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Raccontare troppo
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- Eravamo stati troppo felici, quella settimana nel Devon, per solo immaginare ciò che avrei appreso dal notiziario della Bbc l'ultima sera ad Appledore. Signor magistrato, pareva proprio lei, la morta di cui i telegiornali diffondevano quella foto sgranata. Era lei. La mattina dopo, in paese non si parlava d'altro ma io non volevo parlarne, né con Bianca... - - Chi è Bianca? - mi domanda il magistrato. - Mia moglie. Né a lei, né tantomeno ai figli volevo dire quel che avevo sentito e visto in tivù, signor magistrato. - - Normale - m'interrompe severo. - In che senso, normale? - - Queste cose non si dicono, vero? - m'incalza digrignando i denti, malizioso. - Ma cosa ha capito? - domando guardandolo dritto negli occhi. - A me non si dice “cosa ha capito”. - - Scusi. Insomma, non volevo rovinare quei giorni fantastici, quella vacanza irripetibile, con notizie del genere. - - Vorrei vedere... - - Ma che cosa? Io mica c'entravo. Semplicemente, l'ho detto, non intendevo turbarli. E infatti nulla ho detto a loro. Il giorno dopo le prime pagine dei tabloid si assomigliavano tutte. I titoli uguali, più o meno: "Efferato omicidio". Occhiello: "Sul foglietto insanguinato, stretto in pugno dalla vittima, la scritta: 'Ho raccontato troppo'". - - So quel che scrivono i giornali - sbuffa il magistrato. - Ma io voglio sapere altro - incalza. - Non mi faccia fare brutta figura con i colleghi inglesi - . - Altro? - domando guardandolo negli occhi. - Se vuole le racconto tutto di quello che so su quella vostra faccenda, che è niente - . - Vostra faccenda? - domanda sottolineando con la voce il - vostra - . Spalanca gli occhi e poi corruga la fronte, il magistrato. - Mia no di certo - rispondo. - Posso parlare di quei nostri giorni laggiù, il mese scorso. Il resto è niente. E quando è niente, si finisce di raccontare troppo, che è rischioso e inutile quanto raccontare niente. Ma lascio a Lei giudicare, poi, se è davvero troppo... - La mia voce s'incrina. - Troppo... ? - m'incoraggia il magistrato. - Insomma, lascio a Lei giudicare se è troppo quel che Le dirò - dico a fil di voce - come nel caso della povera donna, che proprio a noi aveva raccontato il suo troppo - . - Certo che giudico io, che diamine... - - Scusi - sussurro, facendomi piccolo sulla sedia come quando a scuola non azzeccavo la risposta durante un'interrogazione. - Vuole acqua? - mi domanda, indicando una bottiglietta accanto al suo cellulare. - Sì, grazie - rispondo umettandomi le labbra, secche per l'emozione prima che incominciassi a parlare. Il magistrato svita il tappo della minerale e mi mette davanti la bottiglietta e un bicchiere di plastica. Con gesto lento prendo la bottiglietta, mentre cerco di organizzare le idee. Indugio nel togliere il tappo. - Allora? - mi domanda. Gli faccio segno di aspettare con la mano e, preso dall'emozione, dimentico il bicchiere e porto la bottiglietta alla bocca. Nel farlo, mi sorge il terrore che il magistrato mi possa credere uno che voglia prendere tempo. Un impostore. Uno che si fabbrichi una sua verità, per nascondere chissà che. Invece, la mia è una storia semplice. Ma per raccontarla, devo pensarci su. Il ricordo è fresco, e troppi dettagli mi s'affollano in testa. - Allora, questa storia? - insiste il magistrato, impaziente. L'acqua mi va di traverso. Tossisco. - Dunque? - m'incalza il magistrato. - Forse voi siete stati gli ultimi a vederla - . - Ah, saperlo - allargo le braccia e spingo in su le spalle, come il filosofo Massimo Catalano in Quelli della notte tanti anni fa che mi pare preistoria. - Questo dicono i giornali - . - Quel che dicono i giornali lo so. - - E poi, una vecchia ci ha detto che quella sera la Debenham se ne andò al circolo del bridge. Dunque loro, sono stati gli ultimi. - - Sì, ma quelli dicono che avesse raccontato di voi. - - E dunque? - - E dunque si sbrighi a raccontare, Tibaldi. - - Va bene, racconto, ma è una lunga storia, avverto. - - Avverte, Lei? - domanda piccato il magistrato. - Sì, insomma, le dico che è lunga. Troppo recente, troppo bella. Incomincia in Francia. Una normalissima vacanza. Dovremo viaggiare e fare molta strada, per capire. Forse. Ripercorrere ogni passo. E alla fine, chissà... - - Chissà... ? - sbuffa spazientito il magistrato. - Chissà se arriviamo da qualche parte. Del resto, la mia storia è solo una cornice attorno a quello che state cercando. E non è neppure detto. - - Questo lo lasci giudicare a me. E poi ne ho, di tempo - mi risponde il magistrato che, slacciatosi il colletto della camicia bianca e arrotolate le maniche sopra il gomito, si mette comodo sulla poltroncina osservandomi in silenzio. - Quanto tempo? - domando, asciugandomi il sudore col dorso della mano. - Molto. - PARTE 1: SULLA PEQUOD (4-6 agosto 2005) Giovedì. In Pequod fra Borgogna e Champagne
- Un chasseur sachant chasser sans son chien est un bon chasseur - . I - ss - e gli - sh - del corso di francese su cd infilato da Bea nell'autoradio scorrono sonori come risacca sulla battigia, nel ronron dell'auto, la mia Pequod. Tutti ascoltano il silenzio. Bea a settembre incomincia il liceo. Lei ripete ad alta voce, forse per compiacermi: indovino i suoi sguardi giungermi dal sedile posteriore. Ci prova anche Leo, il più piccolo dei tre dall'alto dei suoi quattro anni e mezzo, forse per farsi bello di fronte al fratellame: rassegnato alla lagna di quelle cose da grandi, tanto vale fingere interesse. - An sciasser saccià saccè - dice lui tutto d'un fiato. - An sciassör sascian sciassè - lo corregge in un francese più plausibile Bea. Chicco, fratello di mezzo, dodici anni e un po', scoppia in una risata, assorto nel libro che gli ballonzola in mano. Bea fa una smorfia, Leo lancia una macchinina contro Chicco, lui la schiva con stile e una pernacchia. - Un chasseur sachant chasser ... - recita fluida Bianca, mia moglie. Sorrido. Gli esercizi d'ascolto del cd scolastico di Bea mi ricordano quelli delle audiocassette aziendali che ascoltavo anni fa guidando verso Lovere in missione di lavoro, non avendo tempo per frequentare lezioni. Mi cimento anch'io, bello forte: - Un chasseur sachant chasser sans son chien ... - . - Pa, mi confondi - mi sgrida Bea. - Scusa - rispondo a mia figlia, e rivolto a Bianca: - Ce l'ha insegnato Jean Luis a Forfar in Scozia quando lavoravamo a raccogliere fragole, ricordi? - Annuisce, Bianca. - Proprio lo stesso scioglilingua, Samu. Forte. - - Grazie - rispondo compiaciuto. - No, intendevo Jean Luis. Forte. - Non rispondo. Mi verrebbe da dire che anch'io conosco scioglilingua, e potrei tramortirli col mio - Peter Piper picked a peck of pickled pepper - . Ma taccio. Jean Luis era un ragazzo tutto pepe di Besançon. Dico - era - non perché sia morto, ma perché non l'abbiamo più visto dall'estate in Scozia nel '78, quando Bianca e io ci mettemmo insieme. Ogni volta che si parla di Jean Luis ottengo quella battuta: - Forte, Jean Luis - . E a me un po' spiace. Scemo io ad averlo tirato in ballo.
