sua protagonista. Mi riferisco al primo volume della serie “Colpevole” - La mia morte è la tua. Come ho detto poco sopra, la sera mi racconto storie. Una sera mi venne in mente una scena, di una persona che metteva in atto il sequestro di alcuni poliziotti, nel loro ufficio in Questura. Mi posi subito il problema, tuttavia, e cioè chi sarebbe stato così folle o così disperato da tentare una simile azione. E in quel momento mi si presentò lei, la mia protagonista. “Sarò io” mi disse, “una madre.” Da allora la storia si è sviluppata con questa donna che vuole riscattare l'onore del figlio. Mette in gioco la sua stessa vita, indifferente all'eventualità della sua morte. Isabella Antinori, docente universitaria, scienziata, madre, vuole ottenere giustizia. E se non ci riuscirà, allora avrà la sua vendetta. Questo romanzo mi ha dato grandi soddisfazioni. Ho vinto un concorso grazie al quale da Colpevole è stato girato un film che dovrà arrivare in sala prima, e su piattaforma poi. La serie è quindi proseguita con altri due thriller già pubblicati, mentre il quarto volume è in fase di scrittura.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Gabriella Grieco: In genere scrivo di getto, senza badare a niente che non sia mettere nero su bianco la storia. A volte, quando realizzo che è più complicata del previsto, butto giù una scaletta molto stringata. Quando ho terminato la prima stesura, procedo per revisioni successive, lasciando un buon intervallo di tempo tra l'una e l'altra.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Gabriella Grieco: In realtà sto scrivendo due nuovi libri. Il primo, come ho già accennato, è il quarto volume della serie Colpevole, dal titolo ancora provvisorio La conta delle madri; l'altro è il quarto volume della serie April May Mysteries che scrivo a quattro mani con Cristina Panepinto, con lo pseudonimo Chris Greeceman ed è un cozy mystery dal titolo Schegge di memoria. Nei progetti c'è poi un deciso cambio di rotta con un romanzo di fantascienza.
Writer Officina: Perché hai scelto il thriller piuttosto che un altro genere?
Gabriella Grieco: In effetti non l'ho “scelto”. Mi spiego. La prima volta che ho pensato di essere andata oltre il semplice raccontarmi una favola della buonanotte, ma di aver davvero scritto un libro, ho realizzato che avevo scritto un thriller. Quindi, è stato il genere a scegliere me. E così ho proseguito per almeno altri due romanzi, prima di avvertire l'esigenza di cimentarmi anche con altri generi. Il thriller tuttavia rimane il mio preferito, sia da scrivere che da leggere.
Writer Officina: Ti sei documentato, p.e. sui luoghi, sulle professioni di cui parli, sulle industrie farmaceutiche?
Gabriella Grieco: Svolgo sempre ricerche accurate su qualsiasi argomento. Il fatto che siano storie di fantasia non esime, secondo me, dall'essere realistici. Rispettare la verosimiglianza è un principio fondamentale, a meno di non dichiarare che si sta scrivendo di un mondo di assoluta invenzione. Ma anche in questo caso ci devono essere delle regole da rispettare. Regole diverse da quelle della vita reale, ma rispettose del modello creato.
Writer Officina: Per i personaggi hai fatto riferimento – magari in parte – a persone reali oppure sono solo frutto della fantasia?
Gabriella Grieco: Lo confesso: come credo facciano quasi tutti gli autori di thriller, nei miei romanzi inserisco – nella parte delle vittime o dei cattivi – le persone che mi sono antipatiche o mi hanno fatto qualche sgarbo! D'altronde, non si consiglia di non litigare mai con un giallista perché puoi ritrovarti fra i suoi cadaveri?
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