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Il valico per la Rezia
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Aprile, anno 709.
Riuscimmo a fuggire in quattro infilandoci nel bosco, prendendo frustate a destra e a sinistra dalla ramaglia fradicia. Gli strumenti li avevo persi, mi era rimasta solo la sacca a spalla. Eravamo zuppi per la pioviggine e con le divise da mercenari fruste e scompagnate, senza equipaggiamento, sembravamo disertori fuggiti dal campo di battaglia. «Non possiamo più tornare indietro» ansimai a Quarto e ad Aulo con la voce arrochita dall'affanno della corsa. «I Reti si sono appostati sulle alture. Non passeremmo mai!» Mi udì anche Elio Balbo che era dietro ai due, intralciato nei movimenti; si stava tenendo un braccio ferito. «Ma dove stiamo andando?» chiese Quarto. Non avevo nessuna idea di dove stessimo fuggendo e nemmeno gli risposi, tanto stupida era la domanda: stavamo scappando per salvare la pelle. Il caso mi aveva messo insieme a tre legionari mal assortiti: Aulo Calvo e Quarto Filo li conoscevo, avevo fatto parecchi giorni di marcia con loro, dagli Appennini fino a Tridentum e fino all'accampamento che avevamo piazzato ai Pascoli dei Venosti, sul colle che dominava l'erta discesa al fiume Aenus. Quei due mi erano sembrati poco affidabili. Aulo, un tracagnotto ben in carne dall'aspetto ordinario, con la pelle del viso arrossata, l'avevo notato all'accampamento perché essendo ignorante come un bovino era spesso motteggiato dagli altri uomini. Quarto, comune nell'aspetto magrolino e slavato, scadente d'intelletto, era noto per essere un segaligno malfidente e mormoratore. Il terzo, il legionario Elio Balbo, non lo conoscevo. Era uno che parlava poco. Ora, in difficoltà, si reggeva un braccio come meglio poteva perché era stato colpito da una pietra gettata dall'alto. Non aveva fatto parte del nostro gruppo fin dall'inizio, era stato aggregato alla spedizione a Tridentum, ma da lì in avanti io ero sempre stato occupato con i miei compiti da agrimensore e non avevo avuto occasione di approfondirne la conoscenza. «Tu dici che va bene se continuiamo avanti per di qui?» mugugnò di nuovo Quarto mentre l'ennesima sferzata della ramaglia quasi mi cavava un occhio. Di nuovo non gli risposi. Correndo in fianco al fiume Aenus ci allontanammo dal luogo dell'agguato, un indifendibile sentiero che passando nel profondo di una buia forra sfociava nella valle del fiume. L'Aenus benché largo solo una ventina di passi era tutt'altro che facile da guadare, le acque erano gelide e la corrente forte e tumultuosa; nell'impeto della fuga ci eravamo avviati a risalire la valle del fiume immersa in una boscaglia da cui di tanto in tanto emergevano massi caduti dai monti o trascinati dalle piene. Non stavamo seguendo un vero e proprio sentiero tracciato, forse ci muovevamo lungo piste d'animali selvatici. «Quintilio» mi chiamò in quel momento Elio, «dobbiamo fermarci e mi dovete sistemare questo braccio in qualche modo. Mi fa un dolore terribile e non posso usarlo per fare nulla. Deve essere spezzato l'osso.» «Qualcuno di voi ha già visto sistemare un osso rotto?» chiesi ansimando agli altri due; non ricevendo nessuna risposta capii che avrei dovuto pensarci io. Eravamo nei guai. Un agrimensore civile, un uomo ferito e due legionari inetti. Non potevamo fermarci e non sapevamo nemmeno se fossimo inseguiti; continuavo a voltarmi indietro, ma se avessi visto qualcosa sarebbe già stato troppo tardi. Io ero un agrimensore e qui invece c'era bisogno di un medico, di qualcuno che comandasse e di gente capace di combattere. «Appena troviamo un anfratto per nasconderci proverò a sistemartelo io, cerca di resistere per un po'» risposi a Elio. Sapevo che i medici delle legioni aggiustavano le ossa spezzate distendendo l'arto nella posizione originaria per poi bloccarlo con una fasciatura: l'osso si sarebbe aggiustato da sé. Non avevo nessuna pratica in queste operazioni, ma in qualche modo avrei dovuto aiutarlo.
