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Due tortore sul filo
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Prima.
Oggi comunque tiro tutto. “Come giocatore sono una pippa, ma con delle potenzialità. E oggi devo osare”. “Il livello è alto e non ho nulla da perdere”. “Devo farle fare bella figura”. “Devo essere all'altezza”. E altri pensieri di questo tipo. Era ciò che mi frullava per la testa quella mattina, in viaggio verso Alessandria. Uno dei primi tornei della stagione, quelli in cui c'è ancora il caldo estivo che ti fa cambiare sette volte la maglietta, quelli nei quali puoi liberare la tua voglia di giocare. Quelli in cui vuoi dimostrare come ti sei allenato bene tutta l'estate. Oggi comunque tiro tutto. Il doppio poi è ancora più stimolante, soprattutto se lo fai insieme a lei. Ha concluso la stagione precedente vincendo a sorpresa i Campionati Italiani di categoria con l'appendicite in corso e con la borsa del ghiaccio sulla pancia tra un set e l'altro. E senza di me a sostegno in panchina. Se aggiungo questo è perché se come giocatore non mi stimo, come tecnico ho invece di me una certa considerazione. Siamo in pratica cresciuti insieme, lei come giocatrice e io come tecnico, diventando competitivi, ciascuno nel proprio ruolo. La mia forzata assenza in quell'occasione, quindi, costituisce dunque un valore aggiunto che impreziosisce la sua vittoria. È talmente bello averla vista vincere il titolo, seppure non dal vivo ma solo attraverso un tablet! E se lo è vinto tutto da sola, pur essendo abituata alla mia presenza in panchina. E da sola si era creata l'opportunità di partecipare, a quei Campionati Italiani, nonostante tutto... Nonostante tutto quello che aveva remato contro quell'opportunità, nonostante tutto quello che era successo in quegli ultimi mesi. Mio papà ci aveva lasciato il 3 di agosto. Due mesi prima, mentre lui era in ospedale, con me al suo fianco, lei era riuscita a dargli quell'ultima piccola grande gioia. Papà, il nostro primo tifoso, come era orgoglioso di Simona, come era felice quando vinceva! E a darle a me quelle gioie, come padre, come tecnico, come sparring partner, come compagno di squadra. E come presidente. Quando giochi a tennistavolo, in una piccola realtà societaria, queste situazioni, come quella di ricoprire ruoli molteplici, è abbastanza ricorrente: tutti i compagni di squadra sono molto più che amici, si stabilisce un legame profondo. La nostra è una di quelle piccole realtà e Simona non ha vinto il titolo solo per sé. Lo ha vinto per tutti noi. Ma oggi è un'altra avventura, un'altra storia, c'è questo doppio misto da giocare. Sono curioso di misurarmi con il difficile, ma...Oggi comunque tiro tutto. Penso alle coppie iscritte alla gara di oggi, il livello è davvero alto, ma che ci faccio io in mezzo a questi giocatori? Nel singolo, contro di loro, la pallina la vedo solo quando la raccolgo per terra... Però il doppio è un'altra cosa, come doppista sono più che decoroso, ci posso provare, ci devo provare! Per lei, perché se lo merita. E poi sono allenato. È stata un'estate particolare, ma verso la fine mi sono allenato bene, anche per cercare di staccare la testa da altre situazioni. Magari gli altri, anche se forti, non sono ancora al meglio, saranno andati sempre al mare. Pensieri per caricarsi, per prepararsi mentalmente a reggere le battaglie che ci saranno intorno al tavolo. Oggi comunque tiro tutto. DURANTE. Siamo nel pieno della bagarre. È adrenalina pura. Noi la chiamiamo simpaticamente Andreina, quando ne parliamo a bocce ferme. Si, decisamente oggi mi sento acceso e mi entra tutto. La pallina la vedo grossa come un melone. Quando serve Simona, sotto il tavolo le chiamo l'ennesimo servizio tagliato sotto. Il mio top su palla tagliata, oggi, è imprendibile. Al turno di servizio di Simona precedente a questo ne ho tirato uno forte sul dritto e il contro-top è andato fuori. Il punto successivo ho tirato sul rovescio, ma la pallina girava talmente tanto che il block dell'avversario ha spinto la pallina fuori di 20 cm. Ora dove glielo tiro? Non mi resta che puntare al centro del tavolo. E in ogni caso...Oggi comunque tiro tutto. Lei è la solita Simona, li fa impazzire tutti. Con un'eleganza e al contempo un'efficacia formidabile, li mette sempre in crisi, gli fa crollare tutte le certezze. Blocca tutto e