Writer Officina
Autore: Roberto Maggi
Titolo: Gli Accordi Spezzati
Genere Narrativa
Lettori 3144 249 32 recensione
Gli Accordi Spezzati
Album Oro
Brano I – Morning Ballad
Ricomincia l'ennesima fuga, l'ennesimo abbandono di un luogo temporaneo, un altro viaggio con destinazione ignota. Le trascurate case del piccolo borgo incastonato nella valle, il loro intonaco scrostato di pallido miele, già appartengono al passato, codificate e appallottolate in un angolo invisitabile del ricordo, sequestrate in una camera blindata del cervello. Desideri inconsci non le richiameranno, non le decodificheranno, la volontà di cancellazione, come sempre, sarà ferma determinazione inscalfibile. Come in un sonno senza sogni, incapaci di rivelarsi attingendo ai depositi più reconditi della psiche. Fotografie di un altro paesaggio indecoroso ridotte in cenere, così come meritano i trascorsi condotti secondo vie obbligate. Non si perdeva niente, perché niente c'era da perdere né niente da guadagnare. Solo l'esigenza di una ricerca urgente e indefinibile contava, rapiva, smuoveva, una smania di perlustrazione che conducesse alla terra ritrovata, ammesso fosse mai esistita; tutti i fiumiciattoli melmosi che la vita si ostinava a far confluire ai suoi piedi non significavano nulla, era solo feccia spurgata dall'esperienza. D'altronde, cosa avrebbe potuto rimpiangere? I fumi nauseabondi di quella lurida bettola, i comandi brutali, i doveri come muti sacchi sulla schiena? No, via, bisognava spazzare via tutto anche stavolta, decorticare la posa schiumosa affastellata sulla coscienza, rendere vergini le matrici trascritte da un'esistenza ridondante, reiterata, amorfa. E poi quegli sguardi sempre addosso, quelle battute idiote, quell'odore fetido. Meschinità e volgarità, urla arroganti, dopobarba vomitevoli: ben poco da immortalare sull'album dei ricordi.
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Brano III – Quel che resta del tempo
I battiti accelerati del cuore riportano la mente al momento presente. L'ansia recata dai sogni accavallati e vividi poco a poco dilegua, ma lascia un amaro strascico in bocca. Era sicura che mai quelle scene sarebbero riemerse, era sicura di tener a bada ogni richiamo con un netto, involontario processo di rimozione. Le eruzioni inconsce si sono dimostrate più forti, soffi onirici capaci di raggomitolare tutto un passato in pochi minuti. Ma ora farà di tutto per ricacciarli negli inferi, nuovamente resettare la sua scatola cranica, renderla una tabula rasa.
Fa una lunga doccia, la fronte puntata verso il getto caldo, come a tirar via le sedimentazioni del passato incollate sulla pelle, disciogliendole nei rivi di sapone, una pioggia ristoratrice che la lava non solo esteriormente. I capelli ripuliti riacquisiscono il loro volume ampio, la loro luce dorata, li asciuga al sole tiepido affacciata alla finestra. Lungo la vallata, si scorge un infoltito movimento, nel punto dove stanziava quella stramba carovana, molta gente si va radunando nella conca.
Si veste senza fretta, meditando sul contenuto piuttosto modesto del suo bagaglio, e stavolta, no, lascia stare il chiodo appeso dietro la porta, rinuncia agli indumenti oversize sotto e sopra: dopo tanto tempo indossa un vestitino color pesca, per quanto non impeccabile nella stiratura, mostrando la fresca pelle rosata, esibendo una bellezza viva, rigogliosa, ancora non sfiorita. Neanche si domanda il perché di questa scelta: da tanto nasconde la sua femminilità esuberante, mimetizzandosi in svasati pantaloni, raccogliendo i lunghi capelli mossi sotto berretti maschili, evitando di risaltare le sue forme. Quasi detestando quelle curve voluttuose, la causa primaria di tante sciagure.
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Album Platino
Brano I – Morning Blues
Più tardi. Esco a prendere aria. È da tempo che cerco di prenderne. Che anelo a respirare, evadendo da un'apnea forzata, nella stremante solitudine di un palombaro vagante in fosse oceaniche. Strascicando, palla e catena appesa al collo, più tiri più vai in affanno. Uno spettro tra la massa senza volto. Dolce Patrizia, canto disperato, inno dannato, vienimi incontro, appari dietro l'angolo. Un pensiero trabocchetto, una richiesta di un illuso, solo serve a dare sfogo a un sogno incorporeo, a soddisfare un desiderio inappagato, come nube accattivante che oltrepassi i caseggiati senza nome. Che prometta folate capaci di poterti raggiungere, nelle tue sale piene di sculture, di creazioni estrose. Tu che in questo momento chissà dove starai girando, chi delizierai ridendo, di chi stringerai la mano, il solo pensiero fa ribollire il motore di avversione verso un rivale immaginario, io che ero geloso persino del tuo passato, dei tuoi trascorsi carichi di assaggi precoci, invidiando tutti coloro che ti avevano assaporato nei tuoi anni più verdi; appunto, tutto ciò non ha senso, già il miser Catulle lo aveva cantato chiaro. Niente ha senso. Sono pazzo. Malato. No, semplicemente divorato dall'impotenza d'un amore fallito, quindi malato. Ecco l'espressione corretta. È leggermente più consolante, ma non di tanto.
