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Il Terzo Livello: reload
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Una misteriosa convocazione mette in subbuglio la giornata di Antonio Esposito. Si sveglia con un incubo: è il conflitto irrisolto con il figlio Massimo. Durante la passeggiata sul lungomare di una città deserta causa COVID-19, si racconta e confessa il suo reclutamento come spia al servizio del "Terzo Livello". Nell'incontro con il giovane maresciallo Gradone, scoprirà un fatto incredibile che lo coinvolgerà suo malgrado ad affrontare la risoluzione di un complicato caso di droga su cui stanno indagando i Carabinieri.
“Mi tormenta un dolore tutto interiore, improvviso, ossessivo, si ripete e non lo so spiegare. L'attesa è finita ma l'incubo no, irrompe violento come la prima volta. Così la fine non ha mai un inizio preciso.”
- Pronto? Ci sei? Come stai? Max e dai! Mi rispondi? Ti ho mandato anche trecento euro per il compleanno, li hai ricevuti? Potevi mandarmi una conferma, almeno farti sentire! Ma si può sapere come stai? - - chiamo da ore e finalmente mi ha risposto, fa sempre così, si fa desiderare. - Ma mi prendi per il culo? Ho visto gli sms ma gli altri soldi dove sono? I soldi mi servono per la patente e per la palestra, me ne devi dare di più! - - sta già gridando senza motivo e non smette - - Me li devi dare, hai capito? Conosco i miei diritti che ti credi, me li devi dare, hai capito? Se no ti faccio vedere io! - - Cosa? Ma che dici? Diritti? Diritti di cosa? Ma che stai dicendo? Cosa mi fai vedere? - - da ben cinque anni ha i soldi per la patente su un conto corrente che gli ho aperto per la maggiore età, ancora non guida legalmente l'imbecille, lo devo fermare se no questo snaturato esagera. - Tu non sei niente, non sei nessuno, Berlusconi ne campa mille di figli - - solitamente non scantona, penso al volo - - e allora? Cosa c'entra? Che cazzo dici? Non ci credo e che diamine calmati, ragiona, ma che ti prende? - - mi sto innervosendo ma riesco ancora a controllarmi. - Paura eh! Me li devi dare, hai capito? Se no vengo lì, ti aspetto sotto casa e ti meno, ti faccio male! Ti buco le gomme della macchina, vedrai! Ti faccio male, paura, eh? - - non grida più, si da un tono da duro metropolitano, non mi piace, il nervoso mi sale in testa, lo immagino tra gli amici che ridacchiano alle sue spalle, lo vedo, un bullo tatuato tra bulli tatuati, palestrati e senza cervello. - Incredibile! Sono senza parole, ma che stai dicendo? Paura? Paura di chi? Paura di cosa? Ma che dici? Ti rendi conto? Minacci? Mi fai una estorsione? - - il cellulare mi brucia l'orecchio o è l'orecchio che mi brucia la mano, non lo so, so che ho la pressione a mille, il cuore batte come un martello pneumatico sull'asfalto, mi muovo come un epilettico, mi incazzo di brutto - - ti servono? ti servono soldi? benissimo è ora che alzi il culo e ti li vai a sudare, lavorare vai a lavorare! - - adesso sono io a gridare, senza freno, urlo nel cellulare come un indemoniato. Poi respiro, respiro e respiro ancora, dal telefono non sento repliche. Mi rilasso con uno sforzo tremendo - - va beh, dai, calmati tu e mi calmo anch'io, facciamo così, ringrazia che hai un grande padre, la prossima volta, mi chiami tu, mi chiedi scusa, mi dici che ti servono soldi, me li chiedi per favore e con gentilezza, poi quando li ricevi mi dici anche grazie! Ciao, stammi bene! - - click -
Sento il cuore che mi sfonda il petto. Mi trema la gola. Sento tremare le braccia e le gambe: - respira! - ordino a me stesso. Gonfio il petto e respiro una, due, tre, la quarta volta con calma chiudendo gli occhi in una espirazione infinita: - sono un grande padre? mi sento un grande? Mah, mica tanto, anzi una grande chiavica se questo è il risultato - . Ancora una volta questa telefonata di merda. Sono anni che mi tormenta. Sì, tremenda come la prima volta... Prima giorni, poi settimane. Poi mesi e mesi ancora. Oggi è tornata. Improvvisamente mi rimbomba nella mente. Mi perseguita. Ogni volta ricordo parole nuove e ne dimentico altre. Ogni volta rimescolo l'ordine delle frasi. Me la racconto nella mente. Mi agito. Ho brividi mentre sento i nervi fremere dentro la carne. Serro le mani, e i muscoli fanno male. Poi respiro e mi calmo: - No, non posso chiamarlo io, l'ho