|
Lo Scorpione Dorato
|

Istanbul, 10 aprile 2016 – La mattina di Beyan Beyan aveva perduto un simit1 lungo la strada, era rotolato per il marciapiede di Kumbaracı infilandosi dentro una grata che raccoglieva l'acqua piovana e non aveva potuto recuperarlo. Nella sua testa sentiva i rimproveri di sua madre Hana: Sei un disastro, Beyan, non sei buona a far nulla! Sprecare così il lavoro di tua madre! Dovresti vergognarti! Ma Beyan cacciò via quella voce all'istante, pensando che ormai sua madre non potesse più dettare legge nelle sue giornate, neanche sui simit che aveva pazientemente impilato sul carretto, perché questi erano stati preparati da Meltem, nella cucina comune dietro il Tarlabaşı Pazari. Erano i loro simit, simit turchi, che non avevano nulla a che fare con il suo passato e la sua tradizione, persino la farina con cui erano impastati era diversa. Meltem li impastava di notte nella piccola cucina, cospargendoli con la melassa di uva e i semi di sesamo, per dargli quell'aspetto scuro e la consistenza croccante, poi buttava le forme nell'acqua bollente e le infilava nel forno senza vetro. Meltem conosceva il segreto per farli davvero croccanti sulla crosta e morbidissimi dentro: l'acqua bollente faceva la differenza e pochi venditori ambulanti a Istanbul vendevano dei simit buoni come quelli. Il profumo del pane che cuoceva e la fragranza dei semi tostati riempivano la cucina comune, fino ad arrivare nel minuscolo pertugio in cui dormivano lei e le sue singolari coinquiline, spargendosi nella dimensione dei suoi sogni confusi, dove l'odore era quello rancido del latte di capra, misto al sudore di un ospite invadente. Per più di una volta Beyan si era svegliata di notte pallida e sudata, e aveva trovato conforto nel profumo dei simit che Meltem aveva appena tolto dal forno. Beyan si sentiva al sicuro in quel buco lercio che la ospitava a Tarlabaşı e con Aysun e Meltem si era instaurato un rapporto unico, come una vera famiglia. Quella mattina doveva spingere il carretto fino alla torre di Galata e avrebbe impiegato oltre venti minuti a percorrere tutta la via Postacılar per raggiungere la meta turistica. Le scarpe di terza mano che aveva ai piedi la costringevano a camminare più lentamente di quanto avrebbe voluto, perché le suole si stavano già staccando e non voleva rimediarne un altro paio proprio in primavera, visto che di lì a poco avrebbe dovuto usare delle scarpe aperte. Beyan si fermò un istante per guardare la sua immagine riflessa in una vetrina abbandonata. Si sistemò il velo intorno al viso e respirò a pieni polmoni l'aria del mattino che ancora non si era impregnata di smog e dell'odore untuoso dei passanti che affollavano le strade. Il suo corpo era sgraziato come quello di un'oca selvatica e il velo le copriva a malapena la fronte larga e liscia. Beyan aggrottò le sopracciglia ispide che contornavano gli occhi a mandorla, poi abbozzò un sorriso e cercò di raddrizzare le spalle: sapeva di essere brutta, ma ormai passava le giornate in strada da troppo tempo per commettere l'errore di risultare anche antipatica. Era una delle poche venditrici ambulanti di Istanbul a girare con il carretto senza un uomo accanto. Si spostava di continuo, dalla torre di Galata a piazza Taksim e al Grand Bazaar, fino ai moli dei traghetti per vendere le ciambelle di Meltem ai pendolari che attraversavano il Bosforo. Il suo aspetto bonario, con gli occhi grandi dalle palpebre gonfie e quell'espressione ingenua che tanto faceva imbestialire suo padre Goran, lì a Istanbul le erano d'aiuto. I turisti le si avvicinavano senza timore: era una donna col sorriso di una bambina e, nella grande città, quella che era stata la sua maledizione da piccola si era trasformata in pregio. Ritardata, si sentiva ripetere dai suoi fratelli, dai cugini e sempre più spesso dai genitori. Ritardata, le gridavano dietro le ragazzine del suo quartiere ridendo e tirandole i sassi. Ritardata, le sussurrava nell'orecchio Gökhan mentre le sollevava la pesante gonna di lana. Tira il sasso, tira il sasso È Beyan la