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Welschtiroler
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Una famiglia trentina nella Grande Guerra.
Le baracche di Braunau erano scure macchie di eternità. Basse, col tetto appena spiovente, assi piatte di legno, larghe e pesanti. Piallate grossolanamente, facevano emergere schegge che ferivano la pelle e pungevano i pensieri. Erano accostate alla grossa, con qualche fessura. Lungo le pareti si potevano trovare buchi dai quali spiare se non erano troppo alti. Dall'esterno si vedeva poco o niente: un'oscurità da dimenticare, ma da dentro scorgevi il fuori grigio dello scorrere del tempo, da un angolo all'altro del campo di visuale, lo spiffero freddo che ti colpiva la pupilla e il cuore. Lui non aveva mai visto case così lunghe. Assomigliavano alla segheria veneziana dei Mein col ruscello che passava di lato e i pini tutto intorno, oppure alla malga Cornetto, dove la stalla era una costruzione bassa con finestrelle allineate, ma era un'unica baracca. Qui le case erano ancora più lunghe, una in fila all'altra, in un ordine perfetto tutto tedesco; coprivano un'enorme spianata, si aprivano su corridoi diritti di strade fangose, che facevano il paesaggio pieno di nulla, vuoto e uguale. Si poteva perdersi e non volere più ritrovarsi. A San Sebastiano le spianate non esistevano. E se c'erano, erano piccole e piene di dossi, sempre in pendio, ricche di erba di un verde sfolgorante, dove il vento correva e che la pioggia faceva crescere e brillare. Quando era alta nessuno la doveva calpestare. Questo lui l'aveva imparato presto. L'erba piegata non si poteva tagliare con la lama, era inutilizzabile. Se era stata strappata diventava gialla e secca. Quella buona serviva per far mangiare le mucche o le capre. Doveva diventare fieno per l'inverno. Si andava fino agli alpeggi per segare l'erba e portarla alla stalla, a mano, nel linzol, oppure nella gerla a spalla o col broz, il carretto a due ruote. Se volevi camminare, dovevi farlo ai limiti del prato, rispettando i sentieri stretti che si creavano tra le colture: il fieno, l'orzo, le patate. Chi non possedeva la terra, se ne partiva con le greggi prima dell'in-verno e stava lontano viaggiando fino alla pianura, dove dice-vano che l'erba fosse verde anche d'inverno. I pastori tornavano per la primavera, un po' cambiati, un po' cresciuti. Lui ne aveva sentito i racconti, ma se avesse dovuto scegliere sarebbe rimasto tra il verde del suo altopiano, come infatti era avvenuto, dove i contadini da soli in mezzo al pendio, tagliavano i prati con la falce in un movimento ritmico, sempre uguale sempre diverso, un po' più alto, un po' più basso, un po' debole, un po' forte. Si fermavano a togliere la pietra cote bagnata d'acqua dal corno che portavano legato alla cintura e affilavano la lunga e pericolosa lama prima di riprendere un movimento lontano secoli. La montagna invadeva il paese, il gruppo della Vigolana all'orizzonte diceva in quale stagione stava scorrendo il tempo e il torrente Astico scavalcava i sassi con l'acqua sempre gelida, che non finiva mai di scorrere. Potevi accostarti e accucciarti con attenzione sui sassi; sotto i tronchi dritti di cortecce irregolari, con le mani a coppa, sorseggiare il limpido che gorgogliando veniva freddo di lontano, ascoltando i suoni del vento tra le cime degli abeti, respirando il profumo della resina. Che poteva esserci di più bello? Ogni fruscio lui lo conosceva, qualche ramo spaccato, il cinguettio degli uccelli, il balenare di un capriolo. Tutto questo ora era lontano, perso, dentro la nostalgia del ritorno. C'era un grosso sasso di arenaria, arrivato forse dall'Inn e rimasto fuori dalla porta della baracca. Si sedeva lì sopra, ogni tanto, con negli occhi i suoi ricordi di bambino. Vedeva intorno il grigio. La terra scura di polvere e fango, il cielo bianco, il sole che occhieggiava tra le nuvole. Fissava lo sguardo. Nessuno faceva caso a lui. Aveva imparato a piangere senza farsi notare. Il viso bagnato, poteva essere pioggia o acqua che aveva bevuto, piangeva