Nell'attacco c'erano stati almeno due morti: uno di essi era il mio aiutante Licinio, un giovane d'una ventina d'anni ma che ne dimostrava meno a causa di certi orridi foruncoli che gli deturpavano il viso. I legionari l'avevano ribattezzato Brufolo. Dei tre apprendisti agrimensori che erano nella nostra spedizione era il più abile a disegnare colli e valli dando un po' d'ombreggio con sapienti tratteggi per simulare il rilievo dei versanti e l'affossamento delle valli. Ma il povero giovane ormai era andato. Era stato colpito alla testa da una pietra gettata dall'alto. L'altro morto era un legionario che non conoscevo bene, avevo udito che si chiamava Marino: era stato infilzato da un rozzo giavellotto, un palo appuntito e indurito sul fuoco scagliato dall'alto. Quando eravamo fuggiti era a terra che si scuoteva negli ultimi spasmi. Non ne avrebbe avuto per molto ed era inutile rischiare altre vite per assisterlo.
Continuammo a correre guardandoci alle spalle e ascoltando se mai qualcuno si fosse messo al nostro inseguimento, finché fummo costretti a rallentare per la fatica; ma mantenemmo un passo veloce cercando di allontanarci il più possibile. «Quintilio, non potremmo risalire il sentiero della forra stanotte, al buio? Forse quelli là se ne saranno andati...» mormorò Quarto. «Già. E se sono ancora lì cosa raccontiamo loro?» ansimai. «E metti il caso che abbiano l'abitudine di impalare gli stranieri che entrano non invitati in casa loro?» Erano già trascorse parecchie ore e non era pensabile ritornare al sentiero dov'eravamo stati attaccati. Il sentiero era nel freddo fondo di una forra, con rocce viscide, insicuro anche di giorno; con l'oscurità era di sicuro frequentato dagli spettri dei luoghi, e mai mi sarei azzardato ad infilarmi nella forra al buio e in compagnia di questi pusillanimi legionari. «Quintilio» chiamò sottovoce Elio, «non so se hai visto, ma da pochi passi abbiamo lasciato una specie di rozzo sentiero appena tracciato. Se vuoi far strada tu, prima fermiamoci un istante e controlliamo di non lasciare tracce, altrimenti rischiamo che ci vengano dietro con eccessiva facilità.» Fui sorpreso dall'osservazione di Elio. Io non mi ero accorto di nulla, stavo solo cercando di allontanarmi alla svelta. Mi tornarono alla mente gli insegnamenti di un optio che l'anno prima mi aveva salvato la vita: con trucchi simili mi aveva ricondotto nei confini della repubblica al termine di una funesta spedizione. «Elio» gli feci notare, «abbiamo tutti le calighe!» «Infatti, Quintilio, ce le dobbiamo togliere. E se non vogliamo perdere il piccolo vantaggio che abbiamo è necessario tornare sul sentiero principale e lasciare tracce di calighe chiodate che proseguano per qualche altro centinaio di passi! Faremo loro perdere del tempo.» Mi rallegrai in cuor mio per la presenza di qualcuno con un po' d'esperienza su come muoversi in territorio nemico. Quasi che egli avesse intuito i miei pensieri spiegò: «Ho fatto l'esploratore in molte occasioni, questi trucchi erano all'ordine del giorno.» «Bene, Elio. Prima che faccia buio torniamo tutti sul sentiero principale e mentre tu ed io ci togliamo le calighe mandiamo Quarto e Aulo avanti di duecento passi.» «Cos'è che dovrei fare io?» protestò subito Quarto. «Quarto, io sono il più anziano» disse a bassa voce Elio, ma in tono perentorio che non ammetteva repliche, «in mancanza di ufficiali sai che devi prendere ordini da me!» «Ma se sei perfino ferito!» obiettò Quarto. «Non ti deve interessare. Tu devi obbedire e basta, lo sai