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Diversamente sole
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Diversi sono i modi di essere donna che puoi incontrare sulle strade del mondo, ma c'è un aspetto dell'esistenza che ci accomuna tutte e appartiene solo a noi: la solitudine. Il libro che avete tra le mani è un libro scomodo, non racconta storie a lieto fine, anzi, le storie che racconta appartengono al genere di quelle che non finiscono mai. Di tutte, una soltanto, a mio giudizio, si risolve in una speranza di serenità: potrebbe essere definita fiaba di una nipotina che trova un nonno, ma questa è solo la seconda parte di La vergine di Malindi e La figlia della vergine. Delle altre posso dire che offrono un'unica rassicurazione, si svolgono in una realtà molto lontana dalla nostra. Tranne l'ultima, che appartiene al passato povero della mia terra, il Veneto, al tempo in cui la solitudine si mescolava con la povertà e generava mostri: Tre + due ragazze belle, vendono il poco che hanno. La trovi ovunque, la solitudine, negli interstizi della vita altrui e ovunque ci sia da portare pesi, nascoste agli occhi del mondo o appena appena sogguardate, come la donna che sputa quasi di nascosto sui dittatori (Ma i dittatori sognano isole sbagliate?) e le ragazze di Tripoli che rifiutano quelle di un altro colore. Il mare che divide la Libia dalla Sicilia ne sa qualcosa, di solitudine: dentro uno di quei gusci di noce che ballonzolano disperatamente sulle onde, ho lanciato uno sguardo e ho trovato una novella Sherazade, il suo nome è Haben e rappresenta tutte le mie allieve eritree, e ricorda Tutte quelle in fondo al mare. Ogni donna vive con la sua peculiare solitudine: non fa molta differenza che gliel'abbia regalata il mondo o se la sia ella stessa confezionata, come accade ad esempio a Sikina, la protagonista del racconto Di corsa, che ha sposato un uomo speciale ma se n'è accorta troppo tardi. Ci sono le solitudini coraggiose, nobili, fiere e c'è la solitudine delle donne che vivono in mondi meschini che le hanno plasmate ma di loro non sanno che farsene: sono Quelle del Waddan, appendici di un mondo che si sente privilegiato La solitudine ti guarda sempre con lo stesso volto, ma non tutte le storie di solitudine si assomigliano. Ci sono quelle che ti lacerano dentro e ti fanno sentire corresponsabile di quanto accade: ad Afra di Tawergha e alla figlia di Rosa, a Ghinda, cui è stato fatto assaggiare l'amaro Frutto di passione. Alle donne che mangiano insieme Fattush a Beiruth: sono amiche, in compagnia, allegre e felici: non dura. C'è la gioia di Azadeh, che significa libertà in persiano: libera di vagare sola tra i misteri e gli incantamenti del Gran Bazar di Teheran. La mia gioiosa e stordita euforia – sì, la protagonista di Acido lisergico sono io – che sogna donne colorate, danzanti intorno al mio letto d'ospedale. E ancora Federica e Tahereh, senza uomini e senza soldi, che ubriacano di Uova sode la loro solitudine e lanciano le bucce giù dal ponte che congiunge Massawa e Taulud. Ci sono anime rinsecchite, come quell'anziana ricca e colta persiana che non ha più nulla per cui vivere se non l'organizzazione del più perfido Matrimonio d'amore. C'è La solita vecchia storia degli uomini che inventano malignità sulle donne, e quella più lontana che racconta Come muoiono le regine. Sole, come volete che muoiano: all'ora sesta, quando tutti muoiono. E poi vi racconto di una madre che non capisce, in Quelle della Qabila, e di una che s'innamora di Alex/Iskandar detto Alessandro Magno C'è una sola storia, in questa raccolta, che narra di una solitudine condivisa, tra un pirata e una principessa: l'Isola Verde esiste, potete cercarla in Eritrea, loro due li ho solo sognati. Infine: le donne di cui ho scritto non si fanno leggere impunemente e spero che un segno – più lieve o meno lieve – in voi lo lascino.
