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La mossa del gambero
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Era sempre così, verso sera, sul finire dell'estate. Nasceva da qualche parte fra le montagne e calava, leggera, verso la valle superando le colline e le case sparse, intrufolandosi nei granai e nei fienili. Poi la striscia di bosco, dove giocava con i rami degli alberi e con i cespugli di mortella e di corbezzoli, fino agli spazi aperti, ai vigneti, ai campi coltivati, dove disegnava ritrose e onde che si rincorrevano senza sosta per andare a svanire lontano, sulla superficie di quel mare verde. Qui, la brezza s'incanalava fra le sponde del fiume e prendeva vigore, facendo rabbrividire i canneti e dondolare le barche legate alle boe, passando indisturbata fra le maglie delle reti, fra i cavi tesi, le cime gocciolanti e i pali incatramati dei pontili. Leggero come un sospiro, il vento lambiva l'acqua del fiume e la increspava nel senso inverso alla corrente, come a trattenerla, come se non accettasse di vederla andare a perdersi nel mare. Più avanti, la periferia della città con i palazzoni di mattoni rossi, i terrazzini impilati in bell'ordine, i giardinetti e le siepi d'alloro, il ponte della ferrovia con le massicciate piene di graffiti colorati e la vecchia torre di guardia. Ora, alle rive erbose si erano sostituite le sponde in muratura e i palazzi del centro si rispecchiavano tremuli nel fiume che disegnava una grande ansa verso occidente. La brezza passava attraverso le luci dei ponti, si divideva nei vicoli stretti e nelle piazze, nelle strade e nei giardini nascosti. Jada alzò il muso e fiutò l'aria. Era sempre così, verso sera, sul finire dell'estate, ma non quella volta, non per Jada. Fra gli odori di fiori e d'erba, di letame, di terra, di fumo e di acqua ferma, percepì qualcosa che le fece emettere un latrato sommesso, roco, quasi un lamento: era l'inconfondibile odore della morte.
Per Martina, le giornate d'estate, le belle giornate, iniziavano con una robusta tazza di caffè nero che beveva, a piccoli sorsi, rannicchiata su una sedia di vimini, in giardino. Quella mattina, Jada non andò, come faceva sempre, a farle le feste e ad accucciarsi vicino a lei. Fu lei a chiamarla con la voce ancora assonnata: - Buongiorno! Vieni. - Il cane accennò uno scodinzolio e le andò vicino. - Che c'è, Jada? È tutta la notte che non trovi pace! - chiese Martina, scompigliando il pelo sulla testa del cane. Jada tornò verso il cancello. - Vuoi uscire? Va bene, fammi finire il caffè e andiamo. - Il cane annusava l'aria e, a tratti, strusciava la zampa sul cancello. - Ho capito! Fammi vestire! - Martina s'infilò una tuta da ginnastica, prese il guinzaglio e uscì in giardino. Jada non si abbandonò alle consuete manifestazioni di entusiasmo, limitandosi a un dimesso scodinzolio. Appena il cancello si aprì, il cane cominciò a tirare e Martina dovette più volte contenere il suo entusiasmo, con decisi strattoni al guinzaglio. - Cos'hai, stamattina? T'ha morso una tarantola? - Jada ignorò i giardinetti, meta abituale delle sue uscite, e puntò verso il fiume con Martina che la seguiva, cercando di moderare la sua irruenza con continue esortazioni: - Piano, vai piano! - Passarono il ponte e, in vista della vecchia costruzione che un tempo era servita da stazione di controllo delle piene del fiume, Jada cominciò a lanciare guaiti, sordi come colpi di tosse, e a tirare il guinzaglio con maggior vigore. Martina, che raramente l'aveva vista in uno stato d'eccitazione simile, assecondò l'andatura del cane, che la indusse ad allungare il passo, quasi fino a correre. Arrivate alla stazione di controllo, Jada, sempre più eccitata, annusò intorno e cominciò a graffiare con le unghie la vecchia porta, chiusa da una pesante catena arrugginita. - Cos'hai sentito? Non c'è niente qui - diceva Martina con voce suadente. Jada sembrava non ascoltare la voce pacata della padrona che cercava di calmare la frenesia che, in un continuo crescendo, si era impossessata del grosso cane lupo che andava da una parte all'altra della facciata dell'edificio per poi tornare sui suoi passi. Quando il cane si alzò sulle zampe posteriori e riprese a graffiare la vecchia porta scrostata, Martina iniziò a preoccuparsi. - Cos'hai sentito? - ripeté a bassa voce, e la domanda non era rivolta solo a Jada. - Aspetta - disse, mentre a fatica cercava di spostare due grosse bozze da muratura davanti alla porta. Salì in piedi sul rialzo improvvisato e quando appoggiò l'occhio a una delle fessure della porta, il cuore le balzò in gola, lo stomaco le si strinse in uno spasmo improvviso e violento e il caffè le uscì di getto dalla bocca. Poi le si annebbiò la vista e perse i sensi.