Tornato o a casa, troverai un suo messaggio in segreteria. Scosterai la porta, circospetto, sbircerai il display rosso, lampeggeranno cifre a segno positivo. Divori le scale, la mente ti precorre in proiezione, apri in affanno, ti affacci in salotto e... Doppio zero. Ma è ovvio, zuccone, è tutto così ovvio, logico, prevedibile, sono le regole del buon senso. A cui non vuoi arrenderti, a cui opponi ogni sorta di rimedio superstizioso. Invece succede, è così, è la realtà. La realtà, capisci? ..........
Ma io amo l'imprevedibile, ragazzi, è questo che mi rapisce, che mi conquista, la sterzata violenta che ti fa andare fuori strada, il temporale improvviso che ti inonda di pioggia acida.
Perché non può succedere l'imprevedibile? Rientri, ascolti una voce sbobinata che dice, Ciao..sono io..volevo.., meraviglioso! Non può accadere. Evidentemente. C'è sempre un altro Ciao..sono..., mai quello che vorresti sentire. Chi se ne frega di chi sei. Non sei lei.
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Album Argento
Brano I – Morning Rhapsody
Con l'andare dei minuti, i raggi del sole si adagiano piacevolmente sulla pelle sfregiata da corrosive vicissitudini, rendendo vividi i lati tomentosi delle foglie, mitigando la mutevolezza dei movimenti atmosferici. I gesti sono pacati, misurati, assolutamente privi di fretta. Non può esserci fretta quando non devi andare da nessuna parte, quando la tua strada non prevede altra meta. D'intorno, i picchi delle montagne più alte si stagliano con il loro contrastante biancore, coperti di manti immacolati di neve. Al di sopra, nubi filiformi si sfilacciano in nervature striate, creando innesti di tonalità sfumate. Uno spettacolo mozzafiato, di dolorosa bellezza, capace di colmarti di commozione estetica, ma inefficace ad innescare principi d'incendio in un cuore ormai gelido, ghiacciato nell'estasi come le creste di vetro azzurrato. Guardi quelle fedeli, algide compagne senza più partecipazione emotiva, come avulso da un sostegno disgregato nel tempo, inghiottito da una fiducia tradita, nello sfogliare svogliato di un volume ripieno di appunti: un coacervo di frasi sconnesse, di pensieri abbozzati, di poesie interrotte. Non ne scriverai più, saranno le ultime righe di una storia senza epilogo.
Chiudi il volume quasi nauseato da quei geroglifici informi, ridicoli, disseminati in stralci disordinati e caotici, spezzoni ora obliqui ora sfilacciati in righe curvilinee, spesso sbaffati in macchie raggrumate, e il guardo volgi a dei rapaci che ti sorvolano gridando, forse ghignando, consapevoli di aver individuato un bersaglio interessante, difficilmente li inganna il loro selvatico istinto. Con la mano bene aperta, il dorso ricoperto di macchioline diffuse, di vene ispessite tra appariscenti grinze, li saluti in uno scambio di cordialità benevola. La terra non è nostra, niente ci autorizza a possederla, è necessario condividere, suddividere la torta, esser parti eque di un insieme comprendente, anche se la natura se ne sbatte di dotte congetture, anche se finirai per essere un semplice mangime nel ciclo alimentare. Accendi il fornello da campeggio regolandone la fiamma bluastra e incostante, svuoti il contenuto di una scatola sul tegame, prepari una zuppa fumante. Intanto bevi un sorso di vino sanguigno da una borraccia scrostata. Mangi controvoglia, con l'unico conforto di un calore infuso che riscalda le membra intirizzite, senza potersi addentrare negli strati surgelati dell'interiore. Un'altra sorsata invade le papille, il sapore asprigno intenerisce i legami della mente, ammorbidisce il corpo in contrazione, allentando i vincoli induriti di sovrastrutture arcaiche.
Roberto Maggi
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Andrea Bassato
Gli Accordi Spezzati - Roberto Maggi
Nuova fatica letteraria per Roberto Maggi, scrittore ormai consolidato e giunto alla sua quarta prova con questo “Gli accordi spezzati”, ed. Bastogi, fresco di stampa.
