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Oltre la porta socchiusa
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Caldo umido dappertutto. Nulla di che stupirsi: si era a fine giugno e nel pieno di un cambiamento climatico reale e concreto, benché qualcuno con sfoggio della peggior forma di analfabetismo funzionale si ostinasse a negarlo pescando in web teorie che profetizzavano lunga vita al mondo intero a sprezzo della competenza di eminenti ricercatori che si erano dedicati a uno studio approfondito della questione. Alice mise la freccia e imboccò la rampa della variante che l'avrebbe portata di lì a poco a casa evitandole di tagliare la città per intero. Non aveva nessuna voglia di trovarsi nel bel mezzo del traffico caotico di una buona fetta di umanità dedita a uno dei tanti happy hour della movida serale; o di ritorno da un giro di compere nei centri commerciali limitrofi. L'unica cosa che le serviva era la frescura indotta dal condizionatore nuovo di zecca unita al silenzio e alla sicurezza che le finestre serrate le avrebbero dato non appena si fosse presa la briga di tagliare il mondo al di fuori della sua comfort zone domestica. Aveva bisogno urgente di interrompere il flusso incessante di pensieri e di sensazioni a pelle oramai tracimati che l'avevano assalita in quella giornata di epifania: ore di rivelazione piena, cruda e sconvolgente di una realtà che lei conosceva bene, che aveva sempre conosciuto, negandola per sopravvivere a se stessa e alla consapevolezza di essere caduta in un errore madornale che avrebbe pagato a caro prezzo e a cui avrebbe dovuto quanto prima porre rimedio. Di sbagli in passato ne aveva fatti parecchi e in più ambiti della sua vita. Con buon esercizio di responsabilità se n'era assunta ogni risvolto, anche quello più marginale, pagando sempre conti salati, gravati di forti interessi a fronte dei pochi momenti felici ottenuti in cambio. Ma era, poi, stato reale benessere, il suo, o piuttosto la possibilità di stemperare una routine senza infamia e senza lode con qualche sprazzo estemporaneo di vitalità? Era arrivato il momento di chiederselo e di procedere a una disamina impietosa o forse più obiettiva del solito. Non era più un'adolescente, e quel vezzo di perseverare in errori ricorrenti rischiava di passare per una forma di pervicace masochismo piuttosto che rivelare una personalità spiccata. Davanti a lei nella corsia laterale il vecchio camion a nafta che la precedeva continuava a spargere zaffate di gas combusto e precarietà mentre arrancava per la sua strada. Alice si piegò all'andatura lenta dell'automezzo con malcelata insofferenza, concentrando la sua disapprovazione sulle nuvole nere provenienti dal tubo di scappamento laterale. Isolò la sua macchina chiudendo l'aria e azionò il climatizzatore al minimo. Ma era un sistema che non funzionava, almeno in quel particolare frangente; seguire al passo con rassegnazione e un briciolo di fatalità quell'automezzo sgangherato, indifferente al flusso degli eventi e ben deciso a ritmare con indolente prepotenza anche la sua vita, non l'aiutò a calmarsi. Furono i suoi sensi a reagire per lei non appena si rese conto che le esalazioni del gasolio del vecchio camion erano penetrate nell'abitacolo nonostante lo sbarramento da lei predisposto ad arte. Un'altra sopraffazione esterna, l'ennesima, a conclusione di una giornata da dimenticare che sembrava al contrario avere durata illimitata. Si disse «Basta» e decise di fare qualcosa. Con un balzo si inserì nella corsia di sorpasso, dando di sfuggita uno sguardo alla fiancata laterale dell'automezzo che, in un'epoca lontana, doveva essere stata di colore verde tenue, verde speranza. Un attimo fatale per lei. Poi il fragore cieco di un cozzo infernale e di lamiere che si contorcevano, del suo corpo sballottato da un lato all'altro nell'utilitaria nonostante la cintura di sicurezza ben tesa sul torace. Ebbe pochissimo tempo per rendersi conto di ciò che le stava capitando. Riuscì a scorgere un solo pezzo residuo di cielo arrossato nel crepuscolo estivo prima che tutto si dileguasse nel buio più completo di un'altra dimensione, molto più ovattata e sfumata della precedente. Un piano parallelo che non avrebbe mai creduto di poter sperimentare e a cui si arrese totalmente, quasi con remissività.