II
- Signorina, cosa è successo? - Martina sentì la voce provenire da qualche parte alla sua sinistra e, contemporaneamente, la lingua di Jada che le leccava il viso. L'uomo si avvicinò guardingo, tenendo d'occhio le mosse del grosso cane. Martina non riuscì a dire una parola, si limitò a indicare la porta. L'uomo si avvicinò ancora: - Non morde mica? - chiese. Martina si mise a sedere e lo rassicurò, poi con un filo di voce: - Chiami la polizia. C'è un morto, lì dentro! - disse volgendo lo sguardo verso la porta. L'uomo prese il suo cellulare e compose il 113: - Pronto, venite, c'è qui una signorina che dice che c'è un morto! - - Chi parla? Dica il suo nome e cognome - rispose la voce dall'altra parte. - Sandro Orsini, ma non sono io che ho trovato il cadavere. - - Chi lo avrebbe trovato, questo cadavere? - - Non lo so, cioè non so come si chiama. È una signorina che era a terra svenuta... - - Stia calmo e mi faccia capire. Ci sarebbe una signorina svenuta che ha trovato un cadavere. Dove sarebbe questo cadavere? - - Non lo so, io non l'ho visto. È la signorina che l'ha visto. - - Quindi la signorina svenuta ha visto il cadavere che poi se ne è andato prima che arrivasse lei! - - No, cioè sì. Era svenuta, e quando si è ripresa mi ha detto di aver visto un morto, ma io non l'ho visto. - - Signore, questo è un numero per le emergenze. Non mi faccia perdere tempo: questo cadavere c'è o non c'è? - Martina, che nel frattempo si era ripresa, fece cenno all'uomo di passargli il telefono. - Pronto, mi chiamo Martina Pardini. C'è un cadavere all'interno della vecchia stazione di controllo sul fiume. Venite, vi aspetto qui. Il signore con cui ha parlato è un passante che mi ha soccorso. Ero svenuta. - - Signorina, è sicura di ciò che ha visto? Forse, svenendo... - - Sono più che sicura! - lo interruppe Martina. - Vi aspetto qui. -
L'auto della polizia arrivò dopo una decina di minuti. Due uomini scesero e, con calma, si diressero verso Martina: - È suo quel cane? - poi, senza attendere la risposta - Lo tenga al guinzaglio. - - Lo sto facendo - assicurò Martina, che spostò la mano con cui teneva il guinzaglio più vicina al collare. - È lei che ci ha chiamato? - - Sì, sono stata io. - Il poliziotto si accorse subito che l'ipotesi del centralinista che li aveva allertati non corrispondeva a realtà. La ragazza non aveva l'aspetto di una tossica e, a parte il pallore, sembrava a posto. - Sono l'ispettore Dilani, e questo è l'ispettore Serra. - - Martina Pardini. - - Dov'è questo cadavere, signorina? - Martina si girò e indicando la porta: - Lì dentro. Il cane l'ha sentito e mi ha trascinata sin qui. - I due si avvicinarono alla porta, poi uno dei due si voltò verso Martina che non si era mossa - È chiusa. Come ha fatto... - - Guardate dalla fessura - lo interruppe Martina. Il poliziotto accostò l'occhio alla fessura come aveva fatto Martina e si ritrasse subito, come se la porta scottasse: - Accidenti, accidenti! Serra, chiama la centrale, lì dentro c'è un... macello! - Serra avvicinò l'occhio alla fessura, e si pentì subito di non aver trattenuto il respiro. Si scostò dalla porta di qualche passo, prese il telefono e chiamò il commissario Pandolfi.