1. Ma i dittatori sognano isole sbagliate? - Libia/Eritrea
Deserto in arabo si dice Sahrā, in berbero Taneẓṛuft Tutrimt. Non sono parole antiche, è giovane questo deserto di Libia: se appoggi l'orecchio al suolo puoi quasi sentire scorrere le acque da cui nacque l'isola inversa di Tawergha. Su questa terra hanno regnato imperatori, mercanti, impavide guerriere e costruttori di sogni Quando al-Qadhdhafi visitò l'Eritrea, portando doni, io ero in mezzo alla folla che lo applaudiva all'arrivo all'Intercontinental – quell'hotel piuttosto pacchiano costruito per la visita di Hillary Clinton – e che poi lo seguì in processione adorante quando decise di trasferirsi all'Albergo Italia, di stile e costruzione nostrane. La frase che pronunciò, girando i tacchi di fronte al lusso che gli avevano predisposto, passò di bocca in bocca: «Se devo scegliere tra Italiani e Americani, preferisco gli Italiani». Era l'Eritrea che gli faceva questo effetto: ci si sentiva bene, gli pareva una Libia senza petrolio e senza cemento, senza una monarchia inventata, senza un mare troppo facile da attraversare, senza arabi e senza libici. Solo noi berberi e chissà quante cose abbiamo in comune con questi eritrei. Noi che siamo entrati nella storia qualcosa come cinquemila anni fa, che ben prima di Omero abbiamo scritto poesie su gusci d'uovo ed eravamo biondi più di Achille; noi che alle nostre donne abbiamo generato faraoni e guerrieri e sacerdoti e la magica Kahina, che nessun arabo riuscì a sconfiggere. «Noi siamo i canaglia, Isayas, e quindi sarà bene che andiamo da qualche parte a ubriacarci!» «Lascia perdere, Colonnello, se ci vede un giornalista di quelli giusti domani sul Post esce l'articolo che i dittatori gozzovigliano mentre il popolo muore. Andiamo piuttosto a bere un caffè alla Casa degli Italiani, c'è un gestore ch'è abbastanza vecchio per ricordarci da giovani.» Il cranio lucido di Debrezien, il gestore, splendeva di soddisfazione nel vederli arrivare, con quella sua faccia color castagna da croupier di battello a ruota, di quelli che scivolano lenti sul Mississippi. Si diresse verso di loro quasi correndo, con un sorriso che gli copriva tutta la faccia, poi si fermò di colpo davanti al Colonnello e si esibì in un perfetto saluto militare. «Che giorno felice è questo, per i miei occhi che ti vedono e per il mio Paese che ti ospita.» Declamò tutto d'un fiato e poi si volse verso il suo Presidente di cui conosceva tutto, e soprattutto gli incubi della notte, quando i guerriglieri dormivano tranquilli perché sapevano che Isayas vegliava su di loro. E lo abbracciò. «Grazie a te. Grazie a te.» Una donna che stava entrando fece un passo indietro e sputò, nascosta dal cancello, poi entrò camminando rasente al muro per non farsi notare. Debrezien, intanto, era in estasi, come tutti quelli che s'illudono di vedersi passare la storia a fianco e non hanno capito che la storia si fa sempre al di là dell'oceano. In questo s'assomigliavano, lui e quei due sognatori falliti. La Casa degli Italiani è un giardino di palme alternate a tavolini rotondi; ha pianta quadrangolare con un lato a cancellata, aperto sulla strada, mentre sugli altri tre si aprono porte: cucine, ristorante invernale, biblioteca, uffici e sala riunioni da cui uscì una donna, non giovane. Nel frattempo i due capi di Stato si erano seduti a un tavolino e Debrezien in piedi davanti a loro, sorridendo, e pareva che attendesse l'ordine di far avanzare un battaglione oppure di portare un macchiato freddo e un macchiato caldo. Con uno dei suoi tanti occhi da maestro di cerimonia, vide che la donna si stava dirigendo verso l'uscita ma quando le fece cenno di avvicinarsi lei si fermò, lo squadrò con un sorrisetto acido, che si trasformò in una smorfia quando lo sguardo le si posò su quei due vecchi che aspettavano il loro caffè. Girò la testa verso il muro prima di sputare, perché le guerrigliere sanno cos'è la creanza. Intanto il Colonnello, come gli accadeva sempre più spesso, aveva cominciato a sognare. Di essere, lui e Isayas, non già due decrepiti rancorosi ma ancora i giovani guerrieri che erano stati, di volta in volta adorati e temuti e rispettati e disprezzati; di essere con la vita davanti e non dietro, così indietro che non la si vedeva quasi più. Allungò una mano a scuotere Afewerki, che ormai s'imbambolava anche dopo avere bevuto un semplice caffè. «Forza Isayas, muoviti, dobbiamo