Writer Officina
Autore: Martina Tognon
Titolo: Trama e Ordito
Genere Romance Fantasy
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Trama e Ordito
Snap.

Non aveva mai camminato con lo sguardo alto, incontro al mondo. Teneva il capo sempre chino, gli occhi fissi alla strada, se non addirittura alla punta delle proprie scarpe, per evitare qualsivoglia tipo di problema.
Odiava sé stessa, tanto per la mancanza di coraggio nel cercare una via diversa, quanto per la totale apatia nell'approcciare l'esistenza. Detestava soprattutto il mondo, che pareva forgiato per esserle nemico.
Anche quel giorno, come ogni accidente di volta in cui era costretta a uscire, non vedeva l'ora di tornare a casa. Aspettava con ansia il momento in cui sarebbe stata in pace: lei, le sue quattro pareti protettive e le tende tirate a chiudere tutto fuori.
Riconosceva ogni singolo centimetro del percorso pedonale che si srotolava sotto di lei. Le minuscole macchie e le crepe zigzaganti le erano familiari come il pavimento del proprio appartamento, perciò sapeva di essere a poche centinaia di metri dal portone. La necessità morbosa di superarlo e chiuderselo alle spalle diventava più forte a ogni passo.
Forse fu quello a distrarla.
Bramava la sicurezza del basso condominio dove abitava, del tutto focalizzata solo sulla destinazione da raggiungere, finì per essere presa alla sprovvista dallo scontro con qualcuno di non meglio identificato, che camminava in direzione opposta alla sua.
Con uno sbuffo infastidito, il colosso che l'aveva travolta accusò il colpo. Lei, al contrario, andò a finire con il sedere a terra. Le sfuggì un grugnito molto poco femminile ad accompagnare l'impatto contro il cemento. Serrò con forza gli occhi per non vedere ma la voce stentorea dell'uomo, proveniente da una distanza irrisoria, la distrasse.

“Tutto a posto, ragazzina?”

Ragazzina?

Di certo non aveva forme da maggiorata, mai avute, inoltre non si vestiva come una donna adulta ben inserita nel mondo del lavoro... ma da qui a essere chiamata così ce ne passava. Doveva capire in che direzione andare, quindi riaprì gli occhi e focalizzò di nuovo l'attenzione sulla propria necessità primaria: non guardare per non vedere.
Data la situazione meglio tagliare corto con la montagna di carne che l'aveva stesa.

“Sì. Sì, non ti preoccupare. Prendo fiato e mi rimetto in moto tra qualche secondo.”
“Ti aiuto.”

Una mano enorme entrò nel suo campo visivo e le palpebre calarono di nuovo. Rapidissime. Un riflesso condizionato vecchio quanto lei. Si sentì afferrare al polso e rimettere in piedi, il gesto non era costato alcuno sforzo alla presenza che aveva deciso di tormentarla quel giorno.
Riprese l'equilibrio il più in fretta possibile.

“Grazie. Ora vado.”

Si girò appena, prima di fidarsi a sbirciare a terra attraverso le ciglia e iniziare a muoversi. Non fece in tempo perché fu agganciata al braccio e trattenuta.

“Ehi. Davvero tutto a posto? Posso accompagnarti, tanto per essere tranquilli.”
“Sicura.”
“Non mi convinci. Vivi qui in zona?”
“Sto bene. Sì, vivo a pochi passi da qui, non mi può succedere nulla.”
“Senti, ragazzina, so di essere una montagna semovente. Sbattere contro di me non è piacevole. Non mi costa nulla fare quattro passi con te, anzi la mia coscienza di bravo cittadino penso gradirebbe.”
“NO!”

Il silenzio sembrò circondarli, come se ogni persona attorno a loro si fosse all'improvviso accorta di qualcosa di anomalo. Shamala cercò di liberare il braccio, ma le lunghe dita non si staccarono da lei.
Cosa voleva ottenere con quel comportamento?
Perché insisteva tanto?

“Hai dei problemi? Ti comporti in modo davvero strano, non so se preoccuparmi più per il volo che ti ho fatto fare o per come reagisci ora.”

Sospirò alle parole dell'uomo, cercò di raccogliere la forza per parlare e per poterlo fare con la calma che non aveva in sé.

“Sto bene. Davvero. Non ho problemi dovuti alla caduta, né ci sono situazioni particolari a casa. Sono una donna adulta, non una ragazzina. Lavoro, vivo sola e l'unica cosa che desidero è andare a riposarmi dopo una giornata pesante.”