Varcare quella soglia fu come fare un balzo indietro nel tempo, non tanto per i vecchi muri scrostati e gli alti soffitti a volta, era piuttosto la scena centrale che rimandava agli anni bui del medioevo: al centro del pavimento era fissato, in verticale, un palo di metallo. La sommità del palo era conficcata tra le gambe di un uomo, nudo, ne attraversava completamente il corpo e usciva da sopra la clavicola sinistra. Le caviglie dell'uomo erano fissate con delle funi a dei pesi, le braccia erano legate all'altezza dei gomiti con una fune che le teneva verso l'alto, in una posa surreale. La corda che legava i gomiti girava intorno a una carrucola, fissata con un gancio al soffitto, per finire a un bidone di plastica blu, sospeso a mezz'aria. Nonostante la porta fosse stata spalancata e le due finestrelle non avessero più vetri, il fetore ristagnava, forte e nauseante. Il pavimento, di vecchie mezzane in cotto, pendeva verso il fondo della stanza dove si era formata una macchia incredibilmente ampia di sangue rappreso. Il dottor Avenzi, il medico legale, era in piedi vicino all'ingresso e guardava incredulo la scena. - Buongiorno, dottore. - - Commissario! Se è un buon giorno, non ne ha davvero l'aspetto! - Pandolfi guardò la vittima illuminata a tratti dai flash della scientifica che era già al lavoro. Dopo i rilievi fotografici, sarebbe stato possibile tirare giù il corpo e, forse, capire qualcosa in più. - Usciamo - disse Pandolfi, rivolto al dottore. - Qui non si respira! - aggiunse spostando di lato il telo che proteggeva la scena dalla vista di curiosi assiepati oltre i nastri di delimitazione. Pandolfi accese una sigaretta e Avenzi, a bassa voce: - Paolo, per ora posso dirti solo che difficilmente si tratta di suicidio! - Il tentativo di sdrammatizzare del dottore non fu colto da Pandolfi: - In vita mia non ho mai visto niente di simile! È stato impalato, ti rendi conto! Nel terzo millennio! - - Neanch'io ho mai visto niente di simile. Sarà un lavoro duro, più per te che per me! -
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Autori di Writer Officina
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Sono nato in Calabria, terra che ho lasciato con la mia famiglia alla tenera età di sei mesi. Ho fatto studi artistici e attualmente lavoro a Pisa dove svolgo l'attività di pubblicitario. Sono appassionato di paracadutismo ed immersione subacquea, amo i viaggi, l'arte, l'enigmistica, la lettura, il cinema, la fotografia e, più in generale, tutte le forme di espressione artistica. Coltivo con caparbietà e alterna perseveranza la passione per la scultura. Cerco di sfuggire con tutte le mie forze alla noia. Penso che ogni giorno debba segnare l'inizio di qualcosa di nuovo. Mi spiego meglio: sono convinto che non ci sia niente di peggio che lasciarsi assorbire dalle consuetudini. La routine è una delle peggiori nemiche della curiosità che è, a mio avviso, una dei più importanti propulsori della fantasia. Ho fatto molti mestieri, dal grafico pubblicitario all'ufficiale dei paracadutisti, ma potrei aggiungere il pittore, il creatore di monili ed altri ancora. Non c'è niente che accomuna queste attività se non la voglia di sperimentare cose nuove. Ho due figli ormai grandi, ho drasticamente ridotto gli impegni di lavoro e ho più tempo a disposizione per i miei hobbies. Mi piace conoscere persone diverse, fare nuove esperienze, mettermi alla prova. Insomma, a dispetto dei miei dati anagrafici, ho il fondato sospetto di essere ancora lontano dalla tranquillità dell'età matura, quella piena di saggezza e di abitudini, per intenderci. Vivo con mia moglie in campagna vicino a Pisa, ho un giardino piuttosto grande e due cani. Il mio sogno nel cassetto è che i due cuccioli smettano presto di fare buche ovunque.
Writer Officina: Qual è stato il momento in cui ti sei accorto di aver sviluppato la passione per la letteratura?