Non è un'opera di immediata o facile lettura; c'è bisogno di qualche pagina per entrare nello spirito che lo anima e nel linguaggio con cui è costruita. Non ci sono appigli a tutto tondo, in termini di vicenda e personaggi, cui aggrapparsi subito come riferimenti. Ma gradualmente le cose vanno mettendosi a fuoco, pur restando una intenzionale ambiguità che conferisce alla narrazione plurimi significati e piani di lettura e in cui i personaggi sono contemporaneamente se stessi e molteplici versioni o emanazioni di se stessi. L'idea di fondo e l'impianto che sorreggono questo atipico romanzo sono interessanti. Il protagonista è un personaggio moderno, con i tormenti della contemporaneità, in fuga da tutto, non si sa bene fino in fondo per quali precise motivazioni. Tra le righe (ed è positivo che queste motivazioni, in questo caso specifico, restino vaghe) sembra di cogliere che la causa scatenante sia una delusione sentimentale, benché più dovuta ad un languore da stanchezza che da una rottura traumatica a tinte fosche da eroe romantico, foscoliano. O forse il musicista inquieto ha dovuto o voluto scegliere il suo talento, perdendo la sua amata. La ritroverà?
Intanto lei riemerge, qua e là, nei ricordi, nei pensieri, nei sogni, nelle visioni, nei ragionamenti. I due sembrano percorrere strade separate, sempre sul punto di riannodarsi, ma poi si scopre che i momenti di condivisione sono frammenti di scarti temporali del passato, o proiezioni di desideri futuri, di speranze vane, di illusioni e delusioni.
Par di capire che le montagne siano il luogo del viaggio intrapreso alla ricerca di se stessi, forse un luogo comune del passato vissuto insieme, una salita in solitaria che è anche metaforica di un raccoglimento interiore in spazi silenziosi, che favoriscono il ripiegamento, la riflessione, l'esame di coscienza, il tratteggio dei bilanci. Sono luoghi di ascetica essenzialità, in cui il tempo sembra cristallizzarsi, favorendo il soliloquio interiore, un ritorno agli elementi primari, sganciati dalle futilità del contingente, dagli impegni tutti pratici e grigi del quotidiano.
A questo proposito, appare sensato ed appropriato l'adozione dello stile monologante, da flusso di coscienza, che prende la piega di una auto-analisi, quasi psicanalitica, dalla quale emerge tutto il vissuto e la visione del mondo del soggetto, la sua sensibilità, il suo particolare approccio alla realtà vera, e a quella immaginaria delle velleità, dei rimpianti per ciò che non è stato, per le speranze deluse, per la fantasia che si ostina a sopravvivere nonostante le battute d'arresto. Ed è una buona idea inframezzare le considerazioni del protagonista con la citazione di brani musicali e dei relativi testi, che servono a creare una colonna sonora in presa diretta, in accordo o a contrasto (secondo i casi) con lo stato d'animo o con la situazione evocata. Le fonti musicali sono prelevate da un repertorio inconsueto, da intenditori, ed è intrigante il tentativo di accordare il linguaggio della narrazione con quello dei brani musicali citati, con rimandi e rinvii, anche velati o indiretti, come se uno fosse l'eco dell'altro, vicendevolmente.
Il titolo assume così la doppia valenza dei rapporti/relazioni interrotte e della frammentazione degli interventi musicali che contrappuntano le vicende: un modo per significare che musica ed io narrante sono solidali nel tentativo disperato di ritessere le fila di un discorso vitale pieno di fratture, cesure, svolte e che paiono a volte insanabili e a volte foriere di possibili labili opportunità di cambiamento: permane al fondo un vago senso di speranza o miraggio non tanto nel ristabilimento di ciò che è perduto, ma nell'acquisizione di una nuova consapevolezza che sposti il punto di vista, la prospettiva per iniziare a vedere la realtà in modo meno problematizzato e più lineare, con una dose di sana e saggia accettazione dell'inevitabile.
A tratti l'io narrante, per non appesantire il racconto con la sua onnipresenza, tende a scomparire dietro a perifrasi impersonali: si descrivono gli effetti delle sue azioni sugli oggetti, sugli spazi in cui entra, sulle atmosfere che cambiano, piuttosto che le sue azioni dirette e i verbi si elidono, con predilezione per sostantivi e aggettivi o costruzioni prive di soggetto. E' una tecnica non nuova (viene alla mente, di primo acchito, il Nouveau Roman di Alain Robbe-Grillet, ad esempio ne “La gelosia”), ma che ha una sua efficacia in contesti come questo, dove domina il rimuginio interiore, la riflessione profonda, la discesa nella psiche: è una cifra stilistica apprezzabile e che funziona bene per alleggerire il peso del carico interiore e il rischio di un clima cervellotico, arzigogolato e macchinoso.