bene!» Ci sarebbe stato qualcuno a dare ordini. Ne fui lieto perché una persona esperta a comandare era necessaria. Per confondere le tracce usammo una vecchia astuzia legionaria: mandammo avanti sul sentiero principale Aulo e Quarto. I due proseguirono per duecento passi, poi tornarono al punto di partenza camminando all'indietro, lasciando il fogliame smosso e il caratteristico segno delle chiodature presenti sulla suola delle calighe. Chi avesse studiato le tracce le avrebbe interpretate come lasciate da quattro uomini che marciavano nella stessa direzione. Attendendo il loro ritorno diedi una mano a Elio a sciogliere le calighe e gli sistemai al collo il fazzoletto della divisa in modo che potesse adattarvi dentro il braccio dolorante. Non vidi sangue, era un buon segno. Ma il braccio e la mano si erano già parecchio gonfiati. Da lì a poco Quarto ed Aulo furono di ritorno, e si tolsero a loro volta le calighe. «Si vedeva qualcosa sul terreno dove avete invertito la direzione?» «No, Elio» rispose Aulo «abbiamo fatto un bel pezzo tra gli abeti dove a terra ci sono solo aghi pressati che conservano poche tracce.» «Ora non abbiamo altra possibilità che restare qui e attendere che il centurione mandi qualcuno a prenderci» concluse Quarto che riponeva ogni speranza nei nostri colleghi, o forse negli dèi. «Nemmeno per sogno!» gli replicò Elio. «Adesso cerchiamo di mettere più distanza tra noi e questi barbari perché non è possibile che non si siano accorti, guardando dall'alto, che noi siamo solo in quattro. Fai strada tu, Quintilio. Quarto resterà in coda a eliminare le ultime tracce.» «Elio, ce la fai a marciare fino a buio?» gli chiesi. «Certo, Quintilio, ce la farò. L'importante è che dopo riusciate a sistemarmi questo braccio che mi duole in maniera terribile.» La giornata era stata lunga e difficile, stava facendo buio. Era importante che prima facessimo perdere le nostre tracce, poi avremmo potuto cercare un ricovero di fortuna. Eravamo zuppi di pioggia e si prospettava una disagevole notte all'addiaccio. Non potevamo accendere un fuoco per non correre il rischio di segnalare la nostra posizione. Riprendemmo la marcia silenziosa, stavolta a piedi nudi e con le calighe legate alle sacche di pelle, fermandoci di tanto in tanto ad ascoltare se qualche rumore facesse capire che eravamo seguiti. I legionari avevano ancora i gladi d'ordinanza ma non eravamo in condizione di accettare uno scontro. I giavellotti erano stati buttati o persi all'inizio della fuga visto che con quelli ad intralciarci non avremmo potuto correre tra la ramaglia del sottobosco. Io non avevo armi, avevo salvato la sacca a tracolla in cui conservavo i papiri e le mappe del mio lavoro. L'archipendolo da agrimensore l'avevo abbandonato subito, era uno strumento inutile in una fuga. Quarto chiudeva la colonna usando alcuni rami di pino come ramazza. Elio gli spiegò: «Quarto, stai attento a non lasciare delle righe per terra con quella ramaglia. Dove vedi che abbiamo disturbato il terreno col nostro passaggio, o sono rimaste delle impronte del piede nudo, premi quella tua ramazza contro il terreno con garbo, come se fosse una spugna, e strisciala poco, in maniera che non rimangano righe, quelle si vedono subito perché non sono naturali.» Il legionario dette segno d'aver capito, e io cominciai a riflettere su come sistemare il braccio ad Elio. Non avevamo con noi nulla che potesse sostituire delle assicelle di legno dolce; avrei dovuto arrangiarmi in qualche modo. Eravamo in un bosco, qualcosa avrei trovato.
