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Mùnscià
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Il silenzio dura lo spazio di un respiro. Esplode un grido. - Che ci faccio qui? - sputa sgangherato Ismaele, ventre a terra. È un cinquantatreenne, ancora bambino per la pensione e decrepito per ricominciare. Nelle strade, vuote di giovani e bimbi che non siano migranti in tuta grigia, Ismaele di rado incontra persone meno vecchie di lui. S'illude di non esserlo. Punta gli occhi cisposi al pinnacolo più aguzzo del vetro spaccato. Gli occhi, gonfi di lacrime, a malapena gli fanno distinguere una coccinella che si arrampica sulla scheggia tagliente. - Chi sono io? - sussurra tremando. Il volto è per un quarto sorriso e tre quarti smorfia, l'incarnato esangue, l'abito blu di lino stazzonato sporco di calcina, la cravatta regimental lasca buttata lunga su una spalla innevata di forfora, i mocassini neri imbiancati di polvere, la barba di un giorno. E una notte. I capelli, lunghi e scarmigliati, spruzzati di calcinacci e brizzolatura, ricadono casuali sulle orecchie e sul collo, a fatica domati sul davanti da una scriminatura indiscernibile. - Che ho fatto? - mugola, fronte e pugni a percuotere il parquet. Solleva lo sguardo. Davanti a lui la vetrata infranta, bocca sdentata sul piazzale vuoto della cartiera e sui suoi fantasmi: nelle schegge più gentili vede picchi granitici di Huangshan; nelle più aguzze, cuspidi dello Tsingy, buone per lemuri, lucertole, camaleonti e per questa coccinella che spicca il volo ad approfittare del suo mese di vita. Ismaele vorrebbe essere la coccinella che fugge, per scappare dal proprio grido che rimbomba come sotto le volte di un ponte, in questi spazi rarefatti che sono stati il suo ufficio. Ma per andare dove? Persino per andare dalla Longobardìa al Pedemonte o alle colline del Cotswold nei Regni d'Albione ci vogliono bolli e timbri. Figurarsi Huanghshan. - I-io? S-sono stato io? - domanda, debole, guardando tra le ombre le sagome di quella distruzione. Le parole risuonano chiare, in quel deserto industriale in cui da tempo non ululano più i guaiti rauchi delle sirene delle fabbriche, dove gaggie e pioppi (germogliati nello scheletro di ciminiere in disuso da lustri) spuntano come bandiere a mezz'asta, grovigli di tubature e condotte d'immane diametro dell'acciaieria vicina sono ridotti a un toboggan arrugginito e le capriate del capannone vicino, senza più copertura, paiono fasciame marcio di una nave rovesciata, chiglia all'insù come carcassa di capodoglio nel mezzo di un cantiere navale in disarmo. I topi ballano senza bisogno delle musiche di Hamelin, nei cul-de-sac delle strade diventati discariche abusive. Per lo più buie, la notte, a causa dei furti di cavi in rame. Pericolose da percorrere anche di giorno per i chiusini dei tombini asportati da ladri disperati. Ci si può ammazzare, volandoci dentro in auto. Erbacce e arbusti selvatici cresciuti a dismisura ai bordi delle carreggiate macchiano di verde le cento sfumature di grigio di quell'area industriale chiamata PIV3, che significa Piano Industriale Verde, ambizioso progetto varato ventidue anni fa per la riqualificazione, lo sviluppo e il rilancio grazie ad aree verdi e incentivi per nuove tecnologie energetiche. Delle aree verdi sono rimasti l'aggettivo nella terza lettera della sigla (PIV) e le erbacce a bordo strada. Dei nuovi paradigmi energetici, una microturbina in disuso da un paio d'anni. Ripensa all'urlo, ride nervoso: non è da lui alzare la voce; manco fosse Achab, gamba di legno piantata nell'incavo al castello di prua e sguardo fulminante di odio per la balena che così l'aveva ridotto, oppure il pirata Teach, ritto sul cassero della Queen Anne's Revenge a mitragliare ordini alla ciurma