ritardata Non è femmina né maschio È soltanto una svitata. Beyan se lo era impresso bene in mente, quell'appellativo: lei era Beyan la ritardata e, anche se aveva ricominciato la sua vita nel quartiere dimenticato da tutti, non poteva cancellare il marchio che portava in viso. Tanto valeva trarne qualcosa di buono. Era stata proprio Aysun a consigliarle di sfruttare la sua condizione di - inferiorità - , dicendole che lì a Istanbul ne avrebbe potuto trarre vantaggio con un po' di astuzia. Aysun, che si era scelta un nome che voleva dire - bella come la luna - , sapeva sfruttare al meglio gli aspetti della diversità e aveva istruito Beyan a sorridere nel modo giusto e alzare lo sguardo quando qualcuno le parlava. - Le persone non vogliono parlare con te se non le guardi. Guardami e sorridi - . E così Beyan aveva imparato per la prima volta a sorridere, cosa che non aveva mai fatto da quando era bambina. Se ne stava ferma dietro il suo carretto, con la testa alzata a osservare le persone che si accalcavano lungo le strade, che correvano in ogni direzione apparentemente senza una meta, e a volte, in quel mare di gente, qualcuno incrociava il suo sguardo e lei sorrideva. Era davvero difficile che il destinatario del sorriso si rifiutasse di sorriderle a sua volta; un sorriso nelle giornate vorticose di Istanbul era una merce rara e quasi sempre quella persona si fermava a comprare i suoi simit. - Una lira turca - ripeteva decine di volte Beyan durante l'arco della giornata, e i soldi finivano tra le sue mani callose fin dentro le tasche della gonna. Le dita agili conoscevano la strada a memoria e lei non distoglieva mai lo sguardo dai suoi acquirenti. Il sorriso era la chiave per attrarli e il suo volto così singolare faceva il resto, quel volto buono, dai tratti distesi e gli occhi grandi a mandorla, la fronte ampia, la bocca larga e carnosa. Beyan strappava sorrisi e lire turche ai passanti e quasi ogni giorno aveva la fortuna di tornare a Tarlabaşı prima del tramonto. I turisti stavano già facendo la fila per visitare la torre di Galata quando Beyan si fermò sul marciapiede accanto a un elegante caffè con le tende rosse. Le ruote del carretto cigolarono prima di assestarsi e lei tirò fuori da sotto l'asse di legno che sosteneva le ciambelle impilate il piccolo sgabello a tre gambe. Seduta sul precario treppiedi, Beyan guardò un istante il sole che si stava affacciando dietro gli alti palazzi della piazza. Il suo nome voleva dire - mattina - e quello era l'orario preferito della sua giornata. Sorrise alle sue ciambelle e si mise ad aspettare pazientemente il suo primo cliente. Un ragazzo molto giovane con una borsa portadocumenti sotto il braccio si avvicinò a lei porgendole una moneta. Beyan gli porse un simit caldo e sorrise amabilmente. Il ragazzo era assorto nei suoi pensieri e si allontanò masticando lentamente la ciambella croccante. Beyan teneva a mente tutti i clienti della giornata e giocava con se stessa cercando di indovinare chi fossero e quali segreti nascondessero. Sarà uno studente d'arte e quella cartellina sarà piena di disegni a carboncino di una donna che lui ama segretamente, per questo ha quel volto così assorto e infelice. Forse la donna non lo ricambia perché è sposata e lui l'adora in segreto ritraendola come la vergine Aisha, moglie prediletta del profeta. Beyan fantasticava tutto il giorno sui suoi clienti, facendo passare le sue interminabili giornate ferme in un angolo di qualche strada di Istanbul. A mezzogiorno la biglietteria della Torre di Galata aveva una discreta fila di turisti che scalpitavano per avere il loro biglietto. Beyan sapeva che quella non era l'ora di punta per salire sulla torre: la coda triplicava nel tardo pomeriggio, quando i visitatori più informati non si perdevano il suggestivo spettacolo del tramonto su Istanbul dall'altezza dei quasi settanta metri della torre. Beyan si augurò di terminare prima la sua giornata, perché, per quanto conoscesse come le sue tasche le strade di Istanbul, il buio non le era mai piaciuto. Meltem invece amava