restituisce palline impossibili da governare. Quanta strada abbiamo fatto, siamo in finale! Abbiamo la possibilità di vincere il torneo. No, non è vero. È una partita come le altre. O meglio, cerco di convincermi che sia così. Devo rimanere con i piedi per terra, concentrato sul motto di oggi. Oggi comunque tiro tutto. DOPO. È andata, ce l'abbiamo fatta! Siamo sul gradino più alto del podio, e, per davvero, siamo stati chiamati per la premiazione e proclamati vincitori sulle note di “We are the Champions”. Ancora una grande emozione, come quelle che solo lo sport sa regalare. Siamo una coppia improbabile di giocatori di tennistavolo, formata da padre e figlia, ma oggi abbiamo vinto proprio noi! È un torneo interregionale e non è la Coppa del Mondo. Ma lo è per me, che non sono abituato a quelle altitudini. Lo è per noi! Lo è per la nostra storia e per la nostra passione. E anche perché abbiamo da dedicarla a qualcuno. Qualcuno che oggi non dico che impugnasse direttamente la mia racchetta, ma era come se il suo spirito fosse stato lì tra noi a soffiare sulla pallina per sospingerla più in là. Per aiutarci a fare punto e farci vincere. E per questo doppio giocato in tre... Sì, siamo proprio quassù in cima al podio, a vivere il nostro momento magico ed è bellissimo mandare un bacio e indicare col dito verso il cielo! L'étoile
Notte fredda, nella “città vecchia”. Nel piccolo carruggio del centro storico, l'anziana signora — che di giorno solitamente staziona per terra, avvolta da una coperta, in un angolo della Stazione Principe — trova riparo dal vento gelido di tramontana che sferza i quartieri di Genova in un vecchio portone di un palazzo disabitato. Ma quella non è una notte come le altre: non si sente per niente bene e sì, forse è arrivato il suo momento, che in fondo è quello che aspetta. E così è tempo di bilanci. Nessuno conosce la sua storia, ma lei non è sempre stata certo una clochard: era anzi stata una ballerina di danza classica, una étoile tra le più brave. Poi un brutto incidente sul palcoscenico, un amore finito male ed ecco che da quel momento era iniziato il suo declino. Da Parigi era voluta andare via e si era trasferita a Genova in cerca di lavoro e magari provare a ricostruirsi una nuova vita, ma aveva trovato difficoltà. Era una donna sola, rimasta zoppa, senza lavoro e con una storia affettiva importante da dimenticare. Così si era lasciata andare sprofondando nell'abisso dell'alcool. Poi, nel momento più buio, aveva avuto la fortuna di conoscere personalmente Don Gallo, il prete degli ultimi, il prete di strada che l'aveva aiutata almeno a uscire dal vizio del bere, ma soprattutto a ritrovare la fede. Insieme alla fede aveva ritrovato anche la perduta fiducia nel prossimo. D'altra parte a cosa serve un prete? Un prete che chiamavano con disprezzo “il prete comunista”. Ma un prete di strada non è forse un vero prete? Insomma, c'era finalmente qualcuno disposto ad ascoltarla e aiutarla, semmai avesse voluto confidarsi. Qualcuno che le porgeva indumenti, le portava del cibo e le chiedeva senza voler niente in cambio, ogni tanto, come stava e se aveva bisogno di qualche cosa... Sorrise, ripensando a quella volta che il prete aveva dato un calcio nel sedere a un tossico che cercava di derubarla, per poi redarguirlo subito dopo con un bonario: “lasciala perdere, capito? Vai a rompere le balle altrove se no te la vedrai con me”. Insomma, si era finto per un attimo cattivo per proteggerla. Poi le venne in mente quell'altra volta che le portò un libro con la firma di Fabrizio De André, suo amico personale e chansonnier col cuore grande, anche lui amico dei poveri, delle prostitute, dei disadattati come lei, degli “ultimi” che popolavano, insieme a molti extracomunitari, il centro storico di Genova. E dentro al libro, insieme alla firma c'erano pure dei soldi... Il grande valore del regalo, però, era stato il gesto. Quell'inaspettato e gradito omaggio l'aveva fatta commuovere e si era sciolta in un pianto liberatorio. Ora sia Don Gallo che Fabrizio non c'erano più e lei, nel frattempo, era diventata anziana e moribonda. Ora era proprio venuto il tempo di morire. Ed in effetti morì e quelli furono i suoi ultimi ricordi. E con quelli e quindi con un accenno ad un sorriso nel volto morì quasi serenamente, nonostante avesse trascorso in quel modo trasandato e un po' così l'ultima parte della sua vita. Quando i cinghiali piovono dal cielo