con spada in pugno, coltellacci e pistole alla cintura, tricorno piumato in testa, nel mezzo di una tempesta, prima del naufragio fatale sugli scogli del North Carolina. Scuote il capo, lo sguardo si spegne. - Sono stato io? - ripete. - Io? - La voce non vola su onde del mare e non vibra tra aghi di roccia malgasci; né risuona su picchi cinesi mai visti, guglie di religiosa bellezza, faraglioni emersi da un oceano di nuvole. I loro nomi, simili a preghiere, per un secondo gli addolciscono l'amaro degli occhi: Picco luminoso, Picco del Fiore di Loto, Fiori che spuntano dal Pennello sognante, Picco delle Nubi Purpuree. Davanti, solo questa bocca di vetro aperta sul piazzale deserto. Ismaele arretra d'istinto, sui gomiti come visto nei film. Lo fa sempre (non sui gomiti), in prossimità di un salto: un dirupo, un balcone. O questa vetrata infranta. Allontana da sé le carte sparse sul pavimento come alghe dopo una tempesta. La mano afferra la gamba della scrivania, in basso. Le dita esangui per la presa. Lo sguardo triste per lo sconcerto: lui non ha mai odiato. Neanche ora. Ma quell'urlo, per lui nuovo... Anche nell'ultimo giorno di lavoro e in questa notte di pazzia pura, pur avendone avuta occasione, niente, prima di quella domanda che ancora gli rintrona dentro - Che ci faccio qui? - Nessuno l'ha mai visto arrabbiarsi. Rabbuiarsi, certo. Adombrarsi, anche. Tacere, abbassare le spalle, aggrottare le ciglia, incupirsi, accentuare la ruga che gli taglia in diagonale la fronte come una cicatrice, incurvare a dismisura la parabola rovesciata delle labbra, sotto le due rughe verticali tra naso e bocca, sì. Muovere la gamba a spasmi, seduto in sala riunioni o al tavolo della cucina a cena, martoriarsi il pollice con l'unghia dell'indice mentre accompagna a scuola il terzo dei cinque figli, Lucio, pure. Gesti di stizza, anche: appallottolare violento la fotocopia di un decreto ingiuntivo o di una diffida, mordersi a sangue il labbro inferiore; oppure, da solo in ufficio, abbattere sulla scrivania un pugno ben assestato, poi alzarsi e replicare sull'anta dell'archivio per godersi il maggior rimbombo. O, nel chiuso dell'auto, lanciare la borsa del computer sul sedile posteriore, aprire la portiera senza evitarne l'urto contro il muro del garage, lasciarsi cadere al sedile di guida, sbottonarsi il colletto della camicia, allentarsi la cravatta, richiudere sbattendo, accendere a palla un CDdi Springsteen e urlare forte - Cazzo! - dentro il ritmo indiavolato di Born to run. O, la sera a cena, far cadere da mezz'altezza il cucchiaio dentro il passato di verdura per vedere l'effetto che fanno gli spruzzi di colore fecale sulla camicia azzurra, sull'abito grigio più grande di una taglia, e la scena complessiva su moglie e figli. Che poco sanno e nulla possono. Ma infuriarsi, no. Fosse fumatore, sarebbe a tre pacchetti al giorno e avrebbe il dito medio giallo di nicotina, la pelle grigiastra e gli occhi acquosi. Non nutre astio verso gli altri; per sé stesso, forse. Può aver commesso qualche errore come chiunque agisca, mai cattive azioni. E c'è paura. Un bel dire “Male non fare paura non avere”. Male non fa perché non saprebbe da dove incominciare, Ismaele, ma la paura resta. Anche di sé stesso, che non ha mai urlato. Non gli piacciono cori da stadio, né risse da Nemoparlamento, dove è tutto un imprecare e inveire; bestemmiare, persino, senza costrutto né ragionamento, attenti a emettere suoni o a dire battute, anziché a fare qualcosa: raro si sostenga “Questo l'ho fatto”, tutti concentrati a dire: “Permettetemi una battuta”. “L'ho detta io, non osare dirla tu!” Sproloquiare senza struttura e contenuti, mentre il Paese trema e tutto crolla. La scorsa settimana un nuovo terremoto negli Appennini. Lo inquieta aprire i