|
|
I papiri di Alexandria
|

La barca aveva retto. L'avevamo rattoppata non si sa quante volte con mezzi di fortuna. Arrio aveva fatto riparazioni impossibili sostituendo alcune tavole del fasciame con assicelle ricavate da tronchi trovati sulla spiaggia, usando cavicchi di legno al posto dei chiodi. Quasi ogni giorno era stato necessario prendere terra per calafatare qualche fessura piantandovi dentro delle funicelle intrecciate di un'erba simile al carice. Le tavole di legno erano praticamente marce, e noi eravamo costretti a muoverci con circospezione quasi che si trattasse di un orcio crepato pronto a rompersi alla prima scossa. La giornata era abbastanza limpida e anche restando al largo avevo ormai riconosciuto l'insenatura di Tomis e il biancheggiare delle case in fondo al minuscolo golfo. Il cuore mi batteva forte e, per scaramanzia, strinsi nel pugno il fodero di pelle con il minuscolo rasoio che mi aveva regalato Arethi; lo portavo ancora al collo, miracolosamente ero riuscito a non perderlo durante tutte le nostre peregrinazioni. Ci tenevo molto a quel rasoio: negli ultimi mesi era stato per me l'unico ricordo tangibile della bella vita che avevo fatto a Thessalonica prima di partire per la missione. Arrio e Domizio calarono la vela e affondammo l'ancora, un grosso sasso informe di un'ottantina di libbre, ingabbiato da rustiche funi ottenute intrecciando striscioline di corteccia di salice selvatico. Il sasso non toccò nemmeno il fondo. Eravamo ancora troppo al largo nel mare Eusino, ma fu sufficiente a rallentare lo scarroccio e a evitare che il vento, spingendo la barca, ci portasse più a meridione, risparmiandoci manovre in cui non eravamo troppo esperti. Il momento era arrivato. Avevamo bisogno di prendere terra a Tomis e di muoverci senza dare nell'occhio. Quel rasoio ce lo passammo tra di noi e affilandolo di tanto in tanto sulla pelle del braccio ci tagliammo la barba scorticandoci qua e là, nell'intento di apparire simili a poveri pescatori e non essere scambiati per pirati. Ci sistemammo in qualche modo anche i capelli, rimanendo sempre a due o tre miglia dalla costa con la barca che dondolava leggermente per via delle piccole onde che increspavano il mare. Una volta ripuliti ci guardammo increduli l'un l'altro, deridendoci a vicenda e stentando a riconoscerci da quanto eravamo divenuti magri durante i lunghi mesi che era durata la nostra fuga. Ora i nostri visi scarni ben si accompagnavano alle ginocchia ossute e alle vesti lacere. A sera entrammo nel porticciolo approfittando dell'ultima luce del crepuscolo che avrebbe reso difficile a chiunque osservarci con attenzione. Era l'ora in cui le persone oneste si ritirano nelle loro case per la cena con la famiglia e il riposo della notte, e non c'era più nessuno in giro quando spiaggiammo la barca nell'unico posto in cui essa non avrebbe sollevato sospetti, almeno per un po' di tempo: la allineammo ordinatamente sulla rena insieme con le altre barche da pescatori. Eravamo affamati. Quando eravamo fuggiti dalla Cimmeria, dal luogo in cui la nostra guarnigione era stata massacrata, avevamo raccolto un paio di sarcine a caso e ora avevamo qualche moneta di rame che vi avevamo trovato dentro, appena sufficienti forse per una zuppa. Attorno al porticciolo c'erano tre taberne. Le osservammo una alla volta facendo finta di passarvi davanti per caso; quella più distante dagli approdi era veramente male in arnese: sporca e fumosa, con il tetto di canniccio in disordine. Tre cani dormivano sul pavimento di terra battuta e, in un angolo, alcune galline stavano cercando la posizione adatta per sistemarsi a passare la notte su un trespolo vagamente simile a una scala. Una topaia. Era il posto che faceva per noi. Entrando feci vedere all'oste le due monete di rame