Se lo vide letteralmente piovere dal cielo. Tutto si sarebbe aspettato tranne che potesse provenire dall'alto. Eppure, ora che lo aveva visto con i propri occhi tutto gli era diventato chiaro: ecco da dove passavano i cinghiali. Da sopra, tuffandosi nella fascia sottostante! Razziavano, distruggevano e quando avevano finito si rituffavano nella fascia successiva procedendo da monte a valle. E hai voglia tu a ripristinare ogni volta l'orto e issare una rete qua e una là. Quegli animali sono furbi, intelligenti e sembrano saperne sempre una più del diavolo. Quella mattina Pasquale, con tutta la sua buona volontà, aveva deciso di sistemare la fascia delle zucchine ed era sceso armato di vanga, filo di ferro, svariati metri di recinzione arrotolata, la cassetta degli attrezzi e dei pali robusti. Una cinquantina di euro erano stati investiti in quel modo per risolvere quel problema che da un po' di tempo lo disturbava alquanto. Ma erano spesi bene, pensava lui. Sarebbe stato un lavoretto a prova di cinghiale... Un paio d'ore di impegno e la faccenda sarebbe stata risolta una volta per tutte. E invece no. Stava per finire il lavoro e si era fermato a bere un sorso d'acqua fresca, quando dal muretto alla sua sinistra si vide piovere proprio davanti a lui un cinghiale di taglia medio grossa. Si erano guardati, entrambi sorpresi dell'inaspettato incontro, diritto negli occhi. La bestia aveva un atteggiamento che a Pasquale era parsa una via di mezzo tra un rimprovero ed una minaccia ma con la quale, in realtà, il cinghiale voleva solo esprimere il suo disappunto per questi umani che erano dappertutto. Spuntavano fuori come i funghi ad intralciare i loro pacifici percorsi e la loro ricerca di cibo. Ma cosa avrebbero dovuto fare loro, con questi bipedi invadenti? La questione in ogni modo si risolse abbastanza rapidamente: la bestia passò a fianco a Pasquale, tra lui e il muro e bypassò l'indesiderato incontro tuffandosi direttamente nella fascia sottostante, tralasciando le zucchine (magari quelle le avrebbe assaggiate alla prossima incursione). A Pasquale tremarono le gambe ancora per qualche minuto poi piano piano si riprese dallo shock e risalì in casa, pensando che tutto sommato gli era andata bene. Dopo essersi fatto una doccia, ancora un po' frastornato, si ricordò di essersi dimenticato la sua preziosa cassetta degli attrezzi ma a quel punto non aveva voglia di andare a recuperarla. Proprio no. Sarebbe sceso il giorno dopo, tanto in giro non c'era anima viva, pensò amaramente, al massimo solo cinghiali. Quella sera, durante la cena, si scolò due birre, per iniziare. Poi decise di uscire e di scendere con la “Vespa” giù al circolo, ma non per giocare a carte. Neppure di quello aveva voglia. L'unico suo desiderio era dimenticare l'incontro della mattina e per quello riteneva necessario bere. E se avesse esagerato la moto sarebbe rimasta parcheggiata e sarebbe tornato a casa facendo due passi. La sua stessa sbronza quindi non lo sorprese perché quello era il suo modo di reagire alle avversità, anche se si rendeva conto che era sbagliato. Il circolo era situato proprio nella piazza principale del piccolo paese ed era frequentato, la sera, da contadini che abitavano la collina e scendevano ogni tanto per una partita a carte, un bicchiere di vino o qualche volta perfino per chiacchierare. Erano persone spesso solitarie, abituate a lavorare duramente fin dalle prime ore del mattino che cercavano in qualche modo di socializzare. Bevevano a volte da soli i loro bicchieri cercando in quella maniera di ingannare ciascuno la propria solitudine. Perfino le partite a carte erano a volte allo stesso modo taciturne. Quella sera il relativo silenzio fu rotto da un fragoroso rumore che spaventò i pochi presenti nel locale. Uscirono sulla porta a vedere e si trovarono di fronte ad un numeroso gruppo di cinghiali: il più grande aveva appena rovesciato il grosso contenitore dei rifiuti e praticamente tutti gli altri, di diverse taglie e sicuramente appartenenti a diverse generazioni stavano squartando i sacchetti dell'immondizia appena rovesciati sull'asfalto. I frequentatori del circolo rimasero a guardare la scena, tutto sommato quasi divertiti dall'insolito diversivo che aveva rotto la monotonia della serata. Tra