giornali la mattina sapendo che le cronache sono superate, travolte dallo stillicidio dei fatti: se non è il terrorismo, è l'emergenza idrogeologica o climatica, o l'incalzante povertà giovanile; curioso, sfogliarli con la sensazione di saperne più di loro avendo già consultato Nemonet. Ismaele vorrebbe saperne meno, talvolta. Sorride, perché l'urlo gli sussurra che è vivo, dopo la notte di follia e di solitudine. O di sogno. Negli occhi sente il fuoco. Se li stropiccia due, tre volte. Vede macchie gialle e poi nere. Si trattiene per non peggiorare l'irritazione. Copiose scendono le lacrime. Affaticamento o sogno. - Mi sveglierò da quest'incubo? - si domanda. Sente nausea agli occhi. Sorride storto, diceva “Nausea agli occhi”, da piccolo, per comunicare a mamma il sintomo della febbre. - Starò dormendo - auspica bofonchiando con voce a lui stesso inudibile. - Non sono io. - Forse lo ha solo pensato, ha mosso le labbra a mimare le parole. L'adrenalina lo tiene sveglio, dopo ore, ma la stanchezza gli ottunde i sensi. Sente vicina la resa. Non è più presente a sé stesso. - Poche ore e tutto questo sarà sparito - esclama. - O sono al cinema - mormora; - accavallerò una gamba, l'altra, poi accomoderò i gomiti sullo schienale vuoto davanti e mi risprofonderò indietro, rincantucciato a dovere afferrandomi il ginocchio con le mani intrecciate sulla rotula; infine apparirà la parola “Fine” e me ne rimarrò seduto fino all'ultimo titolo di coda, a vedere chi ha cantato, scritto le musiche e cucito i vestiti; tra poco mi alzerò dalla poltrona su cui mi sto agitando come sulla graticola. - Arretra ancora sui gomiti; il freddo del pavimento sul ventre lo riscuote. - Macché cinema. Sono io l'attore. O è allucinazione. La vita è sogno - esclama con timbro potente. Il braccio destro sussulta come affetto da Parkinson. La testa trema, come sempre prima di una sincope. La lingua duole. Non per il parlare: parole ne ha spese poche. E neppure per attacco epilettico o perché abbia addentato cibo, ché da ore non mangia, ma per il malvezzo di mordicchiarsela fino a sentire il dolciastro del sangue, quando non si accanisce sul labbro inferiore.
2.
- No, non è sogno - sussurra incredulo, ciucciandosi il sangue. - No es sueño - traduce elevando il tono. Punta un gomito a terra, ancora, si trascina al vetro dell'armadiatura da ufficio. Si siede a terra. Esplora le ombre nel vetro per cercare il riflesso del suo volto. - Un incubo - farfuglia. Riconosce la sua testa nella vaga figura che si muove nel riflesso di fronte. Si osserva meglio. Mormora, scuotendo le spalle: - Non sono io - . L'ipotesi di non essere lui il disgraziato specchiato nell'anta a vetri gli dà forza. Non è lui, l'individuo abominevole e dolente che si trascina tra le rovine dell'ufficio. Dice sorridente: - L'incubo finirà all'alba del nuovo giorno, la luce vincerà sul buio di questa notte rischiarata dai lampioni risparmiati dai ladri di cavi, e tutto tornerà come prima di questa nottataccia falsa, bello o brutto che fosse. Certo, meglio di ora - . Ma ora, sogno, incubo o realtà, egli è lì, in mezzo all'inferno. Avvicina il volto al vetro finché ne sente la pressione sui peli della barba e il freddo sulla pelle. Il volto è sfuocato. Lo allontana a distanza idonea per la sua presbiopia. Si riconosce. Tra i vaghi riflessi coglie la sagoma del proprio viso. Si avvicina al vetro fino al limite della messa a fuoco. Esclama: - Molti dicono che nello specchio ci si vede più giovani, ma io vedo gli anni - . Si passa un dito sulla guancia a sondarne rughe, polvere, barba. Si sofferma sui peli bianchi sparpagliati nel nero. Non gli dispiace, il bianco. Gli piacerebbe, se ci sarà un domani, farsi crescere un filo di barba. Bianca. Come Hemingway. Già si è lasciato crescere