andare a Massawa. Le macchine sono già fuori che aspettano.» Si alzarono e si osservarono l'un l'altro, per controllare che non ci fosse nulla fuori posto, come fanno tutti i vecchi quando sono abbastanza amici per prendersi cura l'uno dell'altro. L'attendente del Colonnello aspettava, con un accenno di sorriso ma rispettoso, per accompagnarli al fuoristrada dov'erano già in attesa due amazzoni. Sarebbero scesi a Massawa, percorrendo a gran velocità la strada costruita dagli Italiani, come la Via Balbia. Da quella si vede il mare, avrebbe pensato con un moto d'orgoglio il Colonnello, per correggersi subito dopo: sì, ma qui si sperimenta la vertigine. Non era la strada che gli interessava, però, bensì la meta verso cui era diretto da quando aveva deciso di visitare la nazione amica dell'Eritrea. Isola Verde di Shaikh Sayyid, Massawa, un sogno degno di lui. Ma intanto stavano ancora uscendo dalla Casa degli Italiani. Incrociarono una donna che invece stava entrando e si fecero da parte per lasciare spazio a quella povera semovente, che assomigliava alle due che avevano sputato, anche se lei girava in carrozzella e quelle due almeno camminavano. Isayas si cavò un nakfa da un taschino e glielo mise tra le mani, continuando ad ascoltare il Colonnello che parlava di sogni, come quasi sempre. Salirono in macchina, partirono, con due auto di scorta davanti e tre dietro. La donna intanto sputava e li malediva, Debrezien accorse trafelato. «Ma cosa c'è, Rosa, cos'è successo?» «Stronzo! Valgono un nakfa, le mie gambe?» Agitò un dito ossuto davanti al naso di Debrezien. «Per favore, non parlarmi più di rivoluzione.»
2.Se la chiami libertà - Libia
Fu così che mi accorsi di non avere capito nulla di ciò che stava accadendo in Libia. Era il 20 ottobre del 2012, primo anniversario dell'uccisione di Gheddafi, e mi trovavo in Libia da quattro mesi, convinta di vivere nel migliore dei mondi possibili: il popolo libico, superando le divisioni tribali e con l'appoggio del mondo, si era liberato dalla tirannia e si preparava ad affrontare un futuro radioso. L'Italia, che tanta parte della sua storia aveva legato all'Africa del nord, era impegnata in prima persona ad assistere gli amici libici nel percorso che avevano intrapreso, esempio di quella cooperazione scevra da vecchi interessi che il vento delle “primavere arabe” aveva spazzato via come foglie secche. Di questo ero convinta, giuro, a nulla essendo evidentemente serviti una maturità classica e una laurea in storia e filosofia. Fermamente decisa a dare il mio contributo, avevo chiesto di essere assegnata a Tripoli con la prospettiva di diffondere la conoscenza della nostra lingua e della nostra cultura. Giorni entusiasmanti: si passeggiava per la città liberata fotografando graffiti e murales resi misteriosi dall'utilizzo del berbero, lingua che ovviamente nessuno di noi conosceva; deprecando la trionfalistica architettura italiana del ventennio, mentre da tutto il mondo arrivavano fotografi a frotte per immortalarla e scambiando sorrisi con ragazzini armati fino ai denti da fare invidia a Rambo. La notte era piena di spari e delle voci salmodianti dei muezzin che Gheddafi aveva messo a tacere. «Che simpatici: non hanno fuochi artificiali e si arrangiano a festeggiare così la nuova libertà» ci dicevamo, ascoltando sereni e gioiosi le prime avvisaglie della guerra per bande che allora stava cominciando e oggi non è ancora finita. Un altro esempio? Chi non si occupa di cultura ma di realtà cerca di mettere in guardia. «Attenzione, non avete visto ancora niente. La Libia è un'altra cosa.» Mi guardo intorno mentre ascolto queste parole. Un'altra cosa? Certo! Sono circondata da donne libiche che parlano italiano oltre a qualche altra lingua: indossano con disinvoltura veli e foulard di copertura islamica e sono architette, cardiologhe, giornaliste. La responsabile della biblioteca mi guarda negli occhi, è quasi una sfida. «Ci sarebbe poi il progetto di catalogazione di tutto il patrimonio librario in Italiano, quello sopravvissuto alle distruzioni di Gheddafi.» «Non è ancora stato avviato?» «C'è un problema che non sappiamo come risolvere: considerata la quantità di materiale, ci servono almeno quattro catalogatrici per terminare il lavoro in tempi ragionevoli e tra quelle in servizio alla Biblioteca Nazionale, nessuna conosce l'Italiano al livello necessario.» «Nessun problema!» sbotto