loro, Pasquale, con la mente leggermente annebbiata dalla stanchezza della lunga giornata appena trascorsa e dai bicchieri che aveva tracannato lasciandosi un po' andare, aveva messo a fuoco che il cinghialone aveva appena dato l'assalto al secondo cassonetto e che affianco a quello c'era parcheggiata la sua Vespa. Nonostante non fosse proprio in bolla, capì subito che questa sarebbe finita per terra. Ed infatti così fu. In un attimo il patatrac: secondo cassonetto rovesciato e Vespa per terra! Non ci vide più dalla rabbia ed ebbe una reazione spropositata: attaccò lui, da solo, l'intero branco di cinghiali con l'aiuto di una pala appoggiata al muro lì di fuori, accanto ad un cumulo di cemento per dei lavori. Paonazzo in volto si mise ad urlare come un ossesso: - Figgi de bagascia! Purtè via u belin che ve daggu! - . Diede qualche palata a vuoto e sullo slancio finì per terra dando una facciata contro il marciapiede rompendosi in un colpo solo la mascella e la costosa dentiera che doveva ancora finire di pagare con ancora diverse rate. I cinghiali, per la verità più sorpresi che impauriti dall' esagerata reazione di Pasquale, si limitarono a spostarsi un po' più in là. Il più grosso tra gli ungulati, pur contrariato dal disturbo portato dall'umano alla sua azione parve però capire la situazione e nel linguaggio dei cinghiali con un silenzioso comando ordinò ai suoi discendenti e colleghi di razzia di soprassedere, almeno per il momento, alla ricerca del cibo tra i rifiuti che in fondo era stata lo scopo della loro invadente incursione nella piazza del paese. Se ne andarono definitivamente solo quando sentirono la sirena dell'ambulanza che si avvicinava per dare soccorso al povero Pasquale che a sua volta concluse all'ospedale, ammaccato nel corpo e ancor più nello spirito, quella lunga e indimenticabile giornata. Distopia del terzo millennio
I primi, nella vecchia Italia del 2023, furono i cinghiali. La procedura messa a punto prevedeva una sequenza di fasi così organizzata: occorreva dapprima isolarli, poi li si “accompagnava” in una zona con condizioni di sicurezza sufficienti e infine li si abbatteva. A colpi di pistola. Fu questo dunque il modo scelto per risolvere il problema del loro soprannumero che aveva reso pericolose le strade delle città. Con una variante, però: la Liguria aveva infatti “aperto” anche all'uso dell'arco con le frecce. Fu così che tutti gli aspiranti nuovi Robin Hood, incoraggiati dalle istituzioni, uscirono fuori allo scoperto insieme ai cacciatori. La stessa soluzione scelta per i cinghiali fu adottata poi anche per i piccioni, per questioni igieniche e poi ancora nelle città di mare ai gabbiani che infastidivano cittadini e turisti... |
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Autori di Writer Officina
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Buongiorno a tutti e grazie a Writer Officina per avermi dato la possibilità di questa intervista. Sono originario della pianura del Po. Ho completato gli studi classici prima di intraprendere una professione che mi ha portato a conoscere nel dettaglio come i romani hanno modificato il territorio italiano. A parte l'attività in Italia, ho lavorato per molti anni in tutto il mondo in zone disabitate o desertiche, facendo rilievi con strumenti spesso rimediati sul posto e non troppo diversi da quelli degli agrimensori romani. Erano gli anni '70 e '80, i GPS e i satelliti non erano a disposizione dei civili. In quegli anni ho vissuto spesso al fuoco dei bivacchi, mangiando cibi su cui non conveniva indagare a fondo. Nel 2013 ho finalmente avuto l'opportunità, e il tempo, di approdare al romanzo storico, in cui racconto il mondo dell'antica Roma attraverso gli occhi di persone comuni che cercano di sopravvivere tra corruzione, congiure e tradimenti.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Claudio Rossi: Fin da bambino leggevo classici dell'avventura come Verne e Salgari, ma qualcosa è cambiato quando mi è capitò tra le mani una copia da macero di Smoke Bellew, uno dei primi romanzi di Jack London. Fu quello a smuovere una passione travolgente per la letteratura d'avventura. Con il liceo approfondii lo studio dei classici, da Omero a Dante, e della letteratura italiana. Subito dopo l'università dovetti iniziare a lavorare in giro per il mondo.