Ecco, ammettere di non avere un coinquilino, di qualunque genere, non era stato un colpo geniale. Per quel che ne sapeva poteva essere nelle mani del nuovo Ted Bundy , anche se il paragone a livello fisico non reggeva.
Il giovane insistette ancora.
Sembrava non voler mollare prima di aver ricevuto una risposta, cosa che lei non desiderava concedergli.

“Perché non mi guardi? Non posso far paura a scatola chiusa, dovresti provare almeno a sbirciare.”
“Non darti tanta importanza, mi comporto con tutti allo stesso identico modo, non sei diverso dagli altri.”
“Cosa devi nascondere?”

Tentò ancora una volta di strapparsi alla stretta ferrea, seppure non eccessiva, ma non c'era modo. Non avrebbe potuto rispondere alla domanda in modo rapido e non aveva intenzione di spiegare sé stessa al primo sconosciuto che la faceva finire distesa a terra.
L'unico scopo del momento era trovare una via d'uscita da quella situazione assurda, da cui ogni fibra del suo essere desiderava scappare.

“Ascolta, è chiaro che sei un bravo ragazzo. Lo hai dimostrato in modo esemplare. Ti sei preoccupato per la sottoscritta, mi hai aiutato a rimettermi in piedi, con estrema gentilezza ti sei offerto di farmi da scorta. Però non mi serve nulla di tutto questo. Sto bene e gradirei davvero che tu mi liberassi, così che io possa arrivare prima possibile a casa, farmi una doccia e mettermi sul divano a leggere. Vedi? Programma di pieno relax. Quindi, te lo chiedo di nuovo e per favore, lasciami andare.”

Di solito la gente non voleva avere a che fare con persone strane come lei. Se mai si arrivava a un confronto durava poco e poi si davano alla fuga.
Quella era la peggiore giornata no che ricordasse di aver vissuto. L'uomo aveva deciso di ingaggiare con lei una discussione fin troppo lunga. Inoltre era entrato nel suo spazio personale e ancora ci restava, agganciato al braccio e convinto a non volerla lasciar andare.
Shamala non poteva immaginare cosa lui stesse per fare, un gesto mai tentato prima da nessuno dato che, di norma, gli interlocutori si allontanavano alla velocità della luce.

Tutto fu troppo rapido perché potesse reagire.

Le dita, che le afferrarono il mento per sollevarle il viso, agirono senza preavviso e non ebbe il tempo di chiudere gli occhi. Si trovò a fissare il volto della persona che le aveva stravolto la giornata e ne rimase in qualche modo ammaliata.
Capì subito perché l'avesse chiamata ragazzina. Era alto, almeno una ventina di centimetri più di lei, e largo quanto un armadio. In ogni caso non erano quelle le caratteristiche principali dell'uomo.
Gli occhi erano di un assurdo colore, indefinibile, tra l'azzurro e il verde, un miscuglio di entrambi o forse qualcosa di diverso che lei non riusciva a identificare. Anche i capelli sembravano sfidare ogni regola naturale. Sembrava impossibile capire se fossero biondi o rossi. Si trovò incapace di distogliere lo sguardo, troppo concentrata a esaminare ogni particolare, come se ne andasse della sua sanità mentale.
Dimentica di tutto, soprattutto delle proprie paure, continuava a studiare il giovane davanti a lei.
Le voglie sul lato sinistro del viso, il sorriso storto appena celato da labbra rosse e piene. Il leggero velo di barba che ombreggiava la mandibola, le ciglia abbassate a difendersi dal sole che esplodeva di luce nel cielo sopra di loro.

In quel preciso momento un suono fortissimo sembrò colpirla come un pugno allo sterno, improvviso e violento al punto da farla tremare. Una specie di snap, lo stesso rumore generato da un elastico rilasciato dopo essere stato teso al massimo. Il terreno sotto di lei sembrò vibrare in risposta alla bomba sonora.
Poi arrivò il senso di leggero peso al proprio polso, non un vero e proprio fastidio, ma sufficiente ad acuire il senso generale di disagio che provava oramai da parecchi minuti.
L'uomo non dava segno di lasciarla andare e Shamala alzò la mano libera fino a poggiargliela sulla spalla. Cercare di spingerlo lontano da sé poteva essere una buona idea e sarebbe riuscita ad analizzare meglio la natura della sensazione che continuava a percepire.