E' interessante anche un altro aspetto, che vede i personaggi (lui e lei) inconsapevolmente in sintonia con gli elementi naturali che li circondano, quasi una immedesimazione, o assimilazione, per cui certe loro vibrazioni d'animo, il modo di muoversi, il loro respiro, le azioni che compiono sembrano quasi quelle di elementi del paesaggio, quasi vegetali che si allungano nello spazio, si protendono verso riverberi ed echi dell'ambiente. Sanno cioè, nel loro io monologante, farsi puro pensiero, diventare liquidi o eterei, incorporei, senza peso che non sia quello dei prodotti della mente.
Se dovessi individuare un punto di debolezza, direi che questo risiede talvolta in un eccesso di aggettivazione, quasi questa ossessivamente dovesse per forza accompagnare ogni sostantivo, e costituire con esso necessariamente un sintagma obbligato, come se le cose, nei loro semplici nomi, non potessero stare da sole e presentarsi anche nella loro nudità. In questo il rischio di dar vita a cliché figurativi e linguistici diventa alto: a tratti hanno il sapore di “frasi fatte”, per quanto eleganti, un po' da manuale, che alla lunga possono diventare un gioco prevedibile, che perde sempre più forza, rallentando il ritmo. Non saprei se questa sia una scelta intenzionale, ma anche in tal caso essa dovrebbe essere dosata con maggiore stringatezza e misura: manca ad ampi tratti quella secchezza ed incisività di taglio che renderebbe più aforistiche ed efficaci certe frasi e che permetterebbe alla tensione narrativa di tenersi costante fino alla fine, dove invece si giunge un tantino affaticati e con un senso di “sazietà” di vocaboli.
La scrittura, in questo, nel descrivere cioè una qualsivoglia realtà, presenta varie possibilità di scelta, in forza della mediazione delle parole, che possono essere ricche o povere, esserci o non esserci. Mentre le immagini fotografiche o cinematografiche hanno una loro immediata evidenza che vincola in canali stretti l'immaginazione dello spettatore, la indirizza in forza della sua direzionalità spiccia, la scrittura può scegliere. Se dice semplicemente “albero” noi possiamo immaginarlo in mille modi, fogge, specie diverse. Una foto di un albero invece ci dà già una rappresentazione più precisa, ma più ristretta, specifica che lo presenta in quel particolare modo, escludendo contemporaneamente tutti gli altri.
Forse avrebbe giovato lasciare più margine alle facoltà immaginative del lettore, senza guidarlo troppo in dettaglio nella ricostruzione mentale della realtà raccontata, come si volesse vincolarlo alla visione dell'autore. In contesti come questo è più affascinate un po' di ambiguità di visione, con le prospettive di scrittore e lettore che viaggiano in autonomia, integrandosi da sole, senza essere eteroguidate.
In questo senso, la scrittura appare a tratti sin troppo “densa”, farcita. E' un piatto ricco, molto speziato, ma che corre il rischio, per quanto prelibati siano gli ingredienti, di generare alla lunga un po' di saturazione e di risultare non sempre di fluida digestione. Una maggiore stringatezza potrebbe creare un po' più di mistero, di distacco e di distanza che induca nel lettore, anche per reazione, una maggiore curiosità, stimolando in lui una propensione ad integrare o indagare, con accresciuta partecipazione ed immedesimazione, le cose non dette o lasciate sullo sfondo o appena accennate.
Per contro, sul piano narrativo stretto, degli accadimenti e dell'azione, si avverte il bisogno, di tanto in tanto, di una maggiore chiarezza, di qualche raccordo esplicativo che aiuti il lettore a capire bene cosa stia succedendo e a chi, per non perdere le fila degli eventi e per evitare che questo andamento rapsodico non perda definizione di contorno, diventando fumoso e vago.
Ciò detto, va sottolineato che l'architettura generale del romanzo è ben congegnata, con elementi di originalità e personalità e non priva di un apprezzabile voglia di osare, di sperimentate con coraggio, al di fuori del recinto rassicurante di una prosa standard. Al lettore è richiesto un certo impegno, ma è un impegno che può premiare: chi legge ha una percezione diversa da quella di chi scrive. L'autore ha già tutto chiaro nella sua mente, mentre il lettore deve, come in questo caso, raccogliere gli indizi per ricomporre il mosaico. Camminare sul confine tra libertà di immaginazione e forza di attrazione (che deve tradursi in qualcosa che sia avvincente, senza senso di fatica o pesantezza), è un delicato equilibrio, un esercizio in cui trovare le percentuali giuste per tutti gli ingredienti non è affatto semplice. Roberto Maggi si avvicina di molto a questo bersaglio, e lo fa con idee stimolanti, che danno una scossa alla pigrizia e alla routine e invitano piacevolmente a scavare sotto la superficie.
"Gli Accordi Spezzati"
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