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Claudio Rossi: Sì, c'è stato. Non ricordo quante volte lessi quel romanzo di Jack London di cui ho fatto cenno prima, anche se negli anni dovetti scendere a patti con il lavoro e la famiglia. Ma a volte quando quel libro, magari dopo essere stato dimenticato per una decina d'anni, mi capitava di nuovo tra le mani, lo rileggevo con la mente arricchita di nuove esperienze di vita, e più lo rileggevo e più mi incendiava la curiosità di vedere quei luoghi. Il tarlo di Jack London mi ha perseguitato per molti anni, decenni addirittura, finché il caso ha voluto che, ormai cinquantenne, mi capitasse tra le mani una ricognizione fotogrammetrica di una regione dello Yukon canadese. Durante l'esame delle foto aeree e il confronto con alcune mappe di aeronavigazione ho scoperto che i luoghi citati da Jack London esistevano per davvero, tutti quanti! Persino i villaggi indiani. Approfondendo la ricerca un dubbio che mi era sorto si trasformò lentamente in certezza: London aveva descritto cose che aveva visto, e avventure che aveva vissuto per davvero. Quel romanzo puzzolente di muffa che avevo salvato dal macero era il diario del viaggio che aveva fatto nel 1897, e che aveva pubblicato in chiave di romanzo. A quel punto non ho più avuto pace finché sono riuscito a organizzare un viaggio per andare a vedere di persona quei luoghi, e ho ripercorso anch'io tutto il suo itinerario, da Skagway fino a Dawson City, lungo il corso del fiume Yukon. Ciò che avevo letto nel romanzo era tutto vero, e le persone che Jack aveva descritto erano i suoi compagni nella corsa all'oro. Negli anni feci altri due viaggi in Yukon, portando sempre con me quella copia di Smoke Bellew sfuggita al macero. E' stato da quel romanzo che è nata la mia passione per la letteratura d'avventura.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Claudio Rossi: Il primo romanzo non l'ho proposto a editori, e nel frattempo ho raccolto molte informazioni assai negative sui rapporti tra uno scrittore e la casa editrice. Solo in tempi recenti, con una ventina di romanzi alle spalle, ho ceduto alle insistenze di amici e collaboratori e ho provato a mandare un paio di romanzi a due CE. Non ci sono stati risultati e al momento mi trovo bene nel self publishing dove ho il controllo totale di ogni passaggio e tempi certi.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Claudio Rossi: Sicuramente è un'ottima opportunità, ma solo se si dispone di uno scritto impacchettato come un vero prodotto editoriale, e se si possiede una buona conoscenza delle regole della piattaforma e del segmento in cui inserire il romanzo. Senza spendere molte ore in formazione il fallimento è quasi sicuro.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Claudio Rossi: Ho scritto tre serie di romanzi con protagonisti differenti tra loro per educazione, cultura ed età. Si muovono nel mondo romano tra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C. La serie più fortunata è quella che vede insieme l'agrimensore Quintilio e il liberto greco Hicesius. I protagonisti e le ambientazioni di questa serie fanno parte di un mondo che ha punti in comune con chi esegue attività tecniche con mezzi rudimentali in paesi arretrati, fidandosi della capacità di risolvere il problema quando si presenterà. Un po' come ho sempre fatto io. Sono quindi molto affezionato a questi personaggi, ed è inevitabile che uno scrittore travasi una parte di se stesso nei protagonisti che popolano le sue storie. Eppure il romanzo a cui sono più affezionato in assoluto è “Il Buio tra le Colline”, che fa parte di una trilogia che ha per protagonisti un giovanissimo architetto e un tribuno che ha abbandonato l'esercito. Questo romanzo ha percorso chilometri sulle scrivanie durante gli anni in cui non mi decidevo a pubblicarlo, ma poi il risultato è stato molto buono. La maggior parte dei personaggi che compaiono in questo romanzo ricalcano, accentuandone pregi e difetti, persone che ho realmente conosciuto, spesso in circostanze fuori dall'ordinario, come durante lavori pericolosi in foresta o nel deserto, o in mare. Mi sono persino servito di vecchie fotografie e di altrettanto vecchi rapporti di lavoro per fare mente locale e rendere più viva la descrizione di situazioni difficili o di guide o colleghi. E' un romanzo che fa un po' parte della mia vita.