Franco Filiberto : Non saprei proprio dirlo. Sin da ragazzino ero affascinato dalle storie scritte, dai mondi fantastici che quelle parole riuscivano a far immaginare, dalle avventure che prendevano vita e che sembravano così “vere”. Ma questo credo sia qualcosa di comune a molti lettori, specialmente se adolescenti. A quel tempo i soldi da spendere in libri erano veramente pochi e le biblioteche erano il modo più semplice ed economico per avvicinarsi alla lettura. Lo scrivere e nato poco a poco, prima con racconti brevi, poi con storie un po' più complesse, anche se gli uni e le altre erano destinati, nella migliore delle ipotesi, a rimanere in qualche cassetto o a coprirsi di polvere.
Writer Officina: Dopo aver scritto il tuo primo libro, lo hai proposto a un Editore? E con quali risultati?
Franco Filiberto: Sono arrivato alla decisione di tentare la pubblicazione di un mio scritto molto tardi e lo devo quasi esclusivamente alle insistenze di mia moglie. Finito di scrivere, letto e fatto leggere ad amici e conoscenti, ho inviato il manoscritto a un buon numero di editori, da quelli più grandi a quelli meno importanti evitando accuratamente quelli a pagamento. Dopo circa due mesi (a me è sembrato un tempo infinito) ho ricevuto la risposta da una casa editrice, piccola ma agguerrita, che mi ha proposto un contratto di edizione e pochi giorni per decidere. Ho firmato e il primo libro ha visto la luce. Tre mesi dopo ho ricevuto la richiesta da un editore più blasonato ma ormai il gioco era chiuso. Inutile dire che le case editrici veramente importanti non mi hanno risposto e le pochissime che lo hanno fatto hanno trovato il mio lavoro “molto interessante ma non in sintonia con la loro linea editoriale”.
Writer Officina: Ritieni che pubblicare su Amazon KDP possa essere una buona opportunità per uno scrittore emergente?
Franco Filiberto: Credo di sì. Per carattere non amo molto i vincoli (i contratti editoriali ne sono pieni) e KDP consente all'autore di essere, almeno in buona parte, il gestore del proprio lavoro. A coloro che obiettano che KDP non fornisce gratuitamente editing, correzione bozze e altro vorrei far notare che moltissimi piccoli editori non hanno la forza di fornire realmente questi servizi (che spesso millantano) e certamente la promozione, vero punto dolente per gli autori che si affidano a piccole case editrici, è molto più efficace su KDP. Insomma, nonostante io mantenga contatti e collaborazioni con un editore piccolo ma intraprendente e leale, credo che il self publisching sia una via da percorrere per molti autori in attesa, se mai avverrà, che una grande casa editrice si faccia viva.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Franco Filiberto: Sono molto affezionato a un thriller dal titolo “La mossa del gambero” pubblicato con Arpeggio Libero Edizioni. È una storia molto intensa che parla dell'odio di un bambino che non trova pace e perdono per lunghi anni e cerca solo vendetta, una vendetta che arriverà in età adulta e che purtroppo riuscirà solo a far nascere altro odio e altre morti. La storia raccontata in questo libro, sequel di “Le ali sulla pelle”, fa parte di un progetto che vede come protagonisti il commissario Pandolfi, l'ispettore Niccolini ed altri che i miei lettori conoscono già e che presto ritroveranno in una nuova avventura.
Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Franco Filiberto: Sono refrattario a ogni tipo di impostazione e non ho simpatia per scalette e schemi. Parto da un'idea che quasi sempre corrisponde alla scintilla che innesca gli eventi che costituiscono la spina dorsale della storia. Quando, dopo molti ripensamenti, variazioni e adeguamenti mi convinco che la trama può “reggere”, inizio la stesura e aggiungo personaggi e fatti man mano che procedo. Arriva un momento nel quale si ha la sensazione che i personaggi inizino a decidere da soli, si muovano secondo il carattere e le peculiarità che ho creato per loro, insomma, sembra che vivano di vita propria. Da quel momento in poi tutto scorre più veloce e senza intoppi o ripensamenti.
Writer Officina: Per i personaggi hai fatto riferimento – magari in parte – a persone reali oppure sono solo frutto della fantasia?