Quando mia sorella Betty mi aveva proposto di coabitare con Matias, suo unico rampollo diciottenne e mio primo e solo nipote, avevo alzato gli occhi al cielo senza proferire parola. Ero in clinica di riabilitazione per i postumi di un bruttissimo incidente stradale in cui avevo rischiato seriamente di perdere la vita. Per evitare il peggio e dare alle mie facoltà mentali e fisiche possibilità ulteriori di riprendermi mi avevano tenuta in coma farmacologico per qualche giorno e sottoposta a ogni sorta di accertamento per stabilire quali potessero essere le compromissioni riportate da quel tragico evento di cui ero stata protagonista al termine di una giornata lavorativa di fine giugno di cui non ricordavo nulla. Un trauma cranico di I grado che mi aveva procurato perdita di coscienza e commozione cerebrale, una frattura al collo dell'omero, della spalla sinistra che aveva richiesto che io fossi operata con una certa solerzia; diverse costole fratturate, contusioni al volto dovute all'apertura dell'airbag frontale e di quello laterale. Ed ero stata fortunata perché quel giorno non portavo in auto, come d'abitudine, gli occhiali da sole, mi avevano spiegato in ospedale. Ciò mi aveva evitato serie compromissioni alla vista. Stornando la mia attenzione da un ricordo che definire nebuloso era puro eufemismo, tornai all'offerta di aiuto per interposta persona di mia sorella. «Vedrai che insieme starete bene», aveva esordito Betty con tono incoraggiante. Era un pomeriggio di agosto senza mordente, una di quelle giornate in cui il meteo faceva sfoggio di mille incertezze, trincerandosi dietro un cielo grigio e un'aria afosa, informazioni che a me giungevano di riflesso attraverso lo sguardo distratto che lanciavo ogni tanto alla finestra. La temperatura della camera era gradevole, grazie all'impianto di raffrescamento in azione. Betty e Davide non avevano badato a spese per il mio percorso di “rinascita” (Betty l'aveva chiamato così), mettendo a tacere le mie rimostranze con un blando «Poi facciamo tutto un conto», che mi aveva sgravata di responsabilità e, per un verso, liberata dalla loro presenza quotidiana costante in ospedale grazie al personale infermieristico presente in loco 24 ore su 24. La famiglia di mia sorella era l'unico presidio esistenziale che mi restava; era forse per questo che lei e suo marito avevano preso molto sul serio il dovere di assistermi lungo quel cammino di riparazione fisica ed emotiva che avevo intrapreso. Avevano rinunciato a una crociera verso i fiordi norvegesi per trascorrere, in una località montana poco distante dalla città nella casa di famiglia dei genitori di lui, parte delle loro vacanze, facendo su e giù con doverosa sollecitudine per badare a me ricoverata a Villa Florena, non lontano dalla città in cui tutti risiedevamo. A nulla erano servite le mie accorate proteste. L'unica concessione che avevo ottenuto era stata di spingerli a trascorrere un fine-settimana in una Spa di una regione limitrofa con la scusa che il loro anniversario, che cadeva proprio in quel periodo, andava festeggiato con tutti i crismi come di consueto. «Tu non l'avresti fatto per me? E allora, non ne parliamo più!», era stata la sollecita replica di mia sorella quando le avevo caldamente chiesto di diradare un po' le sue visite ché, tanto, stavo già meglio. In fondo erano già trascorsi quasi due mesi dall'accaduto; volevo con decisione mettere un freno all'estenuante viavai di cui si era, in quel periodo, sobbarcata. Ma lei non aveva voluto sentir ragione e la questione era stata una volta per tutte rimandata, almeno fino alle mie dimissioni. Betty era sempre stata di noi due quella più volitiva, con una forte spinta verso il prossimo e uno spiccato senso del dovere e della famiglia. Per un decennio aveva lavorato all'università conseguendo brillantemente un paio di dottorati di ricerca ma dopo una delusione cocente subita (il suo professore le aveva preferito una giovane laureata spuntata all'ultimo momento dal nulla) aveva deciso di prendersi un periodo sabbatico per fare la moglie a tempo pieno e mettere in cantiere un figlio. Le sue ottime capacità gestionali e organizzative si erano, quindi, riversate sulla bella casa realizzata con infinita cura con l'aiuto di suo marito e sulla sua vita sociale.