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Buongiorno a tutti e grazie a Writer Officina per avermi dato la possibilità di questa intervista. Sono originario della pianura del Po. Ho completato gli studi classici prima di intraprendere una professione che mi ha portato a conoscere nel dettaglio come i romani hanno modificato il territorio italiano. A parte l'attività in Italia, ho lavorato per molti anni in tutto il mondo in zone disabitate o desertiche, facendo rilievi con strumenti spesso rimediati sul posto e non troppo diversi da quelli degli agrimensori romani. Erano gli anni '70 e '80, i GPS e i satelliti non erano a disposizione dei civili. In quegli anni ho vissuto spesso al fuoco dei bivacchi, mangiando cibi su cui non conveniva indagare a fondo. Nel 2013 ho finalmente avuto l'opportunità, e il tempo, di approdare al romanzo storico, in cui racconto il mondo dell'antica Roma attraverso gli occhi di persone comuni che cercano di sopravvivere tra corruzione, congiure e tradimenti.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Claudio Rossi: Fin da bambino leggevo classici dell'avventura come Verne e Salgari, ma qualcosa è cambiato quando mi è capitò tra le mani una copia da macero di Smoke Bellew, uno dei primi romanzi di Jack London. Fu quello a smuovere una passione travolgente per la letteratura d'avventura. Con il liceo approfondii lo studio dei classici, da Omero a Dante, e della letteratura italiana. Subito dopo l'università dovetti iniziare a lavorare in giro per il mondo.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Claudio Rossi: Sì, c'è stato. Non ricordo quante volte lessi quel romanzo di Jack London di cui ho fatto cenno prima, anche se negli anni dovetti scendere a patti con il lavoro e la famiglia. Ma a volte quando quel libro, magari dopo essere stato dimenticato per una decina d'anni, mi capitava di nuovo tra le mani, lo rileggevo con la mente arricchita di nuove esperienze di vita, e più lo rileggevo e più mi incendiava la curiosità di vedere quei luoghi. Il tarlo di Jack London mi ha perseguitato per molti anni, decenni addirittura, finché il caso ha voluto che, ormai cinquantenne, mi capitasse tra le mani una ricognizione fotogrammetrica di una regione dello Yukon canadese. Durante l'esame delle foto aeree e il confronto con alcune mappe di aeronavigazione ho scoperto che i luoghi citati da Jack London esistevano per davvero, tutti quanti! Persino i villaggi indiani. Approfondendo la ricerca un dubbio che mi era sorto si trasformò lentamente in certezza: London aveva descritto cose che aveva visto, e avventure che aveva vissuto per davvero. Quel romanzo puzzolente di muffa che avevo salvato dal macero era il diario del viaggio che aveva fatto nel 1897, e che aveva pubblicato in chiave di romanzo. A quel punto non ho più avuto pace finché sono riuscito a organizzare un viaggio per andare a vedere di persona quei luoghi, e ho ripercorso anch'io tutto il suo itinerario, da Skagway fino a Dawson City, lungo il corso del fiume Yukon. Ciò che avevo letto nel romanzo era tutto vero, e le persone che Jack aveva descritto erano i suoi compagni nella corsa all'oro. Negli anni feci altri due viaggi in Yukon, portando sempre con me quella copia di Smoke Bellew sfuggita al macero. E' stato da quel romanzo che è nata la mia passione per la letteratura d'avventura.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Claudio Rossi: Il primo romanzo non l'ho proposto a editori, e nel frattempo ho raccolto molte informazioni assai negative sui rapporti tra uno scrittore e la casa editrice. Solo in tempi recenti, con una ventina di romanzi alle spalle, ho ceduto alle insistenze di amici e collaboratori e ho provato a mandare un paio di romanzi a due CE. Non ci sono stati risultati e al momento mi trovo bene nel self publishing dove ho il controllo totale di ogni passaggio e tempi certi.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Claudio Rossi: Sicuramente è un'ottima opportunità, ma solo se si dispone di uno scritto impacchettato come un vero prodotto editoriale, e se si possiede una buona conoscenza delle regole della piattaforma e del segmento in cui inserire il romanzo. Senza spendere molte ore in formazione il fallimento è quasi sicuro.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Claudio Rossi: Ho scritto tre serie di romanzi con protagonisti differenti tra loro per educazione, cultura ed età. Si muovono nel mondo romano tra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C. La serie più fortunata è quella che vede insieme l'agrimensore Quintilio e il liberto greco Hicesius. I protagonisti e le ambientazioni di questa serie fanno parte di un mondo che ha punti in comune con chi esegue attività tecniche con mezzi rudimentali in paesi arretrati, fidandosi della capacità di risolvere il problema quando si presenterà. Un po' come ho sempre fatto io. Sono quindi molto affezionato a questi personaggi, ed è inevitabile che uno scrittore travasi una parte di se stesso nei protagonisti che popolano le sue storie. Eppure il romanzo a cui sono più affezionato in assoluto è “Il Buio tra le Colline”, che fa parte di una trilogia che ha per protagonisti un giovanissimo architetto e un tribuno che ha abbandonato l'esercito. Questo romanzo ha percorso chilometri sulle scrivanie durante gli anni in cui non mi decidevo a pubblicarlo, ma poi il risultato è stato molto buono. La maggior parte dei personaggi che compaiono in questo romanzo ricalcano, accentuandone pregi e difetti, persone che ho realmente conosciuto, spesso in circostanze fuori dall'ordinario, come durante lavori pericolosi in foresta o nel deserto, o in mare. Mi sono persino servito di vecchie fotografie e di altrettanto vecchi rapporti di lavoro per fare mente locale e rendere più viva la descrizione di situazioni difficili o di guide o colleghi. E' un romanzo che fa un po' parte della mia vita.