i capelli. La barba gli manca. Troppo poco dirigenziali, gli uni e l'altra. - Se anche sono io, è un sogno - ripete in un inudibile mormorio scardinato dai singhiozzi di una nuova crisi di pianto. - Un sogno... in un sogno. Sto dormendo, nel mio letto. Tra poco tutto questo svanirà. Deve sparire. - Poi sussurra lieve come beghina, con voce arrochita dall'arsura e dall'attesa: - Mi sveglierò; un battito di ciglia e la luce entrerà strizzata tra le liste della tapparella, come il foglio di pasta pressato nella vecchia macchina a manovella a sparare tagliatelle e fettuccine. Mi sveglierò prima che la luce del sole attivi l'apertura automatica delle serrande - . Scrolla le spalle. Si stropiccia gli occhi. Arretra di pochi centimetri strisciando sul legno. Allunga il braccio e tasta il terreno come a esplorare la superficie di un pianeta sconosciuto. La mano sente la canna di un'arma che riverbera la luce dell'alba. Trasalisce, come un partigiano che, nascondendosi nel buio di una tomba per fuggire ai nazisti, si fosse imbattutoin uno scheletro. - Un fu-fucile! - esclama terrorizzato Ismaele ritraendo la mano come scottata dal fuoco, lui che non ha mai avuto neppure una fionda. Certe parole non gli escono che claudicanti dopo incespichi, inciampi e traballii. - Che ci faccio io, qui? E quest'arnese? - domanda, rivolto al buio che lo circonda. Pochi secondi per raccapezzarsi. Finalmente ricorda: la lunga notte, gli spari da fuori, la distruzione portata dagli individui in divisa ancora appostati giù in basso, i suoi colpi al cielo e al ciliegio di fronte, come un bambino a Carnevale. - Non era un incubo - piagnucola sgomento. Con due dita pinza il calcio, se lo avvicina fino a sentire l'odore dell'olio lubrificante, imbraccia l'arma in posizione di tiro, ritorna strisciando al vetro dell'archivio e s'acquatta piatto a terra sul parquet dell'ufficio, come un guastatore nel fango a un passo dalla trincea nemica, un occhio strizzato a mettere a fuoco la propria incerta sagoma tratteggiata nel vetro. Così bardato, riavvicina la barba al vetro. Stringendo il fucile si morde il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, lo succhia senza ribrezzo e attende il sorgere del sole. Pensa che mai avrebbe pensato di ridursi così, ventinove anni prima, quando la sera avanti il suo primo giorno di lavoro studiava l'orario più indicato per la sveglia e l'abito più adatto, inseguito di stanza in stanza dalla madre con svolazzanti cravatte e nuove camicie o quando, più giovane, faceva l'obiettore in una comunità di bambini. Non avrebbe giocato un centesimo, allora, se glielo avesse predetto il più quotato indovino (fosse stato un giocatore e avesse creduto al destino), che un giorno si sarebbe trovato a terra, arma in mano, vestiti sporchi, pensieri laceri. Roba da rotocalco popolare, lontana anni luce dalla sua indole. - Un sogno - cerca di convincersi in un bisbiglio, mentre con la punta della canna d'acciaio gioca a spostare le carte più vicine della montagna di lordura sparsa a terra, come un biliardo senza buche. S'incupisce ancor più, a sentire la voce. Sua. Se la schiarisce scatarrando rumoroso contro il vetro. Gli ritorna un disgustoso rimbalzo di cui percepisce l'odore. - No - mormora allontanando peluria bianca e sguardo dal vetro. - Non lo è. - Una formica, spaurita come lui, gli solletica l'indice destro; un filo di luce dal lampione di fuori la illumina mentre scala incerta il suo dito e risale il fucile fino alla canna, prima di perdersi nel buio della stanza. L'aria, greve di calcinacci, fumi e puzzo di sudore, mossa dal tuono rauco della voce di Ismaele, vibra ancora dell'urlo sgangherato - Che ci faccio qui? - sfogato al primo baluginio dell'alba nel cortile dello stabilimento Bellagi a Malatempora.