e quello ci fece cenno col mento di andarci a sedere a un tavolaccio. Eravamo gli ultimi avventori, ci avrebbe servito con abbondanza quanto era rimasto dalla giornata. Sentivamo molto la mancanza del pane. Da un paio di mesi parlavamo tra di noi di questo momento, di quando ci saremmo seduti a un tavolo e avremmo cominciato a sgranocchiare qualche crosta di pane. Quel momento era arrivato e in silenzio ci guardammo negli occhi. L'oste mise in tavola delle ciotole di zuppa, acqua calda con qualche resto di pesce lesso che galleggiava, e noi vi macerammo il durissimo pane nero che si usava in questi luoghi. Mangiammo con ingordigia e Arrio e Domizio, che erano affamati non meno di me, fecero a gara a chi finiva prima per chiederne ancora all'oste. Riuscimmo a ottenere anche dei rimasugli di pesce abbrustolito. L'oste ci vide talmente affamati che non ebbe il coraggio di negarci nulla. Alla fine mangiammo noi gli avanzi di cucina che forse spettavano ai cani della taberna. Ci parve di rivivere. Poco dopo ci ritirammo a dormire sulla spiaggia; ci allontanammo di qualche centinaio di passi dall'abitato prestando attenzione che nessuno osservasse ove andavamo. Trovammo un comodo riparo tra le dune di sabbia, a poche decine di passi dal mare, e naturalmente organizzammo turni di guardia come si usa nell'esercito. Potei finalmente distendermi e rilassarmi sul telo cerato che era ormai divenuto morbido e frusto: la rena era ancora leggermente tiepida dalla giornata estiva, e avevo la pancia piena per la prima volta dopo molto tempo. Il più era fatto! Eravamo in Tracia e dovevamo solo raggiungere i confini della Macedonia. Eravamo riusciti a sfuggire ai cavalieri cimmeri che avevano cercato le tracce del nostro passaggio in terraferma; in mare nessuno ci aveva notati. Forse i nostri inseguitori avevano pensato che fossimo morti, o che ci fossimo persi nella sterile prateria della Cimmeria, il che, considerando che secondo loro non avevamo nulla da mangiare e da bere e forse nessun equipaggiamento, equivaleva comunque a morte certa. Quaranta giorni era durata la navigazione sul Mare Eusino, con soste lungo spiagge deserte dove non si vedeva traccia di esseri viventi, e ora potevamo considerarci ragionevolmente al sicuro. Nella quiete sotto il cielo stellato, mentre Arrio già russava, tornai con la mente ai soliti pensieri che mi avevano riempito le giornate. C'erano ancora parecchi ostacoli contro cui avremmo dovuto lottare. I monarchi del Bosforo Cimmerio mai avrebbero corso il rischio che qualcuno di noi sopravvivesse. Si erano lasciati sfuggire dei testimoni dell'eccidio, e tra di essi l'agrimensore che aveva trascritto dettagliatamente su una pergamena tutto il percorso fatto per giungere fino lì, con l'ubicazione delle città, la distanza tra di esse, e la posizione degli attraversamenti dei fiumi; in una parola la futura strada per far giungere le legioni di Roma in Cimmeria per via di terra. Quell'agrimensore ero io: avevo a tracolla sotto le vesti, perché non l'avevo mai abbandonato per un istante negli ultimi due mesi, il sacchetto impermeabile di cuoio grasso chiuso ermeticamente da un laccio che ne strangolava la bocca. In esso stava riposto un rotolo di leggerissima pergamena ricavata unendo tra di loro sottili pelli di coniglio. Era un piccolo capolavoro quel rotolo: me l'aveva donato l'agrimensore capo Destro Emilio Scauro quando eravamo partiti dal Comando del Genio della città di Bononia. Vi avevo trascritto in caratteri piccolissimi tutto quello che era successo, giorno per giorno, fin dalla partenza da Thessalonica: nomi dei legionari e ruoli, percorsi giornalieri, miglia, tappe, città, nomi dei luoghi, ubicazioni di pozzi dell'acqua, inframmezzando minuscoli disegni del territorio e piccole mappe. Negli ultimi