Writer Officina: Come nascono i tuoi romanzi? Da dove trai l'ispirazione?
Claudio Rossi: I romanzi hanno di solito più di una fonte di ispirazione, voglio qui citarne tre: la prima è sicuramente la scoperta che il paesaggio che vediamo oggi nelle aree pianeggianti italiane e in parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo è in buona parte artificiale ed è dovuto a coloro che per primi si posero il problema di valorizzare il territorio. In concreto una fonte eccellente sono le foto aeree, settore in cui ho lavorato alcuni anni. La seconda fonte è la ricerca bibliografica: grazie al web è possibile accedere, con poca fatica, a un patrimonio immenso di opere letterarie digitalizzate. Le fonti a mio avviso più interessanti sono i testi dell'epoca in greco e in latino, di cui esistono eccellenti traduzioni, specialmente in volumi del ‘700 e dell'800. Vorrei citare, per fare un esempio, i testi di Erone su cui mi sono basato per ricostruire una dioptra che a volte compare nei romanzi. La terza fonte di ispirazione sono i musei, in cui si trovano strumenti che risalgono alla tecnologia dell'epoca insieme a oggetti che provengono dalla vita comune e che sono altrettanto necessari, a uno scrittore, per descrivere un contesto realistico.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Claudio Rossi: Alla base c'è la ricerca storica, spesso lunghissima e a volte non esaustiva. Va detto che le fonti classiche ci offrono descrizioni interessantissime di situazioni talmente ingarbugliate che nessuna mente di scrittore riuscirebbe mai a inventare di sana pianta. Purtroppo i tempi della ricerca storica non sono certi: qualche rara volta le informazioni compaiono all'improvviso, come servite su un piatto d'argento, altre volte il mosaico che si cerca di mettere insieme è incompleto e conviene fermare la stesura del romanzo. Questo è il motivo per cui ho alcune storie in stand by che non vanno né avanti né indietro. In ogni caso non mi è mai capitato che la maturazione del quadro storico e ambientale necessario per realizzare un romanzo trovi una buona coerenza in meno di un anno o due. Lavoro con uno schema iniziale partendo da una cronologia, e i fatti descritti nel romanzo vi si innestano in genere sotto forma di appunti che vengono ampliati a mano a mano che procede la descrizione dei personaggi e degli eventi, fino a formare i vari capitoli. Negli appunti preferisco non dettagliare eccessivamente, le foglie e i frutti vengono messi sull'albero durante la stesura. Quanto allo “scrivere d'istinto” non credo che esista, o per lo meno non ho esperienze dirette. Forse può esistere a livello di capitolo, non di romanzo.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Claudio Rossi: Ho più di un romanzo in lavorazione. Alcuni sono nel cassetto da anni, altri hanno trovato una struttura coerente e, capitolo dopo capitolo, li sto completando. Spero di riuscire a terminare nei prossimi mesi il tredicesimo romanzo della serie di Quintilio. Ho poi in lavorazione uno spin-off della serie dell'architetto Marco, e ho terminato da poco un'avventura che rivede insieme gli archeologi George Grayson e Giovanna Corsini (sarà presto pubblicata). Altre idee che sembravano ben avviate sono state fermate per incompletezza del quadro storico o per la presenza di incongruenze, ma di tanto in tanto trovo qualche nuovo tassello. Non mi pongo limiti di tempo, pubblico quando il risultato mi piace e ha un riscontro favorevole da editor e beta readers.
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