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L'alba dei miracoli
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- Che odore, quest'acqua - si lamentò mamma, il dito sanguinante sotto il fiotto del rubinetto. - Ma che odore e odore, è il progresso. Cloro e carboni attivi, mettiamo noi dell'acquedotto. È più buona quest'acqua che quella delle fonti in montagna e persino della fontana azzurra di Bossolasco. E ringrazia che facciamo così - rispose papà alludendo al lavoro che quel giorno attendeva, ogni minuto più pingue sulla scrivania in Municipio, come ramaglie accumulate dal fiume in piena contro i pilastri del ponte. E si rituffò nella lettura del giornale squadernato sul tavolo, torcendosi indietro, intento a lavare patate. - I comunisti si prendono le case - proseguì lui indicando con una patata i muri della cucina. - Esagerato! - rispose mamma. - Macché. Lo dico per semplificare, chiarire. Prima di tutto a me stesso. Se non fai così, tirando i concetti agli estremi, con la politica non ci capisci più nulla. Per dire: ci siamo comprati l'alloggio con i sacrifici del lavoro, dunque niente voto ai comunisti. Ma d'altra parte, non comprerei casa alle aste fallimentari, lucrando sulle disgrazie altrui: sono case del diavolo, quelle. - Papà lo ripeté perché era sensibile a quegli argomenti: non solo per l'impresa di essersi comprato casa a prezzo agevolato, ma perché come geometra del Comune trattava pratiche di edilizia privata, oltre a questioni di opere pubbliche, acquedotto e urbanistica. L'edilizia gli dava il lavoro. Guai se un figlio di Stalin andasse al governo: lo pensava e lo diceva, con il tono sicuro che aveva usato con sua mamma per dirle che doveva (questo preciso verbo, usò) firmargli il permesso per l'Africa, diciotto anni prima. Tanto risoluto che lei senza fiatare firmò sulla schiena di papà come tavolino. Nonna paterna era sbrigativa in gesti e parole. Violetta annuì, anche se non si occupava di politica. Su ogni argomento aveva imparato a pensarla allo stesso modo del suo uomo, dopo i due soli litigi, entrambi in viaggio di nozze, il primo già alla stazione di Milano Centrale, in viaggio da Alba a Desenzano. Lei non voleva scendere, a Milano, lui sì, sfisionomato per lo stress della cerimonia e l'affanno di una vigilia tormentata da insinuazioni che aggiungendosi ai normali affanni da sposo non gli avevano fatto chiudere occhio, lui che dormiva anche in piedi, se necessario. Di solito gli incubi di vecchie battaglie lo svegliavano di soprassalto, ma almeno aveva dormito, prima. Non quella notte prima delle nozze. - Scendi - gli ordinò mamma. - No - . - Sì - . - No - . D'un tratto papà sparì dallo scompartimento per riapparire subito, inquadrato dalla cornice del finestrino: in piedi, spettinato e sudato, dritto sul marciapiedi del binario. Di là dal vetro si sbracciava e le faceva segno di scendere. Gli occhi spiritati balenavano a destra e sinistra, là sotto, a tre spanne dai suoi. Annuì e scese dal treno, lei, anche se aveva una gran voglia di mandarlo a quel paese. A spannocchiare la meliga. Lo fece senza sorridere, per non dargliela vinta. Come non sorrideva ora, succhiandosi il sangue dal dito. Papà si sedette al tavolo, accanto a mamma che, sbuffando e brontolando di aver lavorato troppo, cercava un cerotto. Egli pensò senza dirglielo che era un'inezia rispetto alla sua operazione all'ernia senza anestesia dopo la guerra, e disse, per sdrammatizzare: - Eh, si vede che non hai fatto la guerra. - - Sì che l'ho fatta la guerra, eccome - esclamò mamma, piccata. - L'ho fatta in Alba, io. Non avevo compiuto quattordici anni e i bombardieri tiravano giù il ponte sul Tanaro, e prima dei quindici ho guardato fascisti, prima, e partigiani, dopo, passeggiare per via Maestra che la Repubblica chiamava via Mazzini, ho visto morti e feriti, sentito aeroplani passare raso alle case, dieci, quindici, venti volte, fino a fine marzo del ‘45. Ce n'era uno che arrivava ogni sera, girava e volava via: non si sapeva se fosse tedesco, inglese o