giorni avevo aggiornato il diario con il resoconto dettagliato dell'eccidio in cui era stato massacrato l'intero reparto, riportandovi ciò che i miei compagni ed io avevamo visto da lontano, e fissando con l'inchiostro sulla pergamena la decisiva testimonianza di un legionario che avevamo trovato morente. Aveva fatto in tempo a descriverci come si era svolto l'attacco, e ci aveva denunciato l'inequivocabile tradimento perpetrato dal legato Licinio Nigro e dalla guida trace Servilio. Nell'eccidio era stato ucciso il tribuno Valerio Agrippa, il plenipotenziario di Cesare, uno dei suoi fedelissimi. Il Regno del Bosforo Cimmerio era stato asservito a Roma da Pompeo, e non c'era nessun dubbio che la ribellione dei suoi regnanti sarebbe stata affogata nel sangue non appena Cesare ne fosse venuto a conoscenza. Questa era la ragione per cui quegli oscuri monarchi non avrebbero trascurato nessun mezzo per completare il lavoro dei sicari e impedire che le notizie di cui eravamo portatori fossero consegnate al comando di Thessalonica. I sicari che avevano sguinzagliato sulle nostre tracce, forse numerosi, sapevano che noi avremmo dovuto rendere il nostro rapporto a Thessalonica. Il reparto era partito da quella città, e i traditori sapevano che là dovevamo ritornare. Forse i sicari ci avevano perso di vista nel tratto tra la Cimmeria e Tomis, una regione priva di strade. Forse avevano immaginato che potessimo essere fuggiti per mare, e certo sperato che scomparissimo tra i flutti per sempre. Ma non c'era dubbio che se avessero voluto intercettarci, la strada che da Tomis conduceva a Thessalonica sarebbe stata il percorso più logico per ritrovarci. E ora questo era il nostro problema: quella strada noi in un modo o nell'altro avremmo ben dovuto percorrerla, e la Via Egnatia che conduceva a Thessalonica sarebbe stata per noi sempre più pericolosa a mano a mano che ci fossimo avvicinati alla città. I sicari non avrebbero pattugliato inutilmente tutta la Tracia e la Macedonia: ci avrebbero aspettato alle porte di Thessalonica. Quello era il luogo più logico, chiunque avrebbe fatto così. Quindi i pericoli da correre erano tutt'altro che finiti. Certo, eravamo vivi, ma ci restavano ancora da percorrere seicento miglia prima di essere al sicuro in una caserma. Seicento miglia in cui avremmo potuto imbatterci in sorprese a ogni passo. «È tutto a posto Quintilio?» mi chiese sottovoce Domizio che era di guardia e aveva notato che continuavo a rivoltarmi sullo sdrucito telo cerato. Una domanda cui era difficile rispondere, ma gli bisbigliai: «Speriamo di sì. In fondo dobbiamo solo trovare il modo di rivedere la nostra terra natia.» «La rivedremo quando gli dèi lo vorranno» ribatté il legionario con insospettata filosofia. Molte volte mi ero chiesto perché noi tre fossimo scampati a tutte quelle prove, e non potevo certo dimenticare che alla nostra partenza non era nemmeno stato offerto agli dèi un sacrificio come si deve. Ormai il sonno mi era passato, e mi spostai con Domizio su un lieve sopralzo del terreno dal quale nonostante l'oscurità della notte si vedevano bene, alla luce delle stelle e di un po' di luna, le strie bianche delle onde che si frangevano sulla spiaggia. «Domizio, ti ricordi di quella nefasta cerimonia che fu fatta in caserma a Thessalonica quando siamo partiti?» «Chi potrebbe dimenticarsene, Quintilio? Gli dèi erano contrari a questa spedizione. E forse qualcosa dovremo pagare.» Domizio era un legionario ignorante e pieno di vizi ma c'era arrivato anche lui. E quella era stata la mia stessa conclusione. |
|
|
Votazione per
|
|
WriterGoldOfficina
|
|
Biblioteca

|
Acquista

|
Preferenze
|
Recensione
|
Contatto
|
|
|
|
|
|
|
|
Conc. Letterario
|
|
|
|
Magazine
|
|
|
|
Blog Autori
|
|
|
|
Biblioteca New
|
|
|
|
Biblioteca Gen.