Franco Filiberto: I miei personaggi nascono quasi esclusivamente da persone reali, persone che conosco o che ho avuto modo di osservare da vicino. Prendo pezzetti di carattere, qualche fissazione, piccole porzioni di gusti e propensioni e li impianto sul personaggio che devo creare, un po' alla Frankenstein, per capirci. Per alcuni anche il nome è rimasto lo stesso. Per esempio il colonnello Nizzoli che fornisce preziose informazioni al commissario Pandolfi esiste davvero e ha un carattere molto simile a quello del personaggio che ho raccontato nel thriller “Le ali sulla pelle” così come la giornalista Tiziana Sicuro, presente anche ne “La mossa del gambero”, nella realtà è una mia cara amica. Altro discorso quando la storia trae spunto da fatti realmente accaduti come nel giallo investigativo “Zic, il misterioso caso del graffitaro scomparso” nel quale, almeno per alcuni personaggi, ho cercato di essere il più possibile fedele alle caratteristiche delle persone reali mentre per gli altri mi sono affidato alla fantasia.
Writer Officina: Cosa c'è di te nei tuoi romanzi?
Franco Filiberto: Sono convinto che ogni autore, volente o nolente, metta qualcosa di sé, della sua vita, delle sue esperienze e delle sue convinzioni nelle storie che scrive. Io non faccio eccezione, così molto spesso, riflettendo su alcuni punti di vista dei miei personaggi, ho riscontrato evidenti analogie col mio modo di pensare. Insomma, più o meno consciamente ho ritagliato piccoli frammenti di me e li ho trasmessi ad alcuni dei miei personaggi.
Writer Officina: Puoi farci un esempio o darci una citazione di un tuo romanzo che ritieni possa rispecchiare un aspetto del tuo carattere?
Franco Filiberto: Potrei farne molti ma a questo, tratto da “La mossa del gambero”, sono particolarmente affezionato. Ho sempre avuto grande stima delle persone che preferiscono avere dubbi, che chiedono a sé stessi la capacità di valutare con serenità e rigore le cose che accadono intorno a loro senza affidarsi a delle certezze che spesso si rivelano miopi e ottuse. Anche il mio commissario Pandolfi sembra pensarla in modo simile.
“Si fermò a riflettere su quanto odio, quanta malvagità avesse aleggiato intorno a lui durante quell'indagine, di quanta perversione fosse stato testimone nei mesi trascorsi e anche quanta pena avesse provato per quelle vite bruciate. Pena, orrore, sconforto, necessità di giustizia: sentimenti forti e contrastanti che si rincorrevano nella sua mente, che tentavano di confondere e sbiadire la sua linea di confine fra il bene e il male. Gli venne in mente suo padre quando cercava di spiegargli le variabili sulla linea di orizzonte. Lui era un bambino e la rotondità della Terra, l'altezza del punto di osservazione, la limpidezza dell'aria erano concetti che non riusciva a capire completamente. Capì solo che quella linea, che lui vedeva distintamente, in realtà non era lì per tutti, non era un confine fisso e assoluto. Insomma, quella linea poteva essere altrove. Scacciò il pensiero, quasi temesse che quel paragone tra l'orizzonte e la linea di confine tra bene e male potesse influenzare il suo punto di vista sull'accaduto, o sugli attori di quella tragedia. Valutare quelle variabili non spettava a lui, il suo compito gli era chiaro e lui, quel compito, l'avrebbe portato a termine.”
Writer Officina: In generale pensi di doverti documentare prima di scrivere una storia?
Franco Filiberto: Assolutamente sì, ho il terrore di scrivere cose inesatte e cerco sempre di documentarmi su ciò che devo raccontare. Nella maggior parte dei casi chiedo aiuto ad addetti ai lavori, leggo manuali e pubblicazioni o più semplicemente mi affido al web. A questo proposito ho un aneddoto che può chiarire meglio come la penso. In un mio libro c'è un particolare a prima vista irrilevante ma che diverrà, più avanti, un indizio importante per capire un aspetto essenziale di tutta la storia. Si tratta di una caramella rinvenuta, con una Tac, nella gola di un uomo ucciso brutalmente. Tutto funzionava alla perfezione ma all'ultimo momento mi è venuto un dubbio: una Tac può evidenziare una caramella? I pareri di addetti ai lavori ed esperti erano discordanti. Ho riflettuto sull'opportunità di eliminare la caramella incriminata ma poi, non volendo assolutamente rinunciare a quell'indizio, ho spiegato il problema ad un medico che ha eseguito l'esame strumentale sulla caramella che è, per mia fortuna, risultata visibile. Una Tac val bene la certezza di non scrivere cose inesatte! Almeno, credo. |
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