il buio, era il suo compagno di vita da quando era nata, e con il buio parlava, litigava se non trovava le cose e intavolava discorsi d'amore quando nell'oscurità riusciva a scorgere la risposta a una delle sue tante domande. - Un simit, grazie - . Una voce maschile la distolse dai suoi pensieri. Non le succedeva quasi mai di non accorgersi dell'arrivo di un cliente e Beyan si rimproverò di non averlo accolto preparata. L'uomo indossava una divisa nera con un basco calcato sul capo e la stava guardando con curiosità. Beyan sorrise mentre gli porgeva la ciambella. Aveva qualcosa di familiare nel volto e cercò nella memoria di capire dove lo avesse già visto. Forse proprio lì, nella piazza della torre di Galata, la settimana prima. Sì, ora ricordava: quel poliziotto si era avvicinato per prendere un simit proprio sette giorni prima, nello stesso posto, allo stesso orario. Beyan lo aveva immaginato mentre impugnava una grossa pistola nera e tirava colpi a un bersaglio colorato. L'uomo le diede più di quanto doveva e lei cercò il resto nelle pieghe della gonna. - Lascia stare - le disse con gentilezza, e le sorrise mentre si allontanava. Beyan notò che non aveva neanche avvicinato la ciambella alla bocca. L'uomo aveva svoltato l'angolo ed era scomparso. Dopo pochi minuti ricomparve nella piazza e il simit era svanito dalle sue mani. Questa era una delle cose che mandavano in confusione Beyan. Ciò che lei non poteva vedere e comprendere la spazientiva, creava nel suo animo un filo ininterrotto di domande senza risposta, e il suo spirito, rimasto quello di una bambina, doveva trovare la soluzione al mistero. Perché il poliziotto aveva buttato quel simit pagato il doppio? Beyan si sentiva ferita e anche Meltem lo sarebbe stata: le sue mani avevano impastato tutta la notte e non andava sprecata neanche una briciola. Anche una sola ciambella era stata benedetta dalle mani cotte che si immergevano ormai insensibili nell'acqua bollente, e andava rispettata. Già aveva perduto un simit per strada, non poteva permettersi di perderne un altro o sarebbe stata una giornata molto sfortunata. Allah l'avrebbe guardata col suo occhio che tutto vede e non sarebbe stato contento di lei; no, avrebbe rovistato nel secchio dietro l'angolo pur di recuperarlo. Lo mangerò io, si disse Beyan mentre si allontanava lasciando il carretto incustodito, cosa che un venditore ambulante non dovrebbe mai fare, a Istanbul. Svoltato l'angolo di via Kule, si soffermò a guardare una sagoma nascosta dietro la colonnina dei contatori, sotto una finestra a grate dipinta di rosso. Dagli stracci che si muovevano lentamente spiccava un volto bianco come la neve, avvolto da una fitta barba incolta che fagocitava l'ultimo pezzo prima di farlo svanire del tutto. Il vecchio raccolse una per una le briciole che erano rimaste appiccicate sulle mani sporche e si accoccolò contro il muro chiudendo gli occhi. Beyan tornò sui suoi passi. Il mistero era svelato: il poliziotto non aveva voluto insultarla buttando il suo simit, ma aveva compiuto un gesto di carità. Si sentì in colpa per aver pensato male di quell'uomo e un nodo alla gola le salì accompagnato dal sapore amaro. Fu in quel momento che la mente di Beyan si rese conto di aver lasciato il carretto incustodito, e col batticuore corse verso la piazza aspettandosi il peggio. Invece il carretto rosso era lì, con il suo sgabello sgangherato e il poliziotto a braccia conserte che si era piazzato lì davanti. - Signora, non dovrebbe lasciare il carretto incustodito! Potevano rubarlo! - . Beyan si fece paonazza in viso. Non era brava a rispondere cose diverse da grazie e una lira turca e i vocaboli turchi che aveva imparato non erano sufficienti a intavolare un discorso. Abbassò lo sguardo a mandorla guardandosi timidamente i piedi. - Stia più attenta, la prossima volta. Mi chiamo Hazim. Buona giornata, signora - la apostrofò con gentilezza allontanandosi con un sorriso. Beyan era rossa dalla testa ai piedi. Aveva capito benissimo quello che il poliziotto le aveva detto, si era di nuovo fatta