repubblichino, e per non sbagliare o rendercelo più simpatico lo chiamavamo Peppino. Qualcuno abbreviava in Pippo. Sono scesa in cantina al suono della sirena e salita in piazza a farmi rintronare il petto dalle campane del Duomo che salutavano la fuga dei repubblichini e la vittoria dei partigiani, e ho avuto la pelle d'oca per tutti quei ragazzi che sfilavano in mille divise improvvisate: come il comandante Paolo, ferito, portato in barella da eroe. Ho visto tedeschi e fascisti portar via ogni santa volta barba Cisio e raramente Vigin, che però furbo se la svignava per vicoli e cortili; ho sopportato schifo e rabbia per le ragazze colla testa rapata pitturata di minio rosso; da dietro un pilastro del portico ho smicciato partigiani, prima, e fascisti, poi, accompagnati all'ultima ora a colpi di tamburo che ancora adesso mi viene la pelle d'oca, ho sentito di preti che si svestivano della talare per coprire partigiani e fascisti in fuga, di carabinieri che nascondevano ebrei e armavano partigiani, di brava gente che ospitava in soffitta ragazzi o famiglie, e di studenti del liceo che riempivano i libri di documenti per la resistenza dopo aver ascoltato Radio Londra e Radio Monte Cenere. Ci vuole un bel coraggio a fare queste cose. Io ero un frisulin e me ne stavo lontana da tutto. Ma ci voleva un bel curpett lo stesso, a stare lì ad Alba in quell'anno, dall'estate del '44 in avanti - . - Va beh, ma io, allora. - - Ma tu che cosa? - l'incalzò mamma, già intuendo dove volesse andare a parare Primo. - Io... Io sono stato ferito due volte a una gamba, in Africa. Una più di Garibaldi - . Rise. Mamma no. - E ne ho imparate, di cose, in Africa e in Francia, poi. Cribbiu, qui c'era tutto da fare per ripartire e io per trovare lavoro, solo perché non piaceva che a 18 anni ero partito volontario in Libia, sono stato obbligato ad andare in Francia. Se am na piasiva ‘n toc, se me ne piaceva un pezzo. Mica potevo dire a quelli del Comune che in guerra ero andato solo per vedere l'Africa - . - Obbligato - interloquì con sarcasmo mamma scuotendo le spalle e stirando un sorriso. - Ma se avevi persino una ragazza, là. E un libretto di risparmio a Marsiglia - . - Lassa perde. La matota che mi pagava l'operetta a Marsiglia perché mi voleva impalmare l'avevo lasciata da un pezzo. Scapa mac: diceva che la masnà ca j'era ‘ntla pansa j'era mia. Sì, ne avevo un'altra lì a Marsiglia, ma non ero sicuro che non si fosse già trovato un altro giuvinot, mentre io ero ad Alba. Il libretto in banca a Marsiglia, poi, era frutto dei risparmi del lavoro in ferrovia e... - Guardò lontano, Primo, fuori, verso il balcone e il cortile sul quale affacciava la cucina. - E...? - incalzò mamma. - E niente... ma sì, di quattro medicine americane vendute al mercato nero. Il fatto è che qui non avevano voglia di dare un lavoro a un ex volontario. O io non mi sono voluto abbassare a pietirlo. Avessi insistito... ma io, duro. O forse, avevo davvero bisogno di tornare in Francia. Sì, forse volevo tornare là. No, inutile che fai quella faccia. Ti ho detto che non c'entrano, le ragazze di Marsiglia... credo. C'era una confusione, qui. As capiva niente. Ho pensato “Se lo tengano, qui, il lavoro, se non vogliono darmelo”. E sono partito senza carta identità valida per espatriare. - - Na bela testa - disse mamma sorridendo. Annui sorridendo, papà, e continuò: - E adesso, cara mia, so fare tante cose. Ti dico? - Mamma annuì, rassegnata. - Cadere da un balcone: senza il corso da paracadutista a Tarquinia non sarei qui a contartela, di quando due anni dopo la guerra a una festa da un amico sono volato testa indietro da un balcone del primo piano senza farmi colpire dalla ringhiera, staccatasi, cui ero appoggiato di schiena; so guidare l'automobile, puntare il cannone su un cammello come fosse un tank, leggere l'ora nel cielo stellato, parlare francese e inglese, scappare da un campo di prigionia, marciare di notte per non farmi vedere e sopportare le botte quando i legionari mi hanno riacciuffato, rilevare un terreno, camminare