Guido, io, e Bianca da buona moglie mi controlla: - Attento lì - , e - Non stargli appiccicato - , e (di un'auto cui sto troppo appiccicato) - Hai letto bene la targa di quello? - , e - Rallenta - , e - Ma non seguiamo un funerale, accelera - . Bea toglie il cd di francese dall'autoradio. Io ne infilo uno di Conte. Leo ripete ancora: - An ciasser saccià saccè - . Bea ride; Chicco richiude il libro e la guarda storto. Arriviamo in Borgogna. Bianca consulta la mappa mentre, dietro, i tre bambini cicalecciano tranquilli. - Chalon sur Saône - : ogni lettera di questo cartello autostradale mi parla di papà che lavorò da queste parti in ferrovia subito dopo la guerra. Sostituisco il cd di francese con uno di Conte. - Con che libro affascini il tuo cuore... - . Sgusciamo via dall'autostrada a Nuits Saint Georges sulla complanare a una pistucola di volo in erba giallastra, l'Aérodrome La Berchère. Un aeroplanino rosso, fermo sull'erba, galleggia nel vento caldo. L'avvocato di Asti canta: - Un aeroplano/ nell'aria bionda e calda/ vola piano.../ Scendi pilota,/ fammi vedere, scendi/ a bassa quota,/ che guardi meglio/ e possa raccontare/ cos'è che luccica sul grande mare - . Dai tigli attorno al campo volo potrebbe spuntare Fabien l'aviatore del Volo di notte, per decollare e osservare cosa luccica sulla Manica che domani attraverseremo, ancora. O forse Saint-Exupéry in persona, in procinto di salire sul suo ricognitore disarmato, o il Barone Von Richtofen, occhialoni e sciarpa al vento uguale a quella del Piccolo Principe. Della canzone di Conte, non manca neppure il mare. Lì vicino, un antico maniero. Anzi no, un hotel. Bianca mi indica l'insegna sorridendomi di sottecchi e domanda scherzosa, certa della risposta negativa: - Ehi, Samu! Hai prenotato qui al... fammi leggere... al Château De la Berchère? Romantico! - . Ricambio il sorriso strizzando gli occhi per il sole greve del pomeriggio sparso sui vigneti. Non le dico che ci avevo pensato ma non avevo trovato posto. Tanto, non ci crederebbe. Eppure è la verità. Anzi glielo dico. - Ma va', Samu - mi zittisce. Ecco, non mi crede.
Gevrey Chambertin. I turisti vanno per cantine, e noi ci addentriamo in una vigna a sgranocchiare gallette di riso nel mezzo dei filari: cena sobria causa mal di pancia dei bambini. Bianca e io ci adeguiamo per dare l'esempio. L'aria è spessa e il sole spande profumi. - Senti questi profumi - dico a Bianca impegnata a coprire con quattro fazzoletti di carta altre essenze prodotte da Leo. - Sì, li sento - risponde aiutando Leo a risistemarsi i pantaloncini. - Dicevo questi - indico i filari - come nella vigna a Neive che nonna affidava in affitto per sei bottiglie di vino l'anno - . - Sì, fino a quando - dice lei con un pizzico di sarcasmo - andatasene nonna, papà ha trasformato il vigneto in pioppeto - . - Avrà avuto i suoi motivi - rispondo stringendomi nelle spalle. S'alza una gradevole frescura. La brezza mi agita il pullover blu di una taglia di troppo, comprato in California. Passi casuali tra i vigneti ci portano a una chiesa circondata da cipressi. - È dell'undicesimo secolo - legge Bianca sulla guida. È magia. La luce cala, lenta, e il fresco sale. Ridiamo tutti. Anche chi ha avuto mal di pancia. L'atmosfera lieve alleggerisce i cuori. - Che ridere! - esclamo. - Come Aristide della canzone di Gaber, o Gigetto - . - Chi è Gigetto? - domanda Leo mentre osserva ogni dettaglio di una macchinina. - Un signore dalla scarpe grosse, che ad Alba cantava e inseguiva le infermierine - spiego. - Perché inseguiva le infermierine? - insiste il piccolo. - Perché gli