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Autori di Writer Officina
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Albese di nascita (1960), torinese di adozione. Laureato in Lingue nel 1984 con tesi su Orwell (non su 1984), lavoro dal 1977, ho maturato svariate esperienze manageriali in molte aziende dei più disparati settori e ho tre figli. Prima di scrivere narrativa ho collaborato a un giornale locale (anni ‘80), pubblicato poesie (Diario in frammenti, 1987), scritto un capitolo per un Nobel per la Pace (Woodrow Clark, Sustainable Communities). Ho tradotto (sinora per mero piacere personale) Death of a Salesman di Arthur Miller (1992), The Tenants (1993) di Bernard Malamud, Relato de un nàufrago di Gabriel Garcia Màrquez (1995), Muesli at Midnight di Aidan Mathews (2019), An Honest Man (2020) di Ben Fergusson, The Man Who Saw Everything (2020) di Deborah Levy. Sette i romanzi pubblicati sinora (nessuno a pagamento né in autopubblicazione): Volevo vedere l'Africa (2010), All'orizzonte cantano le cascate (2013), L'alba dei miracoli (2016), Mùnscià (2017), Spegnere il buio (2019), Raccontare troppo (2019), Tu, Bianca e Johnny (2020). Svariati i racconti: in Possa il mio sangue servire (2015) di Aldo Cazzullo, nella Rivista "Pastrengo" (2018), in Piemontesi per sempre (2019) di Autori Vari, e nella rivista "Zona di disagio" (2020)
Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Teresio Asola: Ho sempre letto tantissimo, fin da ragazzo, ormai troppi anni fa. Due libri in particolare mi hanno lasciato addosso la voglia di provarci. Due libri molto diversi l'uno dall'altro. Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, letto almeno sei volte nella mia vita, la prima volta alle Medie, e Relato de un nàufrago, letto in spagnolo una trentina d'anni fa e subito da me tradotto per il piacere di riscriverlo lasciandomi condurre dalla penna di Gabriel Garcia Màrquez.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Teresio Asola: Difficile dirlo. Come dire a quale dei miei tre figli sono più affezionato: verrebbe da dire a tutti allo stesso modo. Tuttavia, forse il primo, Volevo vedere l'Africa, è quello che tra tutti ancora oggi mi spiace sia andato esaurito nelle librerie troppo presto e, vendute mille copie, non sia poi stato ristampato. La storia è formidabile, forse perché ispirata alle vicende – vere – di mio padre. Un vecchio di 85 anni, malato di cancro, racconta al figlio la sua avventura giovanile: ragazzo di diciott'anni parte volontario per l'Africa nel 1942 da un paese delle Langhe, combatte in Libia e Tunisia e dopo la disfatta di Enfidaville, catturato dagli inglesi è prigioniero nei campi francesi e americani in Tunisia e Algeria. Degli americani diventa cooperatore (Italian Cooperator), ne veste l'uniforme e con loro s'imbarca per Plymouth. Dalla città inglese scende in Normandia poco dopo lo sbarco alleato, giù fino a Parigi appena liberata e a Marsiglia dove per arrotondare lavora come interprete e accompagnatore degli ufficiali americani per i bassifondi. Torna, poi, ad Alba, ma spaesato torna in Francia, dove emigra, sans-papier ante litteram, passando per sentieri di monte con passeurs del luogo. Compiuta l'esperienza di qualche anno di lavoro in ferrovia dove conosce l'intolleranza mentre incontra nuove opportunità, il giovane torna in Italia. Un libro di guerra, di memorie, di confronto fra generazioni, di sogni realizzati a metà ma utili per maturare. Di desiderio di partire e di bisogno di un ritorno. Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Teresio Asola: Prendiamo il primo romanzo di cui ho parlato prima, Volevo vedere l'Africa. Nasce da certe rivelazioni fattemi da mio padre sul letto di morte, undici anni fa: storie di guerra, battaglie, prigionia, collaborazione con gli Alleati, ritorno a casa in divisa americana di un soldato italiano e successivi spaesamento, voglia di fare e migrazione clandestina in Francia. Dopo aver intervistato mio padre mi sono messo a scrivere, senza ben sapere dove mi portasse la scrittura, riempiendo i giustificabili vuoti di memoria con l'invenzione narrativa e la ricostruzione storica, fatta attraverso ricerche d'archivio. Lo schema iniziale è stato il diario scritto da mio padre durante la prigionia in Algeria. Anche per il secondo romanzo, All'orizzonte cantano le cascate, sono partito da un documento (un diario manoscritto di un macellaio di bordo di un veliero inglese che a inizio ‘800 faceva la spola tra Inghilterra e India), per poi dare libero sfogo alla creazione, sorretta sempre da un buon lavoro di ricerca storica. Nel terzo caso, L'alba dei miracoli, dove parlo di un bambino degli anni '60 nella città simbolo del miracolo economico, Alba, mi sono lasciato guidare da ricordi personali, oltre che da testimonianze di prima mano e da una miriade di articoli di giornali dell'epoca. Anche in questo caso, non mi sono avvalso di uno schema rigido. Lo stesso per i successivi romanzi Mùnscià, Spegnere il buio, Raccontare troppo, Tu, Bianca e Johnny. Unica regola che mi sono dato, sempre: attingere ai fatti veri della vita da riplasmare nell'invenzione narrativa, perché non c'è nulla di più fantastico e inimmaginabile della vita realmente vissuta.