|
|
|
|
Biblioteca Top
|
|
|
|
Autori
|
|
|
|
Recensioni
|
|
|
|
Inser. Estratti
|
|
|
|
@ contatti
|
|
|
Policy Privacy
|
|
Autori di Writer Officina
|
|
|
Buongiorno a tutti e grazie a Writer Officina per avermi dato la possibilità di questa intervista. Sono originario della pianura del Po. Ho completato gli studi classici prima di intraprendere una professione che mi ha portato a conoscere nel dettaglio come i romani hanno modificato il territorio italiano. A parte l'attività in Italia, ho lavorato per molti anni in tutto il mondo in zone disabitate o desertiche, facendo rilievi con strumenti spesso rimediati sul posto e non troppo diversi da quelli degli agrimensori romani. Erano gli anni '70 e '80, i GPS e i satelliti non erano a disposizione dei civili. In quegli anni ho vissuto spesso al fuoco dei bivacchi, mangiando cibi su cui non conveniva indagare a fondo. Nel 2013 ho finalmente avuto l'opportunità, e il tempo, di approdare al romanzo storico, in cui racconto il mondo dell'antica Roma attraverso gli occhi di persone comuni che cercano di sopravvivere tra corruzione, congiure e tradimenti.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Claudio Rossi: Fin da bambino leggevo classici dell'avventura come Verne e Salgari, ma qualcosa è cambiato quando mi è capitò tra le mani una copia da macero di Smoke Bellew, uno dei primi romanzi di Jack London. Fu quello a smuovere una passione travolgente per la letteratura d'avventura. Con il liceo approfondii lo studio dei classici, da Omero a Dante, e della letteratura italiana. Subito dopo l'università dovetti iniziare a lavorare in giro per il mondo.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Claudio Rossi: Sì, c'è stato. Non ricordo quante volte lessi quel romanzo di Jack London di cui ho fatto cenno prima, anche se negli anni dovetti scendere a patti con il lavoro e la famiglia. Ma a volte quando quel libro, magari dopo essere stato dimenticato per una decina d'anni, mi capitava di nuovo tra le mani, lo rileggevo con la mente arricchita di nuove esperienze di vita, e più lo rileggevo e più mi incendiava la curiosità di vedere quei luoghi. Il tarlo di Jack London mi ha perseguitato per molti anni, decenni addirittura, finché il caso ha voluto che, ormai cinquantenne, mi capitasse tra le mani una ricognizione fotogrammetrica di una regione dello Yukon canadese. Durante l'esame delle foto aeree e il confronto con alcune mappe di aeronavigazione ho scoperto che i luoghi citati da Jack London esistevano per davvero, tutti quanti! Persino i villaggi indiani. Approfondendo la ricerca un dubbio che mi era sorto si trasformò lentamente in certezza: London aveva descritto cose che aveva visto, e avventure che aveva vissuto per davvero. Quel romanzo puzzolente di muffa che avevo salvato dal macero era il diario del viaggio che aveva fatto nel 1897, e che aveva pubblicato in chiave di romanzo. A quel punto non ho più avuto pace finché sono riuscito a organizzare un viaggio per andare a vedere di persona quei luoghi, e ho ripercorso anch'io tutto il suo itinerario, da Skagway fino a Dawson City, lungo il corso del fiume Yukon. Ciò che avevo letto nel romanzo era tutto vero, e le persone che Jack aveva descritto erano i suoi compagni nella corsa all'oro. Negli anni feci altri due viaggi in Yukon, portando sempre con me quella copia di Smoke Bellew sfuggita al macero. E' stato da quel romanzo che è nata la mia passione per la letteratura d'avventura.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Claudio Rossi: Il primo romanzo non l'ho proposto a editori, e nel frattempo ho raccolto molte informazioni assai negative sui rapporti tra uno scrittore e la casa editrice. Solo in tempi recenti, con una ventina di romanzi alle spalle, ho ceduto alle insistenze di amici e collaboratori e ho provato a mandare un paio di romanzi a due CE. Non ci sono stati risultati e al momento mi trovo bene nel self publishing dove ho il controllo totale di ogni passaggio e tempi certi.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Claudio Rossi: Sicuramente è un'ottima opportunità, ma solo se si dispone di uno scritto impacchettato come un vero prodotto editoriale, e se si possiede una buona conoscenza delle regole della piattaforma e del segmento in cui inserire il romanzo. Senza spendere molte ore in formazione il fallimento è quasi sicuro.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Claudio Rossi: Ho scritto tre serie di romanzi con protagonisti differenti tra loro per educazione, cultura ed età. Si muovono nel mondo romano tra il primo secolo a.C. e il primo secolo d.C. La serie più fortunata è quella che vede insieme l'agrimensore Quintilio e il liberto greco Hicesius. I protagonisti e le ambientazioni di questa serie fanno parte di un mondo che ha punti in comune con chi esegue attività tecniche con mezzi rudimentali in paesi arretrati, fidandosi della capacità di risolvere il problema quando si presenterà. Un po' come ho sempre fatto io. Sono quindi molto affezionato a questi personaggi, ed è inevitabile che uno scrittore travasi una parte di se stesso nei protagonisti che popolano le sue storie. Eppure il romanzo a cui sono più affezionato in assoluto è “Il Buio tra le Colline”, che fa parte di una trilogia che ha per protagonisti un giovanissimo architetto e un tribuno che ha abbandonato l'esercito. Questo romanzo ha percorso chilometri sulle scrivanie durante gli anni in cui non mi decidevo a pubblicarlo, ma poi il risultato è stato molto buono. La maggior parte dei personaggi che compaiono in questo romanzo ricalcano, accentuandone pregi e difetti, persone che ho realmente conosciuto, spesso in circostanze fuori dall'ordinario, come durante lavori pericolosi in foresta o nel deserto, o in mare. Mi sono persino servito di vecchie fotografie e di altrettanto vecchi rapporti di lavoro per fare mente locale e rendere più viva la descrizione di situazioni difficili o di guide o colleghi. E' un romanzo che fa un po' parte della mia vita.