nel buio di una galleria ferroviaria senza farmi risucchiare delle ruote del treno, espatriare senza documenti. Clandestino? Se vuoi chiamami così. Perfino guidare un taxi, so. So sopportare, legato al tavolo operatorio, un'operazione all'appendice sputando maledizioni contro il primario dell'ospedale che aveva affondato il bisturi prima dell'effetto dell'anestesia mentre due infermieri mi legavano tenendomi la testa. So progettare edifici. E altro. - Mamma arrovesciò gli occhi in estasi per il suo uomo. Poi insisté: - Ma perché andartene da Alba, subito dopo la guerra? - - Ancora! - esclamò spazientito. - Te l'ho detto. E tu lo sai. Perché, a parte la mia ragazza francese (che era l'ultima preoccupazione), e il libretto a Marsiglia con quattro risparmi, c'era questa confusione qui e la voglia di dare una direzione alla vita. L'essere partito volontario a 18 anni nei Giovani Fascisti perché volevo vedere l'Africa, al ritorno dalla guerra in divisa americana e dal lavoro in Francia poi, mi ha impedito... o forse no, avessi insistito... insomma, mettiamola così, non mi ha aiutato a tornare subito in Municipio, il che è stata buona cosa perché mi sono preso il diploma e in Comune ci sono entrato poi per la porta principale. Se li tenessero, quei travajot. Io volevo correre - . - Che testa - disse ancora mamma scuotendo il capo, mangiandosi il suo uomo con gli occhi spalancati a sorridere. Il tono era quello usato per la suocera quando si parlava del famoso episodio dell'autorizzazione da lei data a Primo a partire volontario per l'Africa. Infatti ripeté poco dopo - che testa... ti e tua mare, lei con due figli partigiani e uno, ti, Primo, che non ha saputo dove fosse per anni, per poi vederselo apparire sulla soglia di casa in divisa americana - . Papà non rispose. Mamma disse: - Sa, Primo. Les mac. Ascolto - . Primo lisciò bene il foglio e riprese: - Le paghe medie dei 32 mila operai del settore tessile. Secondo i sindacati un operaio qualificato guadagna da 40 a 45 mila lire nette al mese più gli assegni; una donna cottimista ne riceve 30-31 mila - . - Io, dopo questa masnà qui - annunciò mamma col tono della confidenza indicando il pancione - non lavoro più. Mi piace andare ogni mattina in bici in corso Piave, il lavoro è bello e da Bonardi mi vogliono bene, ma adess basta. Se penso quanto ho faticato per farmi mettere a posto con le marchette, e dai e dai chiedevo a tota Spano di dirlo a monssù Bonardi; ma poi se me n'è piaciuto un pezzo ho dovuto farmi coraggio, e senza voce, col cuore in gola, chiedere io a Bonardi, una mattina sotto il porticato dell'azienda. Allora lui è andato nell'ufficio di tota e le ha detto “Tota Spano, metta a posto Franca”. Mi chiamavano tutti per nome perché ero la più giovane: un po' mi dava fastidio perché invece mi sentivo grande; ma se dovevo patire questo per avere i contributi, allora andava bene anche il tu. Ho risposto con un sorriso e un grazie. Ma adesso... - . - Adesso? - domandò papà. - Adesso... non dico subito, neh, ma fra un po', basta. Abbiamo famiglia. Tanto, ci sei già tu, vicecapufficio del Comune. Io sto a casa. Guardo le masnà. - Guardò con ammirazione il suo uomo. Il suo geometra si alzò e con la scusa di prendere un bicchiere in un armadietto in alto, gonfiò il petto: a dire il vero più per la faccenda delle masnà, al plurale come se il secondogenito fosse già nato, che per la cosa del vicecapufficio. Più che ai gradi Primo ha sempre badato alla sostanza delle cose. Tuttavia gli piaceva quando mamma gli ricordava che era - vicecapufficio tecnico del Comune - , lui che veniva dalla campagna e aveva un papà che aveva fatto nelle estati il contadino a Neive o il venditore di gelati in Baviera, e in inverno faceva le stagioni da cameriere all'hotel Genio a Torino, a Saint Vincent, al Blumental di Gressoney o in Germania. Quanto all'idea di mamma di abbandonare il lavoro, beh, non gli pareva una bestialità: lui aveva un posto fisso e di responsabilità, e gli pareva giusto che lei stesse a casa. Se lo voleva.