senza sussulti. Le lacrime erano come l'onda di un lago senza vento, ferma e piatta, quella del lago di Lavarone. Poi si distraeva, vedendo altri ragazzi che correvano in giro. Qualcuno lo conosceva. Erano di Folgaria come lui, ma più grandi, leggeva nei loro occhi una sorta di lontananza che poteva avere la sfumatura del disprezzo. Loro facevano cose che a lui non erano permesse, però avrebbe potuto impararle. Diventare grande era una speranza, quando si guardava le mani. Ma anche se lo fosse divenuto in fretta, loro sarebbero stati sempre avanti a lui. Vedeva i loro giochi, le corse tra le baracche. Si divertivano. Anche in quel luogo avevano trovato il modo di sopravvivere, di sommare il giorno con il giorno. Lui era tra i piccoli, non proprio piccolissimi, non avrebbe dovuto provare invidia. Alla loro età avrebbe fatto le stesse cose. Ora doveva restare nel raggio di visuale di sua madre. Finché un giorno accadde ciò che avrebbe voluto accadesse e a cui pensava con un certo timore. Un ragazzo gli si avvicinò e si fermò davanti al suo sasso. Lui aveva impiegati minuti a issarsi seduto sulla pietra levigata, l'altro vi si appoggiò dal lato opposto e in un attimo vi fu sopra. Toccava anche in terra con i piedi. Attese. Era un silenzio che prima o poi l'estraneo avrebbe infranto, anche se si davano la schiena. Era scuro di pelle come chi ha preso il sole da quando è nato, i capelli rasati per combattere i pidocchi senza lavarsi. Solo le femmine si potevano permettere lunghi capelli di trecce o code legate. Si domandava in quale lingua avrebbe parlato. Il tedesco dell'impero o l'italiano dell'anima? In quel modo avrebbe capito subito. L'altro si voltò e gli fece un sorriso, mostrando i buchi di denti che dovevano crescere. Non era poi tanto più grande di lui. - Come ti chiami? - Sorrise anche lui: aveva parlato in italiano. - Mi chiamo Giuseppe. - - E io Gino. Sono di Lavarone e tu? - - Di San Sebastiano. - - Ecco perché non ti ho mai visto. Noi abbiamo fatto una banda, voi essere dei nostri? - Giuseppe non era tanto convinto. Si sentì piccolo. Lo guardò in faccia. Le mani di sua madre erano dure e quando colpivano facevano male, ma lui era un maschio, avrebbe potuto dimostrarsi forte e coraggioso. Lasciò da parte i timori e le titubanze. - Davvero? E cosa si fa? - - Ci aiutiamo tra noi, facciamo giochi, ma anche dispetti a chi li merita... - - E se vi scoprono? - - Scappiamo, tendiamo trappole... Non hanno tempo per badare a noi. Se vuoi essere dei nostri devi giurare che non ci tra-dirai. Subito dopo la distribuzione del pranzo, mentre i grandi sono nelle baracche. Ti aspettiamo. - - Ci sarò. - Il ragazzo si era già allontanato e lui restò di nuovo a contemplare il cielo e a pensare altrove. Aveva fatto bene? O si era cacciato in un guaio? Si rinfrancò pensando che non aveva fatto an-cora niente. Poteva sempre non andare. Il pranzo veniva portato dalla baracca numero otto adibita a cucina. Le donne, tra cui sua madre, trascinavano i carretti, ma se c'era fango portavano a mano i pentoloni. Quando arrivavano la zuppa era quasi fredda. Nessuno, però si doveva lamentare. L'impero aveva voluto così per salvarli dalla guerra. Il paese era sul fronte. Dunque, si doveva essere riconoscenti. Lettere, parole, discorsi, erano sotto-posti alla censura. Lamentarsi non era un diritto. Si potevano piangere lacrime calme come l'acqua del lago di Lavarone, senza guardare in faccia nessuno. Restare, mangiare, obbedire. Tutto era iniziato qualche mese prima, nell'estate del 1914. I messaggeri di Francesco Giuseppe avevano affisso l'editto imperiale in tedesco e in italiano nella piazza, avevano consegnato lettere: la mobilitazione di tutti gli uomini dai ventuno ai quarantadue anni era iniziata. L'impero era in guerra. Lo sapevano tutti che l'erede al trono era stato ucciso a Sarajevo con sua moglie, ma quella era una scusa come un'altra. Il grande impero sentiva franare la terra sotto i piedi e tentava di trovare un'impossibile soluzione. La guerra. L'aria era già satura di decisioni non ancora prese, ma inevitabili.