Stupore senza fine la invase alla vista del filo traslucido, senza colore alcuno eppure di tutti i colori del mondo, arrotolato e annodato a lei.
Il capogiro sembrò scuoterla come fosse stata in una centrifuga, le fece mancare il fiato e strinse lo stomaco in una morsa feroce. Sentì le ginocchia molli e le sembrò di scivolare verso il basso, come se la forza di gravità si fosse decuplicata solo nel preciso punto dove lei tentava, senza la minima possibilità di successo, di restare in piedi.
L'ultima cosa che percepì furono le braccia muscolose dell'uomo stese a sostenerla con delicatezza.


* * *


Aveva iniziato a camminare molto tardi rispetto agli altri bambini, cosa che aveva spinto i genitori a credere non fosse del tutto abile, soprattutto a fronte dei costanti capricci che inscenava per cercare di non uscire. Odiava lasciare la sicurezza del suo piccolo mondo.
Anche essere presa in braccio le creava enormi difficoltà e iniziava a scalciare come una disperata per liberarsi.
Tutti i medici consultati erano arrivati a considerarla come un severo caso di disturbo dello spettro autistico, meglio noto come Sindrome di Asperger.
Non sarebbe stato tragico... se fosse stata la diagnosi corretta. La realtà era ben diversa e talmente complicata che sarebbe stato impossibile spiegarla a chiunque. Anche un adulto con adeguata proprietà di linguaggio l'avrebbe trovato difficile, ancor di più lo era stato per una bimbetta, come era lei al tempo.

Aveva tre anni quando aveva confessato per la prima volta ai genitori la verità. Il terrore provocato da tutti i fili colorati che stavano ovunque, come una rete pronta a stringersi attorno a lei per imprigionarla. Non capiva cosa fossero, ma erano dappertutto. La paura di restarci ingarbugliata era incontrollabile e la spingeva spesso a violente crisi isteriche.
La madre, con toni poco gentili, le aveva annunciato che sarebbero andati da un dottore degli occhi. Il risultato era stato, come ovvio, un ennesimo nulla di fatto. I suoi occhi stavano benissimo ed era, ancora una volta, tutto riconducibile alla Sindrome di Asperger.
Dopo un altro paio di tentate richieste di aiuto, aveva smesso di chiedere. Perché farlo se la risposta non cambiava mai?

Si era chiusa sempre più in sé stessa, ma nonostante questo aveva ottenuto brillanti risultati accademici. I corsi non in presenza erano stati la sua salvezza. Aveva imparato più di una lingua straniera. Parlava con persone anche dall'altro capo del mondo con una naturalezza invidiabile.
Raramente in video. Riusciva a gestirlo, ma risultava spesso troppo disturbante.
Durante l'adolescenza aveva iniziato a cercare spiegazioni per conto proprio. C'erano decine e decine di miti che somigliavano alla sua quotidianità.
In Francia lo chiamavano fil rouge, e in altri paesi dell'Europa esprimevano il concetto in modo simile.
In Giappone c'era una vera e propria leggenda, originaria in realtà della Cina, secondo la quale le persone sono legate fin dalla nascita alla propria anima gemella.
Come?
Con un filo rosso che unisce il mignolo della mano sinistra dell'uno a quello dell'altra.
Ancora rosso.
Come per i francesi.

Il problema era che lei non vedeva fili rossi. Per lei il mondo era un enorme telaio. Gli esseri umani erano le ancore di decine e decine di fili multicolori, annodati e intrecciati a loro, come anemoni di mare attaccati allo scoglio.
Shamala vedeva la trama e l'ordito dell'immensa tela. Una rete formata da singoli filamenti che andavano e venivano da ogni persona. Alcuni brevi e robusti, come quelli tra madri e figli. Altri lunghi e quasi incolori, sparivano all'orizzonte verso amici quasi perduti.
Alcune persone erano circondate da cordicelle coloratissime che si spingevano via da loro in ogni direzione, come raggi verso l'infinito. Relazioni passate mai cancellate si affiancavano a relazioni pronte a costituirsi.

Lei assisteva, impossibilitata a fare altro, al dipanarsi costante della vita.

Due estranei per caso passavano uno accanto all'altro in un'affollata strada di città e all'improvviso nell'aria tra loro eccolo apparire: un nuovo filo dell'ordito del mondo si creava e si annodava agli ignari passanti.
A volte avrebbe voluto serrare gli occhi per non vedere, soprattutto quando incontrava linee oramai invisibili, che si spezzavano davanti a lei.

Nere come la notte nell'aria tersa del giorno.