io, battendo le mani e sentendomi Belushi, ve lo ricordate? «Io sono stata insegnante di Italiano e in più ho il diploma di biblioteconomia. Che ne dite?» Le mie nuove amiche libiche si scambiano sguardi. «Ma...Costi molto?» «Scherzate? La diffusione della nostra lingua è uno dei nostri compiti istituzionali! Senza contare che per questo progetto lavorerei anche se me lo vietassero. Quando cominciamo?» «Quando vuoi: la sede sarà quella stessa della biblioteca, molto comoda per le lezioni pratiche, e le ragazze non vedono l'ora di cominciare. Abbiamo pensato a otto, se non ti dispiace, tutte già dipendenti del Ministero della Cultura.» «Facciamo così: lasciamo passare sabato e domenica perché vorrei andare a nuotare a Leptis, è da quando sono arrivata che desidero farlo.» Altri sguardi, questa volta anche sopracciglia che si sollevano, ma non ci bado. «Facciamo lunedì mattina, alle 9, in biblioteca? So dov'è.» Grazie al cielo, la Biblioteca Italiana non è ospitata in uno dei soliti edifici razionalisti che affollano le nostre ex-colonie: eleganti, niente da dire, ma decisamente troppi. Entro in una delle poche palazzine turche sopravvissute alle devastazioni italiane e gheddafiane: curve, colonnine, rientranze e porticati. L'aula, ahimè, non è stata ridipinta e ha mantenuto un colore verde squallido, appena mitigato da gigantografie delle biblioteche monumentali di Roma, un vero tocco di buon gusto. Le ragazze sono già al loro posto. Nomi, età, provenienza: tre sono di Tripoli, due vengono da Bengasi, una da Misurata e le ultime due, in primo banco, sono nate a Tawergha la città-oasi a sud di Misurata che, prima della morte di Gheddafi, ospitava prevalentemente africani sud-sahariani. Oggi è un deserto, mi hanno detto, la popolazione è stata cacciata e la città, il cui nome in berbero significa Isola Verde, è considerata un luogo maledetto. Devo essermi incantata perché una delle ragazze di Tripoli – si chiama Rosa, sì, Rosa – mi sta battendo su una spalla per attirare la mia attenzione. «Sì, Rosa, scusa.Dimmi, di cosa hai bisogno?» «Non vogliamo che quelle due negre siedano in prima fila» Quelle due, cosa? Non riesco nemmeno a parlare, come se per lo stupore mi si fosse bloccata la gola. Faccio segno di ripetere. «Quelle due! Non le vo-glia-mo! Sono negre! Puzzano.» Tripoli di Libia, ex colonia italiana. 3. Tawergha/Libia Il giorno in cui fu violentata, e poi uccisa e poi pianta e infine dimenticata come tutte, quel giorno Afra Shahryar era uscita di casa correndo e cercando di sistemarsi con la mano destra l'hejab mentre nella mano sinistra stringeva due metà di una pagnotta arrangiate intorno a un pezzo di frittata, malamente incartato con un foglio che probabilmente era il compito di inglese che avrebbe dovuto consegnare quella stessa mattina, se fosse riuscita ad arrivare a lezione. Era terribilmente in ritardo. Era sempre in ritardo. All'ora in cui lei usciva da casa, al mattino, tutti gli altri componenti della sua famiglia avevano probabilmente già raggiunto i vari luoghi di studio e di lavoro. Quando rientrava, la sera, avevano tutti terminato la cena, erano abituati a non aspettarla. La sera in cui fu violentata, e poi uccisa, nessuno fece caso al fatto che fosse così in ritardo. Le volevano bene ma si erano abituati a lei, così ognuno di loro si dedicò alle proprie occupazioni serali, senza chiedersi perché Afra non fosse ancora tornata. La madre di Afra era ingegnere – nella Libia di Gheddafi ingegneria e medicina erano studi ritenuti particolarmente indicati per le ragazze. Era una donna berbera che in gioventù era stata molto bella: fino a che le era stato possibile aveva rifiutato di coprire i lunghi capelli ramati che, insieme agli occhi verdi come sono verdi le foglie di palma subito dopo la pioggia, avevano fatto di lei una delle ragazze più corteggiate del villaggio. Allora, prima di trasferirsi a Tripoli per frequentare l'Università, vivere in un villaggio del Jebel Nafus poteva significare non avere il coraggio di uscire di casa da sola, non avere il coraggio di uscire dalla propria stanza, non avere il coraggio di guardare in faccia gli uomini della famiglia. Se. Se la prima notte in cui non eri più una bambina tuo padre e tuo fratello erano entrati nella stanza che dividevi con tua sorella, facendoti segno di tacere per non svegliarla e facendoti segno di scostare le coperte e facendoti segno di