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Autori di Writer Officina
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Albese di nascita (1960), torinese di adozione. Laureato in Lingue nel 1984 con tesi su Orwell (non su 1984), lavoro dal 1977, ho maturato svariate esperienze manageriali in molte aziende dei più disparati settori e ho tre figli. Prima di scrivere narrativa ho collaborato a un giornale locale (anni ‘80), pubblicato poesie (Diario in frammenti, 1987), scritto un capitolo per un Nobel per la Pace (Woodrow Clark, Sustainable Communities). Ho tradotto (sinora per mero piacere personale) Death of a Salesman di Arthur Miller (1992), The Tenants (1993) di Bernard Malamud, Relato de un nàufrago di Gabriel Garcia Màrquez (1995), Muesli at Midnight di Aidan Mathews (2019), An Honest Man (2020) di Ben Fergusson, The Man Who Saw Everything (2020) di Deborah Levy. Sette i romanzi pubblicati sinora (nessuno a pagamento né in autopubblicazione): Volevo vedere l'Africa (2010), All'orizzonte cantano le cascate (2013), L'alba dei miracoli (2016), Mùnscià (2017), Spegnere il buio (2019), Raccontare troppo (2019), Tu, Bianca e Johnny (2020). Svariati i racconti: in Possa il mio sangue servire (2015) di Aldo Cazzullo, nella Rivista "Pastrengo" (2018), in Piemontesi per sempre (2019) di Autori Vari, e nella rivista "Zona di disagio" (2020)
Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?
Teresio Asola: Ho sempre letto tantissimo, fin da ragazzo, ormai troppi anni fa. Due libri in particolare mi hanno lasciato addosso la voglia di provarci. Due libri molto diversi l'uno dall'altro. Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, letto almeno sei volte nella mia vita, la prima volta alle Medie, e Relato de un nàufrago, letto in spagnolo una trentina d'anni fa e subito da me tradotto per il piacere di riscriverlo lasciandomi condurre dalla penna di Gabriel Garcia Màrquez.
Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?
Teresio Asola: Difficile dirlo. Come dire a quale dei miei tre figli sono più affezionato: verrebbe da dire a tutti allo stesso modo. Tuttavia, forse il primo, Volevo vedere l'Africa, è quello che tra tutti ancora oggi mi spiace sia andato esaurito nelle librerie troppo presto e, vendute mille copie, non sia poi stato ristampato. La storia è formidabile, forse perché ispirata alle vicende – vere – di mio padre. Un vecchio di 85 anni, malato di cancro, racconta al figlio la sua avventura giovanile: ragazzo di diciott'anni parte volontario per l'Africa nel 1942 da un paese delle Langhe, combatte in Libia e Tunisia e dopo la disfatta di Enfidaville, catturato dagli inglesi è prigioniero nei campi francesi e americani in Tunisia e Algeria. Degli americani diventa cooperatore (Italian Cooperator), ne veste l'uniforme e con loro s'imbarca per Plymouth. Dalla città inglese scende in Normandia poco dopo lo sbarco alleato, giù fino a Parigi appena liberata e a Marsiglia dove per arrotondare lavora come interprete e accompagnatore degli ufficiali americani per i bassifondi. Torna, poi, ad Alba, ma spaesato torna in Francia, dove emigra, sans-papier ante litteram, passando per sentieri di monte con passeurs del luogo. Compiuta l'esperienza di qualche anno di lavoro in ferrovia dove conosce l'intolleranza mentre incontra nuove opportunità, il giovane torna in Italia. Un libro di guerra, di memorie, di confronto fra generazioni, di sogni realizzati a metà ma utili per maturare. Di desiderio di partire e di bisogno di un ritorno. Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?