Writer Officina: Come nascono i tuoi romanzi? Da dove trai l'ispirazione?
Claudio Rossi: I romanzi hanno di solito più di una fonte di ispirazione, voglio qui citarne tre: la prima è sicuramente la scoperta che il paesaggio che vediamo oggi nelle aree pianeggianti italiane e in parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo è in buona parte artificiale ed è dovuto a coloro che per primi si posero il problema di valorizzare il territorio. In concreto una fonte eccellente sono le foto aeree, settore in cui ho lavorato alcuni anni. La seconda fonte è la ricerca bibliografica: grazie al web è possibile accedere, con poca fatica, a un patrimonio immenso di opere letterarie digitalizzate. Le fonti a mio avviso più interessanti sono i testi dell'epoca in greco e in latino, di cui esistono eccellenti traduzioni, specialmente in volumi del ‘700 e dell'800. Vorrei citare, per fare un esempio, i testi di Erone su cui mi sono basato per ricostruire una dioptra che a volte compare nei romanzi. La terza fonte di ispirazione sono i musei, in cui si trovano strumenti che risalgono alla tecnologia dell'epoca insieme a oggetti che provengono dalla vita comune e che sono altrettanto necessari, a uno scrittore, per descrivere un contesto realistico.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Claudio Rossi: Alla base c'è la ricerca storica, spesso lunghissima e a volte non esaustiva. Va detto che le fonti classiche ci offrono descrizioni interessantissime di situazioni talmente ingarbugliate che nessuna mente di scrittore riuscirebbe mai a inventare di sana pianta. Purtroppo i tempi della ricerca storica non sono certi: qualche rara volta le informazioni compaiono all'improvviso, come servite su un piatto d'argento, altre volte il mosaico che si cerca di mettere insieme è incompleto e conviene fermare la stesura del romanzo. Questo è il motivo per cui ho alcune storie in stand by che non vanno né avanti né indietro. In ogni caso non mi è mai capitato che la maturazione del quadro storico e ambientale necessario per realizzare un romanzo trovi una buona coerenza in meno di un anno o due. Lavoro con uno schema iniziale partendo da una cronologia, e i fatti descritti nel romanzo vi si innestano in genere sotto forma di appunti che vengono ampliati a mano a mano che procede la descrizione dei personaggi e degli eventi, fino a formare i vari capitoli. Negli appunti preferisco non dettagliare eccessivamente, le foglie e i frutti vengono messi sull'albero durante la stesura. Quanto allo “scrivere d'istinto” non credo che esista, o per lo meno non ho esperienze dirette. Forse può esistere a livello di capitolo, non di romanzo.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Claudio Rossi: Ho più di un romanzo in lavorazione. Alcuni sono nel cassetto da anni, altri hanno trovato una struttura coerente e, capitolo dopo capitolo, li sto completando. Spero di riuscire a terminare nei prossimi mesi il tredicesimo romanzo della serie di Quintilio. Ho poi in lavorazione uno spin-off della serie dell'architetto Marco, e ho terminato da poco un'avventura che rivede insieme gli archeologi George Grayson e Giovanna Corsini (sarà presto pubblicata). Altre idee che sembravano ben avviate sono state fermate per incompletezza del quadro storico o per la presenza di incongruenze, ma di tanto in tanto trovo qualche nuovo tassello. Non mi pongo limiti di tempo, pubblico quando il risultato mi piace e ha un riscontro favorevole da editor e beta readers.
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