piaceva ridere - taglio corto. - Ma che bello ridere così! - . Nessuno altro commenta. Il silenzio è assenso. Ridiamo, ancora, perché domani è un altro giorno, e si va a Nord. E dopo un'altra notte a Calais, l'Inghilterra. Camminiamo sulla ghiaia del sentiero. - Bomba o non bomba, noi arriveremo... - mi sfugge di cantare. - Uccellaccio del malaugurio! - mi ammonisce Bianca - ma che bomba e bomba, non ne hai abbastanza di quel che sta capitando, su, a Londra? - . - Che è capitato, vorrai dire. E poi scusa, Bianca, intendevo solo che arriveremo, questa volta. Non come allora, che... - La guardo, taccio. - Allora, che... ? Sentiamo un po' - incalza lei, seria, già prefigurando disgrazie, con lo sguardo del - vedi che lo dicevo? - . - Quel sabato. Cinque novembre del '94. Eravamo in autostrada con te e Chicco. Bea, tre anni, era ad Andora dai nonni. Leo non c'era ancora ... - . Mi arriva una macchinina da dietro, dritta sul coppino. Non è di metallo. Benedetta plastica. - Ahi! - esclamo incassando la testa nelle spalle, più per scena che altro. - Io c'ero, invece! - esclama duro il figlio piccolo, di quattro anni e mezzo, particolarmente contrariato per la sua terzogenitura. E corre a raccogliere la macchinina. - No, non c'eri, Leo - sorride Bianca - sei del 2000, anno bello tondo; il più bello - . Facile a dirsi. Leo è geloso del fratello e della sorella che si sono goduti un bel po' anni prima dell' - anno bello tondo - . - Se volete vi racconto - dico. - Posso, allora? - . Attendo. Silenzio. Parto.
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Autori di Writer Officina
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Albese di nascita (1960), torinese di adozione. Laureato in Lingue nel 1984 con tesi su Orwell (non su 1984), lavoro dal 1977, ho maturato svariate esperienze manageriali in molte aziende dei più disparati settori e ho tre figli. Prima di scrivere narrativa ho collaborato a un giornale locale (anni ‘80), pubblicato poesie (Diario in frammenti, 1987), scritto un capitolo per un Nobel per la Pace (Woodrow Clark, Sustainable Communities). Ho tradotto (sinora per mero piacere personale) Death of a Salesman di Arthur Miller (1992), The Tenants (1993) di Bernard Malamud, Relato de un nàufrago di Gabriel Garcia Màrquez (1995), Muesli at Midnight di Aidan Mathews (2019), An Honest Man (2020) di Ben Fergusson, The Man Who Saw Everything (2020) di Deborah Levy. Sette i romanzi pubblicati sinora (nessuno a pagamento né in autopubblicazione): Volevo vedere l'Africa (2010), All'orizzonte cantano le cascate (2013), L'alba dei miracoli (2016), Mùnscià (2017), Spegnere il buio (2019), Raccontare troppo (2019), Tu, Bianca e Johnny (2020). Svariati i racconti: in Possa il mio sangue servire (2015) di Aldo Cazzullo, nella Rivista "Pastrengo" (2018), in Piemontesi per sempre (2019) di Autori Vari, e nella rivista "Zona di disagio" (2020)
Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Teresio Asola: Ho sempre letto tantissimo, fin da ragazzo, ormai troppi anni fa. Due libri in particolare mi hanno lasciato addosso la voglia di provarci. Due libri molto diversi l'uno dall'altro. Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, letto almeno sei volte nella mia vita, la prima volta alle Medie, e Relato de un nàufrago, letto in spagnolo una trentina d'anni fa e subito da me tradotto per il piacere di riscriverlo lasciandomi condurre dalla penna di Gabriel Garcia Màrquez.