sempre fatto, sempre io per primo, no! basta! - , ragionando da solo a volte cerco scuse a me stesso: - Forse era fatto? No, ma no! era lucido, sì, lucido, cinico e cattivo. Erano parole di rabbia, urlate ma precise e ragionate, urlate ma fredde, distinte, velenose. Adesso basta! Se vuole dovrà chiamare lui - . Mi ripeto in continuazione assoluzioni mentre desidero un falso placebo come otto gocce di oramorph* che comunque, lo so, niente possono contro questo dolore che non so spiegare. Non è un dolore fisico, è un dolore dentro, una sofferenza neuronale che quando si accende mi manda in tilt il cervello. Sarà colpa mia. Sarà anche colpa mia ma non mi preoccupo: - basta! - , sono tormentato ma non preoccupato. Ho cancellato da tempo i sensi di colpa. Da tanto tempo. Sono anni che non chiama: - aspetto che lo faccia lui, questa volta il primo passo deve farlo lui - . Non è più un bambino che cresce per diventare un uomo. Io avevo ventiquattro anni quando Max è nato in ospedale. Piangeva nero di collera. Nei film quando ti porgono il neonato è quasi sempre in una doppia inquadratura idilliaca: un visino disteso che dorme o che guarda meravigliato la tua meraviglia. Lui no, anche tempo dopo la travagliata evasione e le affettuose cure delle infermiere del reparto, non smetteva di piangere, instancabile dal primo momento manifestava tutta la sua contrarietà, scurissimo in viso, incazzato e basta. Poi ti raccontano: “anche il figlio fa i conti con lo stress del parto naturale”, e allora ti convinci che è normale ma quella scena a me resta indelebile. Non è un ricordo, è sempre presente. Ribelle come tutti i figli di questo mondo. Infatti, non è mai stato un figlio facile ma paragoni non ne posso fare, al momento resta l'unico. Gli altri non sono mio figlio. Però chi può mai dire che fare il padre è facile? Figurati, essere figlio è anche più complicato: li ricordo bene i miei conflitti. Quando sei ferocemente incazzato con un genitore, relazionarti a forza contro la tua volontà è come una tortura da cui vuoi scappare. Però io non ho mai calpestato il confine del rispetto che si deve ai vecchi. Forse. Almeno non così come sta facendo lui con me. Chi potrebbe smentirmi non c'è più ma non è una consolazione. Anzi li vorrei ancora qui i miei vecchi, gli parlerei dei conflitti interiori dei genitori nel XXI secolo e di come mi vergogno oggi al pensiero di tutto quello che mi hanno sempre perdonato. Ai loro tempi i bambini, maschi e femmine, lavoravano già duramente la terra, nelle stalle, sugli alberi. Non si dava il tu ai genitori, nemmeno in punto di morte. I comportamenti non si spiegavano, non c'erano convincimenti, persuasioni, ma solo ordini da eseguire. Anch'io “grazie” lo dicevo spesso, ne sentivo il dovere, il bisogno. Mi ricordo bene, eccome se lo dicevo, serviva a cementare relazioni scarse di parole futili e banali. Mi hanno educato bene ma non basta dire le cose per fare educazione, ci vuole l'esempio. Evidentemente, con Max il mio esempio è stato una schifezza. Grazie ai miei vecchi, il lavoro duro da bambino l'ho vissuto solo come un gioco durante le vacanze estive; a quei tempi, i piedi dei signorini della città indossavano scarpe tutti i giorni, invece era un lusso dei giorni di festa per i miei cuginetti che volavano tra gli alberi come scimmie adulte. I giovani acrobati della campagna si nutrivano direttamente sulle piante. Da alberi maestosi, a noi disabili della città lanciavano grosse ciliege nere e sode, migliori di qualsiasi cioccolatino industriale: erano frutti lucidi e corposi dal gusto prezioso dell'impossibile. Deriso e sconfitto dovevo arrendermi: l'albero mi rifiutava come fa un possente destriero con un principiante incapace. Meravigliato, invidiavo la super eroica normalità dei miei parenti di sangue che crescevano nella palestra naturale della madre terra; ai baby cittadini che invece razzolavano solitamente sull'asfalto tra palazzoni di cemento, scegliere e mangiare quelle ciliege tra i rami più alti era un eden vietato. Anche in città venivo umiliato, per l'accento e i modi contadini solo perché stranieri; però ne ero fiero, e a tratti anche felice come lo sono i bambini nonostante tutto. Ora capisco quella mia spavalda diversità: vivevo paradisi che i miei compagni di strada non potevano nemmeno immaginare.