riprendere per la sua disattenzione, come accadeva quando era bambina. Aveva pensato male di quel poliziotto e lui le aveva anche sorvegliato il carretto mentre lei compieva l'incosciente spedizione alla ricerca del simit perduto. Sei una ritardata, Beyan. La voce risuonava nelle sue orecchie come un mantra. Lo sapeva bene di esserlo, ma lei era nata così e non poteva farci nulla. Durante l'Asr, la preghiera della sera, Beyan avrebbe chiesto perdono per il suo essere così come era nata e non riuscire a cambiarsi in nessun modo. Percorrere la strada del ritorno quella sera fu faticoso per lei, asfissiata com'era dalla consapevolezza della sua inferiorità mentale rispetto al resto del mondo, e appena superati i cartelloni pubblicitari che nascondevano il quartiere di Tarlabaşı affrettò leggermente il passo, scossa dai morsi della fame. I simit erano terminati e non ne aveva potuto conservare nemmeno uno per sé. Quando arrivò alle scale sbeccate che portavano alla piccola stanzetta seminterrata dove viveva con Meltem e Aysun, sentì nell'aria che qualcosa non andava. Non si udiva nessun rumore dall'interno, mentre a quell'ora, al suo rientro, di solito Aysun si stava preparando per andare al Gece Yarısı Güneşi dove lavorava ogni sera, nel quartiere Beyoglu. La voce acuta con il timbro rauco di Aysun riempiva le scale accompagnando i suoi passi sulla scivolosa e precaria passerella di legno consumato che serviva per raggiungere la porta, ma quella sera c'era solo il silenzio. Beyan trovò Meltem dietro l'uscio. La donna la prese per le spalle per farla entrare mormorando: - Sst... una brutta giornata, oggi - . La piccola stanza buia appariva ancora più scura del solito per il silenzio che incombeva su di loro come una lastra di piombo. La sagoma longilinea di Aysun era stesa sul letto vicino al muro scrostato, e sul tavolo dove mangiavano e dove di solito erano accatastati i suoi trucchi colorati tutto era in ordine, indicando un triste presagio. Meltem parlava a voce bassa e si muoveva nella penombra con il suo intercedere lento e sicuro, sembrava scivolare sul pavimento con la sua veste scura che raccoglieva la polvere nelle pieghe dell'orlo. - Aysun dorme. Oggi è stata una giornata molto brutta. Ha pianto tanto. Zehra è stata trovata morta... uccisa. Bang - . Meltem simulò un colpo di pistola con la mano. - Aysun è molto triste. Molto spaventata - . Beyan aveva molto chiaro il concetto di paura. Era uno degli stati d'animo con cui era cresciuta sin da piccola e che la accompagnava ogni giorno come una sorella siamese attaccata a lei e alla sua anima senza poterla mai cacciare. Si avvicinò al corpo addormentato di Aysun. Il rimmel le era colato sulle guance disegnando delle grottesche righe nere che si ramificavano fino al collo esile. L'ombretto blu e rosa, di cui Aysun andava fiera, era sparso ovunque sul suo volto, rendendola una maschera di glitter e sfumature colorate che si mischiavano alla sua pelle olivastra e bagnata di sudore. I capelli raccolti sulla nuca con una delle sue fasce colorate e vistose erano più spenti e stopposi del solito, con raggi dorati che parevano paglia sporca, radici ammantate dalla polvere, grovigli incolti di rovi. Beyan si abbassò su di lei per ascoltare istintivamente il suo respiro: era simile a un rantolo. Voleva accarezzarle quell'intrico di capelli secchi, ma come sempre le era accaduto nei momenti di difficoltà non sapeva cosa fare, non sapeva come comportarsi. Mentre rifletteva su quanto apparisse fragile la sua amica distesa sul letto, pur se alta oltre un metro e ottanta, Aysun aprì le palpebre. Gli occhi erano scuri e profondi come due pozzi di petrolio e Beyan non poté fare a meno di fissarli per perdercisi dentro. Quello sguardo era magnetico e potente, in grado di comandare le sue emozioni senza fatica, ordinarle di sorridere o di essere triste. |
|
Votazione per
|
|
WriterGoldOfficina
|
|
Biblioteca

|
Acquista

|
Preferenze
|
Recensione
|
Contatto
|
|
|
|
|
|
Conc. Letterario
|
|
Magazine
|
|
Blog Autori
|
|
Biblioteca New
|
|
Biblioteca Gen.