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Teresio Asola: Difficile dirlo. Come dire a quale dei miei tre figli sono più affezionato: verrebbe da dire a tutti allo stesso modo. Tuttavia, forse il primo, Volevo vedere l'Africa, è quello che tra tutti ancora oggi mi spiace sia andato esaurito nelle librerie troppo presto e, vendute mille copie, non sia poi stato ristampato. La storia è formidabile, forse perché ispirata alle vicende – vere – di mio padre. Un vecchio di 85 anni, malato di cancro, racconta al figlio la sua avventura giovanile: ragazzo di diciott'anni parte volontario per l'Africa nel 1942 da un paese delle Langhe, combatte in Libia e Tunisia e dopo la disfatta di Enfidaville, catturato dagli inglesi è prigioniero nei campi francesi e americani in Tunisia e Algeria. Degli americani diventa cooperatore (Italian Cooperator), ne veste l'uniforme e con loro s'imbarca per Plymouth. Dalla città inglese scende in Normandia poco dopo lo sbarco alleato, giù fino a Parigi appena liberata e a Marsiglia dove per arrotondare lavora come interprete e accompagnatore degli ufficiali americani per i bassifondi. Torna, poi, ad Alba, ma spaesato torna in Francia, dove emigra, sans-papier ante litteram, passando per sentieri di monte con passeurs del luogo. Compiuta l'esperienza di qualche anno di lavoro in ferrovia dove conosce l'intolleranza mentre incontra nuove opportunità, il giovane torna in Italia. Un libro di guerra, di memorie, di confronto fra generazioni, di sogni realizzati a metà ma utili per maturare. Di desiderio di partire e di bisogno di un ritorno. Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Teresio Asola: Prendiamo il primo romanzo di cui ho parlato prima, Volevo vedere l'Africa. Nasce da certe rivelazioni fattemi da mio padre sul letto di morte, undici anni fa: storie di guerra, battaglie, prigionia, collaborazione con gli Alleati, ritorno a casa in divisa americana di un soldato italiano e successivi spaesamento, voglia di fare e migrazione clandestina in Francia. Dopo aver intervistato mio padre mi sono messo a scrivere, senza ben sapere dove mi portasse la scrittura, riempiendo i giustificabili vuoti di memoria con l'invenzione narrativa e la ricostruzione storica, fatta attraverso ricerche d'archivio. Lo schema iniziale è stato il diario scritto da mio padre durante la prigionia in Algeria. Anche per il secondo romanzo, All'orizzonte cantano le cascate, sono partito da un documento (un diario manoscritto di un macellaio di bordo di un veliero inglese che a inizio ‘800 faceva la spola tra Inghilterra e India), per poi dare libero sfogo alla creazione, sorretta sempre da un buon lavoro di ricerca storica. Nel terzo caso, L'alba dei miracoli, dove parlo di un bambino degli anni '60 nella città simbolo del miracolo economico, Alba, mi sono lasciato guidare da ricordi personali, oltre che da testimonianze di prima mano e da una miriade di articoli di giornali dell'epoca. Anche in questo caso, non mi sono avvalso di uno schema rigido. Lo stesso per i successivi romanzi Mùnscià, Spegnere il buio, Raccontare troppo, Tu, Bianca e Johnny. Unica regola che mi sono dato, sempre: attingere ai fatti veri della vita da riplasmare nell'invenzione narrativa, perché non c'è nulla di più fantastico e inimmaginabile della vita realmente vissuta.