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Autori di Writer Officina
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Eccomi qui. Vivo e lavoro a Pescara dove al momento insegno lingua inglese e italiano lingua seconda nella scuola pubblica statale italiana. Nasco come blogger in una community virtuale italiana nel 2007, poi tento la strada dei concorsi letterari. Nel 2012 esordisco da solista con una silloge di racconti, Succo di melagrana, Storie e racconti di vita quotidiana al femminile seguita nel 2013 dal romanzo La casa dal pergolato di glicine. Nel 2016 il mio secondo romanzo, Romanzo Popolare, e un'altra silloge stavolta di poesie, Interlinee, del 2018 con una nuova casa editrice. Nel 2021 nasce il mio terzo romanzo, Come gigli di mare tra la sabbia per i tipi di una terza c.e., seconda opera di una trilogia intitolata “Prospettive Urbane” iniziata con “Romanzo” e chiusa con Oltre la porta socchiusa, Arkadia Editore, nel 2024. Nella mia quotidianità mi piace definirmi una creativa a tutto tondo. Leggo, infine, moltissimo.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorta di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Lucia Guida: Forse iniziando a leggere da bambina precocemente anche opere di autori importanti prendendone le opere dalla libreria paterna, qualcuna in maniera palese e qualcun'altra di nascosto perché forse inadatta per la mia età dell'epoca. Mi piaceva anche moltissimo ascoltare la mia nonna materna mentre mi raccontava episodi della sua vita: pendevo dalle sue labbra ed era facile immaginare un'altra esistenza in cui poter sperimentare qualcuno degli eventi da lei vissuti.
Writer Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Lucia Guida: Di getto risponderei dicendo i libri della saga completa della Alcott, presi stavolta dalla libreria dei nonni materni che erano insegnanti. Può sembrare banale, ma davvero avrei pagato per essere una seconda Jo March: ribelle, anticonformista, pura e idealista. Votata per la scrittura come forma di realizzazione personale ma anche di sostentamento concreto: una vera scrittrice, insomma...
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Lucia Guida: All'epoca bazzicavo diversi forum letterari perché pur non pensando in maniera consapevole di pubblicare un giorno e volevo cercare di capire come funzionasse l'editoria. Mi sarebbe piaciuto partire con una casa editrice non a pagamento, essere scelta da qualcuno che reputasse le cose che scrivevo con reale meritocrazia. All'epoca c'era un enorme contenitore, il Writer's Dream, che forniva a tutti gli aspiranti scrittori dritte fantastiche. Da lì ho preso i primi spunti, iniziando da un editore free che pensavo potesse fare al caso mio. Dopo qualche mese la sua risposta positiva e un'ipotesi di contratto su cui ho riflettuto parecchio, quasi altri due mesi. Da un lato ero contenta di aver suscitato l'interesse e di essere considerata degna di stampa, dall'altro sapevo che le mie cose, una volta pubblicate, sarebbero diventate patrimonio di tutti. Una sensazione forte e ambivalente che non mi ha più lasciata.
Writer Officina: La scrittura ha una forte valenza terapeutica. Confermi?