Il ricordo di quella nostra telefonata violenta, mi destabilizza. Ogni volta mi scoppia dentro all'improvviso di giorno, e a volte, dal sonno mi butta fuori prima della sveglia, come adesso. Intanto un'altra notte è passata. Non le conto più da anni. Se fosse una commedia di Eduardo non finirebbe mai**. Altri giorni, mesi e un altro anno ancora è passato: - Starà bene e non ha bisogno di me - ecco, mi assolvo ma non basta. Di compleanno in compleanno sono passati anni. Ancora oggi, la nostra ultima discussione è un ricordo come un petardo improvviso lontano dalle ore di festa. Proprio così, un momento di fragore non previsto, non voluto, e così masse di neuroni impazziti si rivoltano nell'encefalo: il nervoso continua a spaventarmi, è una maledetta ossessione violenta. All'agitazione poi faccio seguire la respirazione e poi la calma. Rifletto un po' e mi assolvo da solo: - Non c'è solo lui nella mia vita, starà bene e non ha ovviamente bisogno di me, altrimenti mi avrebbe cercato - dico a me stesso bisbigliando come in un mantra religioso. Così mi difendo dal tormento di una chiamata che comunque non arriva mai: - Aspetterò ancora un po', adesso ho da fare - , passo oltre ad altri pensieri. Il tempo non si ferma, il mondo non aspetta, anzi, se ne frega delle ossessioni umane, fa un giro veloce ogni ventiquattro ore, se ne frega delle questioni personali, il tempo è spietato, è un senso unico senza ritorno: - Il tempo e il mondo sono variabili indipendenti dall'umanità - .
- Sarà una chiamata dal terzo livello? - , mi chiedo dubbioso. Questa è la domanda che mi sono fatto ieri, dopo aver sentito il maresciallo al telefono. Forse è la tensione inconscia di una novità che stanotte mi ha fatto ritornare la voce di Max nel sonno. L'incubo filiale mi mancava da un bel po'. Prendo atto di uno stato ormai perenne, come l'ultimo ghiacciaio del Monte Bianco, metto a verbale: - Anche per oggi restiamo sconnessi, off-line l'uno per l'altro - , penso ad alta voce sorridendo allo specchio che guarda la mia espressione rassegnata: - Prima o poi mi cercherà, adesso voglio prepararmi, sono le cinque, troppo tardi per dormire ancora; scendo prima, faccio una bella passeggiata per rilassarmi, senza fretta - , mi ripeto senza parlare: - Il tempo c'è anche per una bella rasata fatta bene, dai, forza e coraggio! - , così ritrovo l'umore giusto per domare il tempo delle mie azioni. Recupero la bomboletta di sapone al mentolo nell'armadietto, in alto a destra alle due terribili occhiaie bluastre che vedo nello specchio. Scelgo con cura una lametta nuova nel cassetto. Solitamente faccio la barba ogni lunedì, questa settimana è la seconda. Il maresciallo Gradone mi aspetta in caserma alle dieci: - Sarà una chiamata dal terzo livello? - , lo vedremo, sarà lui a parlare, certo che una convocazione così veloce, rapida, sbrigativa senza spiegazioni non promette bene; mi ero rassegnato alla pensione ed invece forse sono ancora in servizio. Oggi sarà una giornata diversa dal solito e tanto mi basta per riprendere fiato.
* farmaco a base di morfina, è un antidolorifico appartenente alla classe degli oppioidi. ** “Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?”. Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza: “S'ha da aspettà, Ama'. Ha da passà 'a nuttata.” - brano dalla commedia "Napoli milionaria" di Eduardo De Filippo. |
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I miei genitori sono cresciuti in un roccioso paesino della Costiera di Sorrento: Pacognano di Vico Equense, sul golfo di Napoli; mi hanno fatto nascere e crescere a Salerno dove il mio papà ne seguì lo sviluppo industriale. Sono nato analogico nel 1966, ma ho partecipato attivamente alla rivoluzione digitale dei personal computer; con lo studio e il lavoro ho realizzato due sogni: il primo era scrivere di informatica per una rivista specializzata, e il secondo, di lavorare all'università. Sono un capricorno testardo, ossessivo, compulsivo, frenetico, e anche troppo pigro ma determinato a superare ogni avversità o limite; di quest'ultimi però, uno mi è impossibile superare: è la mia stratificata ignoranza che ad ogni scoperta si sposta crescendo sempre più avanti.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Pietro Di Gennaro: Credo sia innata, curiosità e voglia di leggere nei miei ricordi non hanno un inizio, né spero abbiano mai una fine: insomma fino a che morte non ci separi!
Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Pietro Di Gennaro: No, non uno in particolare, ma devo dire tutti: da quelli che non digerisco ma che mi danno la sensazione di poter fare meglio, a quelli inarrivabili che mi regalano un sogno in cui finisco per perdermi. Sì, è così, ci sono romanzi da cui non vorrei mai uscire tanto è forte il desiderio di continuare a vivere quella storia insieme all'autore e ai suoi personaggi.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Pietro Di Gennaro: Proposto? Ho spammato la mia opera a destra e a manca: ingenuamente pensavo fosse un grande lavoro a prescindere. Forse più presunzione che ingenuità. È stata la mia uscita dal lockdown, avevo una storia che avevo vomitato con urgenza; il giorno dopo l'isolamento, volevo che la leggessero tutti, non ho aspettato nemmeno una risposta, nemmeno quella degli amici a cui l'avevo proposto, e ho cominciato a navigare in un mondo a me completamente ignoto. Così ho scoperto un universo che per oltre quarant'anni semplicemente non conoscevo. Ho scoperto KDP e ho pubblicato una sperimentazione "mutante" di scrittura che è ancora in corso. Impaziente, incosciente, senza limiti di decenza. Il giorno dopo, il mio grande senso di inadeguatezza mi ha fatto riscoprire la lettura, quella vera, approfondita, non superficiale, quella meravigliosa che avevo abbandonato da bambino, da studente ingordo e sempre affamato. Avevo un lavoro da misurare con il resto del mondo. Ecco, così ho riscoperto la letteratura e tutto quello che mi sono perso in decenni e decenni di letture per dovere e non per piacere. Prima che sia troppo tardi vorrei rimediare ridando ossigeno ad una passione sopita che mi sta esplodendo come un incendio fuori controllo.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Pietro Di Gennaro: È una grande opportunità; ho ricevuto diverse proposte EAP che ho rifiutato; KDP di Amazon è uno strumento potentissimo di emancipazione praticamente a costo zero senza imposizioni. Ovviamente l'industria editoriale, piccola, media e grande, è tutta altra cosa: se dovessi usare una metafora, penserei all'adozione. Uno scrittore ha bisogno di una casa e di una famiglia che lo prenda in adozione. Gli scrittori affermati magari hanno la forza di scegliersi la propria villa e il personale di servizio. Un emergente senza casa con KDP ha la possibilità di arrivare ovunque. Una volta provato, si intraprende un percorso che rompe uno schema di chiusura, di emarginazione, aprendone uno senza limiti né di spazio né di tempo.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Pietro Di Gennaro: Per il momento è unico e solo: nasce da un conflitto interiore da risolvere, diventa una liberazione passando dalla magia della creazione di una storia assurda con personaggi irreali che diventano vivi. Non so se questa è la scrittura, so solo che parlare e divertirmi con i miei personaggi è stato prima un percorso poi una scoperta e alla fine una epifania.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Pietro Di Gennaro: Forse un giorno avrò una tecnica, e sperimenterò qualcosa di diverso. La prima esperienza è maturata giorno dopo giorno. È stato tutto istinto, e adesso d'istinto nascono raccontini, sfoghi improvvisi ma in corso ho questa scrittura mutante di un testo che devo portare ad una degna e definitiva sepoltura: nel senso che me ne staccherò per sempre. Lo so è folle, però con KDP posso mettere online la prima versione in un minuto, se mai me ne dovesse arrivare una richiesta. Con l'editoria classica questo è impossibile e così vanno al macero tonnellate di libri mai desiderati che non hanno incontrato lettori. Che peccato e che spreco. Va beh, non esageriamo, la carta resta il materiale più riciclabile che conosciamo. Io amo i libri di carta; la stampa on demand è già un futuro presente, quello che credo sia insostituibile è la cura di una edizione di "classe" che solo un buon investimento può realizzare come confezione particolarmente unica, esclusiva, ma questo tipo di opera è frutto di un team dove il lavoro dell'autore, sebbene fondamentale, è un complemento del prodotto finale.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Pietro Di Gennaro: Ho più progetti su carta e in testa, uno ha già un titolo provvisorio e diverse pagine: "Omicidio di un ghost writer che lavorava gratis".
Writer Officina: La scrittura ha una forte valenza terapeutica. Confermi?
Pietro Di Gennaro: Ne saprò di più quando avrò scoperto l'assassino del ghost writer che lavorava gratis.
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