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Teresio Asola: Smettere di scrivere è difficile come smettere di fumare (non fumo, ma immagino le pene). Da una dozzina d'anni dedico tutto il mio tempo libero alla scrittura. Perché? Non so. Certo non per soldi. E neppure per annegare dispiaceri della vita, che non riconosco. Di solito mi dedico a più di un libro. Mi piace accarezzare le storie, coccolarle, rifinirle, leggerle e rileggerle, scriverle e riscriverle, riporle in un cassetto e riprenderle, più e più volte. Mi è molto difficile separarmi da una storia, dai suoi affanni, dalla consuetudine di una convivenza con i personaggi e le trame e con le difficoltà, la fatica e le gioie del loro sviluppo. Ora, per esempio, ho – pronti e finiti, per quanto si possa considerare finito un libro – tre romanzi e una raccolta di racconti, oltre a una serie di abbozzi di storie. Due parole sui libri terminati, in attesa di un editore. Un romanzo ripercorre le vicende di un giovane che viaggia in un mondo più vasto rispetto alla ristretta visuale della sua cittadina simbolo del miracolo economico, sullo sfondo di momenti storici cruciali e di paure di inizio anni '80, non ultimi il terrorismo e le guerre in Medio Oriente. Un altro romanzo intreccia misteri di paese, intrighi di famiglia, sanguinosi fatti di cronaca, inciampi della memoria, tragedie della storia e finzioni della vita: destini incrociati fra tre luoghi piemontesi, inventati ma più che mai veri e familiari. Dove il reale può superare la fantasia. Un terzo romanzo parla di tre città, tre aziende e un giovane che volevano volare (metaforicamente e non solo). La raccolta di racconti è cucita da un filo conduttore: il lavoro manageriale in cinque diverse aziende, ognuna caratterizzata da sfide, aspirazioni e problemi propri, tra declino industriale e visioni di futuro. Ogni racconto - pur legato agli altri da un filo narrativo individuabile - ha vita e sviluppo propri, con finali talora a sorpresa. Ora, dopo quarant'anni di lavoro manageriale a tempo pieno e tanta scrittura a tempo perso, mi piacerebbe dedicarmi a tempo pieno al fare, artigianale e operaio: scrivere e tradurre. Prima di scrivere romanzi, da giovane ho scritto poesie, collaborato a un giornale locale e tradotto Death of a Salesman di A. Miller e Relato de un nàufrago di G. G. Màrquez. Nessuno dei due mi generò contratti, perché all'epoca, preso nel lavoro, non ne cercai. Ora, a sessant'anni, aspiro unicamente alla riscrittura fedele in italiano di belle storie. Ambisco a realizzare scritti onesti per il piacere del lavoro ben fatto, a beneficio dei lettori. Per questo da qualche mese mi sono rimesso a tradurre. Un romanzo inedito al mese. Ho affrontato Muesli at Midnight, di Aidan Mathews: un romanzo irlandese ostico e disorientante, ma gratificante come una scalata. Protagonisti la parola, il linguaggio, le immagini, i rapporti interpersonali, lo scavo nell'animo umano, fatto di corpo e spirito. Poesia e teatro. Poi è stata la volta di An Honest Man di Ben Fergusson, in cui il lettore è trascinato nel vortice di un intreccio sorprendente ambientato nel 1989 a ridosso della caduta del Muro di Berlino, in compagnia di personaggi scolpiti. La narrazione è incalzante, gremita di sorprese e rivolgimenti di fronte. Un racconto di amore, tradimento, storie familiari, spionaggio, alla ricerca delle tracce geologiche della storia come delle vicende individuali. Infine, The Man Who saw Everything di Deborah Levy. Di nuovo fantasmi e speranze della Berlino del 1989, in contrappunto con la Londra di quel periodo, proiettate poi nel 2006 funestato dalla Brexit e dalla contrapposizione tra spaesamento e certezze dell'età matura. Una narrazione commovente, inafferrabile, che parla di vecchiaia, giovinezza, amore, contrasti, inganni. Per nessuna di queste traduzioni ho trovato un editore italiano. Il momento non è propizio. Tuttavia continuo. Scrivere è una gran fatica, ma smettere è più dura. |
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