|
|
Biblioteca Top
|
|
Autori
|
|
Recensioni
|
|
Inser. Estratti
|
|
@ contatti
|
|
Policy Privacy
|
|
Autori di Writer Officina
|
|
|
Prima di essere un'autrice sono sicuramente una donna piena di energia e fantasia. Sin da piccola ho amato molteplici forme d'arte, approcciandomi a lati estremi della manifestazione artistica, da un lato l'intima e solitaria scrittura, dall'altro i riflettori sul palcoscenico, nel mezzo colori, stoffe e ricette. Amo sperimentare e soprattutto pasticciare, sono una inguaribile disordinata, faccio di tutto per non sottrarre tempo alla mia espressività e condivido con chi mi è accanto la mia voglia di fare. Sono mamma di un bellissimo bimbo che mi fa correre tutto il giorno, insegno danza orientale da sedici anni e il mio lavoro principale è nella comunicazione di una grande azienda sanitaria. Scrivere è la forma d'arte che negli anni mi è rimasta incollata, così come la danza che ho prima praticato come allieva dall'età di 5 anni, e poi come insegnante. Questi due aspetti di me, la Marika introversa chiusa nel suo mondo fatto di personaggi e inchiostro, e la Marika coperta di luccichini su un palco, si completano perfettamente. Entrambe queste manifestazioni della mia passione per la vita si intersecano, andando a riempire i vuoti che a volte l'una lascia all'altra. So di non essere perfetta e ne faccio la mia forza, è proprio la mia imperfezione a rendermi unica.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Marika Campeti: Sin da bambina. Appena ho imparato a scrivere ho iniziato ad accumulare dei quaderni dove scrivevo delle semplici filastrocche in rima. Poi, ho scoperto che potevo leggere fino a sera nascosta sotto le coperte, con una piccola torcia tascabile che avevo pazientemente avuto in dono dal fumetto”Topolino”. Mi ricordo che ci era voluta tutta l'estate per completare i pezzi e montarla. Con questo piccolo tesoro, sotto le coperte mi nascondevo al mondo, e mi perdevo completamente nella lettura.
Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Marika Campeti: Da bambina sognavo di fare come Jo di Piccole Donne
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Marika Campeti: Il mio primo romanzo Il Segreto di Vicolo delle Belle è stato pubblicato da Apollo Edizioni, una casa editrice free con la quale mi sono trovata benissimo. La cortesia e l'umanità di Antonietta sono state esemplari. E' stata l'esperienza che mi serviva, perchè io ho davvero necessità di cortesia e gentilezza per potermi fidare, e mi è stata data. Credo di essere stata fortunata, il percorso del mio primo romanzo è stato fantastico, sia per il successo avuto, sia per la strada fatta in serenità e collaborazione.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Marika Campeti: Sono appassionata di letteratura del medio oriente, in quanto ho un amore viscerale per quella cultura. Ho amato e apprezzato molto tutti i libri di Fatema Mernissi, una donna marocchina di grande cultura che purtroppo è scomparsa pochissimi anni fa. Leggerla mi ha aiutato ad entrare in questa cultura che mi affascinava da tempo, e avvicinarmi ad altri autori che trattano le stesse tematiche.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Marika Campeti: Sia il primo che il secondo romanzo sono scritti con la tecnica del flashback. Mi creo una mappa mentale e poi la trascrivo su un documento word. Mi tengo sempre questa mappa al margine in fondo del foglio, così mentre scrivo la mappa resta sotto e io posso consultarla.Finito il capitolo mi scrivo in due o tre righe un breve riassunto dello schema narrativo del capitolo successivo, e così proseguo fino alla fine. Sono abbastanza veloce nella scrittura, ma molto lenta nella correzione.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Marika Campeti: Sto scrivendo il mio terzo romanzo. Come genere si avvicina di più al primo “Il segreto di Vicolo delle Belle” in quanto ha un fondo storico che pianta le sue radici nella seconda guerra mondiale e di base la trama si intreccia intorno a una grande storia d'amore.
Writer Officina: Cosa è cambiato da “Il segreto di Vicolo delle Belle” a “Lo Scorpione dorato” ?
Marika Campeti: Per scrivere il mio secondo romanzo ho scelto un registro completamente diverso. “Lo scorpione dorato” è un romanzo doloroso, duro e in alcune parti crudo, ma questo realismo che ferisce è stato necessario per raccontare una storia in un'ambientazione reale e indurre a una profonda riflessione. Parte del romanzo è ambientato in un campo profughi e per scriverlo mi sono avvalsa della collaborazione di una Associazione Umanitaria che si reca mensilmente al confine turco siriano: Support and Sustain Children. Con la presidente mi sono sentita per mesi per ricreare l'ambientazione reale di questo campo di rifugiati in Turchia, descrivere gli abusi di cui sono vittime donne e bambini, e per far capire come i volontari intervengono per aiutare i profughi. Proprio ora questa associazione sta costruendo un pozzo di acqua potabile nel campo di rifugiati dove ho ambientato il romanzo, e ho potuto partecipare alla raccolta fondi con i primi proventi delle vendite de “Lo scorpione dorato”. Ad agosto ho fatto un tour di presentazioni che ha avuto molto successo, e sono davvero contenta di aver potuto dire ai miei lettori che una parte della vendita del libro è stata destinata a una buona causa. Ho voluto inserire in un romanzo intenso e ricco di colpi di scena, un profondo messaggio sociale. So che molti lettori già stanno riflettendo su ciò che hanno letto.
Writer Officina: Finora cosa ti ha regalato la scrittura?
Marika Campeti: Con il mio primo romanzo “Il segreto di Vicolo delle Belle” ho conosciuto delle realtà incredibili che si occupano con passione delle persone più fragili. Ho fatto molte presentazioni in giro per l'Italia, documentate sulla mia pagina facebook ufficiale. Visti i temi del precedente romanzo, ho avuto modo di presentarlo ospitata dai centri antiviolenza e dalle realtà di alcune associazioni che si occupano delle problematiche femminili. Proprio per aver cercato con il mio romanzo di sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della violenza, lo scorso anno mi è stato chiesto in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulla donna di “firmare” con una mia frase una panchina rossa che è stata inaugurata da me e dal sindaco in una bella piazza comunale. L'esperienza più bella in assoluto è stata quando sono stata invitata dall'ambasciatrice dell'Unicef a presentare il mio romanzo nel carcere di Civitavecchia, e non in un'aula magna, ma proprio dentro alla sezione femminile del carcere, con le detenute. E' stata un'esperienza che mi ha profondamente toccata, quando sono tornata a casa ho pensato “Se il mio percorso da scrittrice dovesse finire qui, so che ho ottenuto l'esperienza migliore che potesse capitarmi”. In quelle poche ore ho imparato tanto, è difficile da spiegare, bisogna varcare quelle mura e trovarsi lì dentro per capire davvero il significato della libertà.
|
|
Tutti i miei Libri

|
Profilo Facebook

|
Contatto
|
|
|
|