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Teresio Asola: Smettere di scrivere è difficile come smettere di fumare (non fumo, ma immagino le pene). Da una dozzina d'anni dedico tutto il mio tempo libero alla scrittura. Perché? Non so. Certo non per soldi. E neppure per annegare dispiaceri della vita, che non riconosco. Di solito mi dedico a più di un libro. Mi piace accarezzare le storie, coccolarle, rifinirle, leggerle e rileggerle, scriverle e riscriverle, riporle in un cassetto e riprenderle, più e più volte. Mi è molto difficile separarmi da una storia, dai suoi affanni, dalla consuetudine di una convivenza con i personaggi e le trame e con le difficoltà, la fatica e le gioie del loro sviluppo. Ora, per esempio, ho – pronti e finiti, per quanto si possa considerare finito un libro – tre romanzi e una raccolta di racconti, oltre a una serie di abbozzi di storie. Due parole sui libri terminati, in attesa di un editore. Un romanzo ripercorre le vicende di un giovane che viaggia in un mondo più vasto rispetto alla ristretta visuale della sua cittadina simbolo del miracolo economico, sullo sfondo di momenti storici cruciali e di paure di inizio anni '80, non ultimi il terrorismo e le guerre in Medio Oriente. Un altro romanzo intreccia misteri di paese, intrighi di famiglia, sanguinosi fatti di cronaca, inciampi della memoria, tragedie della storia e finzioni della vita: destini incrociati fra tre luoghi piemontesi, inventati ma più che mai veri e familiari. Dove il reale può superare la fantasia. Un terzo romanzo parla di tre città, tre aziende e un giovane che volevano volare (metaforicamente e non solo). La raccolta di racconti è cucita da un filo conduttore: il lavoro manageriale in cinque diverse aziende, ognuna caratterizzata da sfide, aspirazioni e problemi propri, tra declino industriale e visioni di futuro. Ogni racconto - pur legato agli altri da un filo narrativo individuabile - ha vita e sviluppo propri, con finali talora a sorpresa. Ora, dopo quarant'anni di lavoro manageriale a tempo pieno e tanta scrittura a tempo perso, mi piacerebbe dedicarmi a tempo pieno al fare, artigianale e operaio: scrivere e tradurre. Prima di scrivere romanzi, da giovane ho scritto poesie, collaborato a un giornale locale e tradotto Death of a Salesman di A. Miller e Relato de un nàufrago di G. G. Màrquez. Nessuno dei due mi generò contratti, perché all'epoca, preso nel lavoro, non ne cercai. Ora, a sessant'anni, aspiro unicamente alla riscrittura fedele in italiano di belle storie. Ambisco a realizzare scritti onesti per il piacere del lavoro ben fatto, a beneficio dei lettori. Per questo da qualche mese mi sono rimesso a tradurre. Un romanzo inedito al mese. Ho affrontato Muesli at Midnight, di Aidan Mathews: un romanzo irlandese ostico e disorientante, ma gratificante come una scalata. Protagonisti la parola, il linguaggio, le immagini, i rapporti interpersonali, lo scavo nell'animo umano, fatto di corpo e spirito. Poesia e teatro. Poi è stata la volta di An Honest Man di Ben Fergusson, in cui il lettore è trascinato nel vortice di un intreccio sorprendente ambientato nel 1989 a ridosso della caduta del Muro di Berlino, in compagnia di personaggi scolpiti. La narrazione è incalzante, gremita di sorprese e rivolgimenti di fronte. Un racconto di amore, tradimento, storie familiari, spionaggio, alla ricerca delle tracce geologiche della storia come delle vicende individuali. Infine, The Man Who saw Everything di Deborah Levy. Di nuovo fantasmi e speranze della Berlino del 1989, in contrappunto con la Londra di quel periodo, proiettate poi nel 2006 funestato dalla Brexit e dalla contrapposizione tra spaesamento e certezze dell'età matura. Una narrazione commovente, inafferrabile, che parla di vecchiaia, giovinezza, amore, contrasti, inganni. Per nessuna di queste traduzioni ho trovato un editore italiano. Il momento non è propizio. Tuttavia continuo. Scrivere è una gran fatica, ma smettere è più dura. |
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