Spesso si era trovata ad abbassare gli occhi sulle proprie mani indecisa se desiderare o meno che accadesse qualcosa.

Era l'unica in tutto il pianeta a non essere collegata a nessuno?
Quando avrebbe esalato l'ultimo respiro, non ci sarebbe stato nessuno a sentire il lieve strattone di quel misero ultimo legame spezzarsi?
Perché lei non aveva alcun filo che la intessesse al mondo?


* * *


Si svegliò con un feroce e pulsante mal di testa, nonché con una strana sensazione di confusione.
L'odore attorno a sé non le ricordava di certo quello di casa. Si mosse appena e si rese conto di essere in un letto. Sfiorò le coperte e il cuscino senza aprire gli occhi. Al tatto sembravano le sue cose. Tese la mano verso il comodino e intercettò senza problemi l'interruttore della piccola lampada che aveva comprato appena preso in affitto l'appartamento. Primo oggetto scelto per decorare il piccolo angolo di mondo che la proteggeva.
Il buio avrebbe dovuto farla sentire più tranquilla, dato che le impediva di vedere i filamenti colorati. Invece lo odiava. Preferiva di gran lunga sopportare la realtà, che ignorare cosa ci fosse intorno a lei.

Se quella era la sua camera, perché il naso le diceva tutt'altro?

Sollevò appena le palpebre e inquadrò il soffitto. Altro segno rassicurante, il lampadario lo conosceva bene. Bianchissimo e con una marea di pois blu di varie dimensioni.
Richiuse gli occhi e cercò di focalizzare qualche ricordo delle ore precedenti. Il dolore al fondoschiena le riportò alla mente la caduta molto poco signorile. Un attimo dopo ricordò l'uomo che l'aveva urtata e tutto quanto ne era seguito.
Scattò a sedere e spalancò gli occhi.

Come era arrivata a casa?
Come era entrata?

Il ricordo successivo le strappò l'aria dai polmoni e strinse il cuore in una morsa violenta. Lo sguardo scese sul polso per controllare se l'incubo fosse vero o meno.
No, non era stato un sogno a occhi aperti.
Tra tutti i fili che le era capitato di vedere nella vita, nessuno somigliava neppure vagamente a quello attorcigliato a lei. Non aveva alcun colore eppure li aveva tutti, era assurdo.
Cercò di toglierlo, spingerlo, strapparlo, farlo scivolare via lungo la mano, ma sembrava essersi fuso con la pelle.
Era diventato parte di lei e non se sarebbe potuta liberare.
Fu istintivo seguirne la sottile linea, anche se si pentì subito di averlo fatto. Il legame, invisibile a chiunque, si allontanava da lei per finire legato al polso del gigante che l'aveva stesa e che ora le dormiva accanto.
Beato.
Con nessuna preoccupazione a scuoterlo, rilassato nel sonno.
Ecco perché non riconosceva l'odore della casa, il profumo delle lenzuola, del diffusore alla lavanda sulla scrivania contro la parete e perfino quello delle mura si era mescolato con quello del dopobarba dell'uomo.
Aveva invaso la stanza con la stessa apparente noncuranza con cui era riuscito a farla volare per aria e darle il suo primo legame in ventisei anni di vita.
Martina Tognon
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Autori di Writer Officina

Martina Tognon
Sono nata, e cresciuta, in provincia di Gorizia. La mia famiglia è stata per lungo tempo mono genitoriale, con una netta prevalenza femminile. Questa realtà ha forgiato buona parte del mio modo di vedere i legami interpersonali. Alle mie spalle ho un percorso di studi tecnico scientifico, che non mi ha impedito di sviluppare un profondo interesse per tutto ciò che è manifestazione artistica. Ho imparato negli anni a bilanciare le due parti di me. Oltre a scrivere, e ovviamente leggere, ricamo, creo oggetti per la casa (che siano piccoli armadi o altro dipende anche dalle necessità domestiche) lasciando libera la mia creatività.
Non ho potuto proseguire gli studi fino alla laurea, per motivi meramente economici. Se avessi potuto scegliere avrei con molta probabilità puntato su qualcosa di molto distante da quello che avevo studiato fino alle superiori, il mio sogno di bambina è sempre stato l'archeologia.
Vivo con mio fratello per scelta, perché la famiglia conta.
Ho un compagno in un'altra regione, da ben 22 anni camminiamo insieme in questo amore pendolare pieno di significati e vita.
Non penso al futuro, ho imparato che gli imprevisti comunque arrivano, la vita è adattamento e crescita.

Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorta di aver sviluppato la passione per la letteratura?

Martina Tognon: Da quando mi hanno messo un libro in mano. Io ho iniziato a inventare storie prima che sapessi leggere. Cosa che ho iniziato a fare prima dei tre anni. Da lì non mi sono più fermata.

Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?

Martina Tognon: Sono una lettrice onnivora, ho 53 anni e leggo da 50. Prendere un libro e farne il punto di partenza è davvero limitante per me.
In realtà scrivo da sempre, per me stessa, e pubblico solo perché un caro amico mi ha praticamente obbligato. Ho iniziato a scrivere per leggere cose che non trovavo scritte. Ho lasciato tutto nei cassetti per anni e ancora oggi penso di non essere una scrittrice perché pubblico. Lo sono perché non posso fare a meno di scrivere.

Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?

Martina Tognon: Ho scelto la strada del self da subito, poi ho provato le CE un paio di volte, con nessun riscontro. Ho capito che il mio modo di scrivere non è facilmente vendibile, non risponde alle attuali richieste del mercato e questo implicherebbe doverci lavorare troppo perché possa essere remunerativo.

Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?

Martina Tognon: La definirei un'opportunità. Non buona né pessima. Dipende da quanto tempo una persona ha davvero da dedicare al proprio sogno. Resta un mondo complicato, mi si dice fosse più facile in precedenza. Non lo so, sono arrivata con la seconda ondata.
Deve essere chiaro che si diventa editori di sé stessi, quello che farebbe un editore, lo si deve fare da soli.
Dall'editing, alla cover e alla pubblicità.

Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionata? Puoi raccontarci di cosa tratta?

Martina Tognon: A quello che forse ha venduto di meno in assoluto. 24 (+1) Appuntamenti a Shanghai. Si tratta di un romance MM che trovo il mio migliore libro ad oggi. Per l'idea, per i personaggi, per il ritmo della narrazione e l'evoluzione della storia.
Lo amo per parecchi motivi, soprattutto perché è nato da un colloquio costante con una carissima amica che risiede, lavora e vive a Shanghai. Ho usato vive come ultimo verbo perché è quello che mi ha aiutato a far trasparire dalle pagine... I due ragazzi avranno 24 appuntamenti nell'arco di dodici mesi e tutte le location sono reali. Uno spaccato di vita vera in una megalopoli cinese.
Ho il timore che non venda proprio perché c'è stata la pandemia, perché sono i cinesi... brut****** non finisco la frase.
Io non scrivo per mode, ho scritto questo libro perché ne avevo bisogno io, evidentemente i pregiudizi vincono anche in questo caso.

Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?

Martina Tognon: Traccio i personaggi iniziali. Stendo lo schema dei capitoli (titolo e breve sunto di cosa ci sarà scritto) e poi vado.
Purtroppo, come spesso dico alle amiche che mi sopportano, a volte io divento la ghost writer dei miei personaggi. Per essere chiara, il 14 giugno avrei dovuto terminare la prima stesura di un testo (che ora resterà a maturare nel mio cloud per un mesetto almeno), ma domenica 15 giugno mi sono svegliata con la ferma convinzione che servisse un altro capitolo.
Hanno vinto i personaggi.

Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?

Martina Tognon: Ho appena terminato una prima stesura, che sarà pubblicata con uno pseudonimo. Trovo davvero assurdo che ad oggi, 2025, una donna debba essere costretta a nascondersi se vuole scrivere certe tipologie di libri senza finire vittima di attenzioni spiacevoli.
Il grosso delle mie amiche/conoscenti che scrivono, se vogliono trattare tematiche particolari devono farlo con un nome d'arte. Così devo fare anche io.
La massiccia presenza di donne che scrivono MM ha sdoganato la presenza femminile in quel genere. Non sempre penso sia positivo perché a volte temo ci sia poca capacità di sviscerare la realtà di un personaggio maschile.
Però restano gli erotici, soprattutto se BDSM e, per paradosso, gli FF.
Sembra scontato che una donna possa scrivere MM, ma le tematiche lesbo dovrebbero esserle vietate.
Chiaramente non posso rivelare dettagli della trama o del genere, perché sarebbe come rivelare il nome d'arte.
Posso dire che ho in mente una trilogia, tre gemelli monozigoti, che svilupperà su FM, MM, FM. Ed un altro FM un po' particolare, analizzerò la realtà di un uomo oggetto... o se preferite di un uomo nel ruolo di mantenuto.
Niente sugar daddy, ma una sugar mommy.
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