Lucia Guida: Confermo, anche se non può assolvere questa funzione all'infinito. Mi spiego: si può scrivere anche per questioni di tipo catartico, per tirare fuori ciò che hai dentro e tentare di esorcizzare qualche paura che ti porti dietro. Arriva però un certo momento in cui questa sfaccettatura deve per forza lasciare spazio a un desiderio di comunicazione maggiore. Delle idee in cui credi, proprie o prese in prestito da qualcun altro che ti ha preceduta e poi metabolizzate da te e riproposte attraverso la tua personale prospettiva scrittoria ed esistenziale. Parafrasando in parte un famoso principio scientifico, nulla si crea tutto si trasforma. Ogni scrittore è il prodotto di ciò che ha assimilato dopo anni di letture attente e i suoi lavori sono l'esempio concreto di questo cammino di crescita che è anche di tipo interiore e particolare.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionata? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Lucia Guida: Una madre ama allo stesso modo tutti i suoi figli. Non considerarlo solo un mero principio buonista ma piuttosto l'accettazione per un'autrice come me di quella che è stata la sua evoluzione, non soltanto sotto il profilo tecnico ma anche nelle vesti di affabulatrice. Posso magari pensare con tenerezza a qualche mia prima produzione letteraria; certo è che devo esserle comunque grata per avermi fatta diventare l'autrice che sono oggi. Per avermi spronata a migliorare e a proiettarmi in avanti
Writer Officina: Ritieni che la verosimiglianza sia importante oppure no, considerato che si tratta comunque di fiction?
Lucia Guida: Certamente. Nei miei libri io mi occupo di quotidianità e di situazioni all'apparenza semplici, di sicuro condivisibili anche col lettore. Cerco di mantenere sempre i piedi ben piantati per terra. Il principio di verosimiglianza serve a conferire coerenza e coesione al testo e questo per me è una cosa di grande importanza. In “Oltre la porta socchiusa” ho trattato un tema spinoso connesso ai problemi di personalità di uno dei personaggi maschili maggiori e per fare ciò ho dovuto documentarmi con una certa precisione. Se parli di una grossa criticità che non è semplicemente un artificio narrativo ma una vera e propria piaga dei nostri tempi come la violenza di genere devi farlo in modo rigoroso senza però sfociare nel sensazionalismo. Lasciando che il lettore possa farsi una propria opinione riflettendo su ciò che tu hai voluto esprimere
Writer Officina: La tua esperienza può essere utile a chi intenda scrivere un romanzo perché ha una storia da raccontare, ma ha bisogno degli strumenti, parliamone?
Lucia Guida: Non ho ricette scrittorie da suggerire, e questo è uno dei motivi per i quali pur avendo talvolta aiutato a strutturare il percorso di corsi di scrittura creativa di terzi non me ne sono mai occupata direttamente come docente. Mi piacerebbe che tutti gli autori avessero sottomano una certa abilità linguistica, quello sì, mi sentirei di caldeggiarlo. Un editor ha certo il compito di far emergere da un'opera il meglio possibile limando o suggerendo all'autore di essere per esempio maggiormente esplicito in alcuni passaggi ma non è autorizzato a stravolgerne lo stile e la poetica, come si diceva una volta. Mi spiego meglio: un'ottima idea al centro di una narrazione deve essere supportata da una più che buona capacità di tradurre nero su bianco ciò che hai in mente. Altrimenti è come affidare a un ghost writer la stesura di una storia o nascondere in una foto il proprio volto sotto un numero inverosimile di filtri facendo abbondante uso di Photoshop. Per lo stesso motivo, secondo me, bisognerebbe in maniera chiara informare il lettore se nell'elaborazione di un romanzo si è utilizzata in misura maggiore o minore l'IA. Sarebbe, forse, più onesto. Ringrazio la scrittura per avermi permesso di meditare e andare in profondità riconsegnandomi una me più lineare, fluida. Lavorare in modo tecnico su una pagina, provando ad esempio, a superare un nodo narrativo complesso serve anche a questo, oltre a costituire una forma di allenamento mentale di tutto rispetto. Un'ultima sottolineatura: un autore ha il dovere di leggere moltissimo. Sembra una cosa scontata ma credimi, nell'esperienza che ne ho, non va sempre così per tutti.
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