Writer Officina: Come nascono i tuoi romanzi? Da dove trai l'ispirazione?
Claudio Rossi: I romanzi hanno di solito più di una fonte di ispirazione, voglio qui citarne tre: la prima è sicuramente la scoperta che il paesaggio che vediamo oggi nelle aree pianeggianti italiane e in parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo è in buona parte artificiale ed è dovuto a coloro che per primi si posero il problema di valorizzare il territorio. In concreto una fonte eccellente sono le foto aeree, settore in cui ho lavorato alcuni anni. La seconda fonte è la ricerca bibliografica: grazie al web è possibile accedere, con poca fatica, a un patrimonio immenso di opere letterarie digitalizzate. Le fonti a mio avviso più interessanti sono i testi dell'epoca in greco e in latino, di cui esistono eccellenti traduzioni, specialmente in volumi del ‘700 e dell'800. Vorrei citare, per fare un esempio, i testi di Erone su cui mi sono basato per ricostruire una dioptra che a volte compare nei romanzi. La terza fonte di ispirazione sono i musei, in cui si trovano strumenti che risalgono alla tecnologia dell'epoca insieme a oggetti che provengono dalla vita comune e che sono altrettanto necessari, a uno scrittore, per descrivere un contesto realistico.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Claudio Rossi: Alla base c'è la ricerca storica, spesso lunghissima e a volte non esaustiva. Va detto che le fonti classiche ci offrono descrizioni interessantissime di situazioni talmente ingarbugliate che nessuna mente di scrittore riuscirebbe mai a inventare di sana pianta. Purtroppo i tempi della ricerca storica non sono certi: qualche rara volta le informazioni compaiono all'improvviso, come servite su un piatto d'argento, altre volte il mosaico che si cerca di mettere insieme è incompleto e conviene fermare la stesura del romanzo. Questo è il motivo per cui ho alcune storie in stand by che non vanno né avanti né indietro. In ogni caso non mi è mai capitato che la maturazione del quadro storico e ambientale necessario per realizzare un romanzo trovi una buona coerenza in meno di un anno o due. Lavoro con uno schema iniziale partendo da una cronologia, e i fatti descritti nel romanzo vi si innestano in genere sotto forma di appunti che vengono ampliati a mano a mano che procede la descrizione dei personaggi e degli eventi, fino a formare i vari capitoli. Negli appunti preferisco non dettagliare eccessivamente, le foglie e i frutti vengono messi sull'albero durante la stesura. Quanto allo “scrivere d'istinto” non credo che esista, o per lo meno non ho esperienze dirette. Forse può esistere a livello di capitolo, non di romanzo.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Claudio Rossi: Ho più di un romanzo in lavorazione. Alcuni sono nel cassetto da anni, altri hanno trovato una struttura coerente e, capitolo dopo capitolo, li sto completando. Spero di riuscire a terminare nei prossimi mesi il tredicesimo romanzo della serie di Quintilio. Ho poi in lavorazione uno spin-off della serie dell'architetto Marco, e ho terminato da poco un'avventura che rivede insieme gli archeologi George Grayson e Giovanna Corsini (sarà presto pubblicata). Altre idee che sembravano ben avviate sono state fermate per incompletezza del quadro storico o per la presenza di incongruenze, ma di tanto in tanto trovo qualche nuovo tassello. Non mi pongo limiti di tempo, pubblico quando il risultato mi piace e ha un riscontro favorevole da editor e beta readers.
|
|
Tutti i miei Libri

|
Profilo Facebook

|
Contatto
|
|
|
|