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Mi chiamo Ivana Tomasetti, sono nata a Trento, in un quartiere dove tutti i ragazzi si conoscevano e si trovavano nei giardini delle case a giocare per pomeriggi interi. La mia scuola elementare aveva una sezione maschile e una femminile, cosa oggi impensabile! Tutti indossavamo un grembiulino nero con un fiocco, quello della mia classe era blu. Da grande sono diventata un'insegnante tenendo presente tutto quello che avevo vissuto e che sarebbe dovuto cambiare. Ho incontrato mio marito in un Capodanno in montagna e non ci siamo più lasciati. Sono stata docente di Lettere per quarant'anni, dapprima nella scuola primaria, in seguito in quella secondaria di primo grado. Oggi seguo le mie passioni, leggere, scrivere, studiare. Vivo a San Martino in Strada vicino a Lodi..Risposta 800 caratteri
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorta di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Ivana Tomasetti: Forse ero alle elementari, insieme a mia sorella avevamo inventato la storia di una famiglia di gattini, ma tutto è rimasto dentro un cassetto per molti anni.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Ivana Tomasetti: Un esempio l'ho avuto da un libro che ai miei tempi tutti leggevano: Piccole donne. La figura di Jo che vuole fare la scrittrice e che racconta la vita della sua famiglia mi ha molto colpita e ne sono rimasta ammirata.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Ivana Tomasetti: Il mio primo libro l'ho inviato a diverse case editrici e sono incappata in una a pagamento (L'unica che ha risposto). A quei tempi non esisteva internet, io ero totalmente inesperta e mio marito mi ha sovvenzionata. Ne ho venduta una copia ad un libraio. Avere i soldi in mano mi è sembrata un'esperienza incredibile! Si chiamava “Dove cercare l'arcobaleno”, il diario di un viaggio in motocicletta a Capo Nord.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Ivana Tomasetti: Dopo la mia esperienza, ritengo che uno scrittore debba affidarsi ad una casa editrice che gli possa offrire servizi certi per pubblicare un buon prodotto. Non conosco le modalità di pubblicazione in Amazon, forse può essere una buona opportunità, ma secondo me lo scrittore dovrebbe poter fare solo lo scrittore, non anche l'editor, l'impaginatore, il promotore, forse i tempi stanno cambiando, e uno deve diventare l'imprenditore di se stesso, ma per me è troppo stressante. Piuttosto preferisco scrivere anche solo per me stessa, senza velleità di pubblicazione.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Ivana Tomasetti: L'ultimo nato è sempre il più amato, anche se non dovrebbe essere così, ma la scrittura è prodotto di maturazione, perciò, più si va avanti più si dovrebbe migliorare (almeno in teoria). Il mio ultimo scritto ha per titolo Welschtiroler(editore Ciesse): è la storia vera di una famiglia trentina che come tante altre viene allontanata dalla sua casa allo scoppio della prima guerra mondiale perché abita in territorio austriaco, sul confine con l'Italia. Padre e madre col figlio piccolo(mio padre) si rivedranno solo nel 1920 dopo molteplici sofferenze. Prima di questo ho pubblicato con un altro editore (Terre Sommerse) Identità alla sbarra: la storia incredibile di una donna che visse a Lisbona sotto l'identità di un generale ingannando tutti.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Ivana Tomasetti: Preparare un libro è come preparare una lezione: un foglio per prendere appunti sommari, man mano che la storia si svolge scrivo approfondimenti che mi portano anche dove non avevo previsto. È un'avventura!
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Ivana Tomasetti: Ora sto finendo un'altra storia, sempre nel genere storico. Il mio protagonista è un legionario romano al seguito di Cesare in Gallia, naturalmente l'impianto storico è reale.
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