toglierti la camicia. Capita. Se l'ultima mattina in cui sei uscita tranquilla di casa, felice del vento e del sole e di te e dei tuoi capelli e dei tuoi occhi verdi, felice di portare i secchi al pozzo e di riempirli pensando a quante ragazze come te nella storia di quel tuo villaggio si erano specchiate in quell'acqua millenaria ma nessuna bella come te. «Nessuna bella come, Jamīla» sussurra troppo vicino e troppo acido l'alito di uno dei tuoi tanti zii. Se tutto accade in fretta, una mano ti tappa la bocca e la pietra del pozzo ti tortura la schiena, non basterà la vita a darti il coraggio di sciogliere i capelli al sole, di lasciare che il vento ti accarezzi il viso. Da quando esiste l'Università in Libia molte studentesse si presentano a lezione con il volto coperto. La maggior parte di loro ha il viso sfigurato, un padre o un fratello o un marito hanno provveduto a proteggerle dall'eccessiva bellezza.
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Autori di Writer Officina
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Sono nata a Padova nel 1955 e quindi ho raggiunto quest'anno la rispettabile età di settant'anni. Mi sono laureata in filosofia, con una tesi su Pietro d'Abano, e per una decina di anni ho insegnato in Italia. Dal 1991 al 2019 ho lavorato alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri, prima come Insegnante e successivamente come Addetto alla Promozione Culturale negli Istituti di Cultura. Ho svolto queste professioni in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Parlo bene il persiano e il greco, discretamente l'arabo e il russo. Dal 2019 vivo prevalentemente a Syros, nelle Cicladi, con mio marito, e da allora mi dedico come primo impegno alla scrittura e poi allo studio delle lingue, al giardinaggio e qualche volta anche ai lavori domestici. Ho iniziato a pubblicare varie cosette verso i vent'anni (racconti, poesie, articoli), le pubblicazioni più recenti sono: Dalla Russia alla Persia: storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023 (in collaborazione con mio marito, Dino Dal Molin); Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023. La raccolta di racconti Diversamente sole, ed. Open, è stata pubblicata il 7 giugno 2025.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Francesca Chiesa: In quinta elementare: avevo una maestra molto intelligente che un giorno mi ha consegnato una copia piuttosto malmessa de I Promessi Sposi, chiedendomi di farle una delle copertine che erano la mia specialità. Dopodiché mi raccomandò di restituire il libro il giorno dopo e di non leggerlo perché non era adatto a me. Potete immaginare il seguito: quel romanzo è diventato il punto di riferimento non solo mio ma anche di molti dei miei allievi.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Francesca Chiesa: Molti, in realtà, e tra questi il più incisivo è stato forse Il Maestro e Margherita, di Bulgakov.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Francesca Chiesa: Si, e devo dire che ho avuto subito riscontro da un editore di nicchia ma valido. Non ne ho saputo approfittare: allora lavoravo ancora e mentre il libro veniva pubblicato, io venivo assegnata a una nuova sede, in Libia. Sede molto impegnativa: partendo ho dimenticato tutto ciò che lasciavo, libro compreso. Non ho più avuto il coraggio di farmi viva con l'editore. Una volta in pensione, ho ricominciato tutto daccapo.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Francesca Chiesa: Certamente, da preferire alle case editrici tradizionali; entrambi i miei editori sono piccoli editori che pubblicano con KDP e toccano un mercato internazionale.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Francesca Chiesa: A quest'ultimo che ho inserito in biblioteca. Parla di donne e della loro solitudine: donne che vivono nei/rappresentano i Paesi in cui sono vissuta e ho lavorato. Mi è sembrato il modo migliore per raccontarli, al di là di uggiosi autobiografismi.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Francesca Chiesa: Dipende dal testo ma in ogni caso non mi piace molto lavorare su schemi. Per questo preferisco il racconto breve, il genere che credo mi sia più congeniale.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Francesca Chiesa: Completamente diverso, si tratta di un romanzo storico e mi sto divertendo molto a scriverlo.
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