Teresio Asola: Prendiamo il primo romanzo di cui ho parlato prima, Volevo vedere l'Africa. Nasce da certe rivelazioni fattemi da mio padre sul letto di morte, undici anni fa: storie di guerra, battaglie, prigionia, collaborazione con gli Alleati, ritorno a casa in divisa americana di un soldato italiano e successivi spaesamento, voglia di fare e migrazione clandestina in Francia. Dopo aver intervistato mio padre mi sono messo a scrivere, senza ben sapere dove mi portasse la scrittura, riempiendo i giustificabili vuoti di memoria con l'invenzione narrativa e la ricostruzione storica, fatta attraverso ricerche d'archivio. Lo schema iniziale è stato il diario scritto da mio padre durante la prigionia in Algeria. Anche per il secondo romanzo, All'orizzonte cantano le cascate, sono partito da un documento (un diario manoscritto di un macellaio di bordo di un veliero inglese che a inizio ‘800 faceva la spola tra Inghilterra e India), per poi dare libero sfogo alla creazione, sorretta sempre da un buon lavoro di ricerca storica. Nel terzo caso, L'alba dei miracoli, dove parlo di un bambino degli anni '60 nella città simbolo del miracolo economico, Alba, mi sono lasciato guidare da ricordi personali, oltre che da testimonianze di prima mano e da una miriade di articoli di giornali dell'epoca. Anche in questo caso, non mi sono avvalso di uno schema rigido. Lo stesso per i successivi romanzi Mùnscià, Spegnere il buio, Raccontare troppo, Tu, Bianca e Johnny. Unica regola che mi sono dato, sempre: attingere ai fatti veri della vita da riplasmare nell'invenzione narrativa, perché non c'è nulla di più fantastico e inimmaginabile della vita realmente vissuta.
Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?
Teresio Asola: Smettere di scrivere è difficile come smettere di fumare (non fumo, ma immagino le pene). Da una dozzina d'anni dedico tutto il mio tempo libero alla scrittura. Perché? Non so. Certo non per soldi. E neppure per annegare dispiaceri della vita, che non riconosco. Di solito mi dedico a più di un libro. Mi piace accarezzare le storie, coccolarle, rifinirle, leggerle e rileggerle, scriverle e riscriverle, riporle in un cassetto e riprenderle, più e più volte. Mi è molto difficile separarmi da una storia, dai suoi affanni, dalla consuetudine di una convivenza con i personaggi e le trame e con le difficoltà, la fatica e le gioie del loro sviluppo. Ora, per esempio, ho – pronti e finiti, per quanto si possa considerare finito un libro – tre romanzi e una raccolta di racconti, oltre a una serie di abbozzi di storie. Due parole sui libri terminati, in attesa di un editore. Un romanzo ripercorre le vicende di un giovane che viaggia in un mondo più vasto rispetto alla ristretta visuale della sua cittadina simbolo del miracolo economico, sullo sfondo di momenti storici cruciali e di paure di inizio anni '80, non ultimi il terrorismo e le guerre in Medio Oriente. Un altro romanzo intreccia misteri di paese, intrighi di famiglia, sanguinosi fatti di cronaca, inciampi della memoria, tragedie della storia e finzioni della vita: destini incrociati fra tre luoghi piemontesi, inventati ma più che mai veri e familiari. Dove il reale può superare la fantasia. Un terzo romanzo parla di tre città, tre aziende e un giovane che volevano volare (metaforicamente e non solo). La raccolta di racconti è cucita da un filo conduttore: il lavoro manageriale in cinque diverse aziende, ognuna caratterizzata da sfide, aspirazioni e problemi propri, tra declino industriale e visioni di futuro. Ogni racconto - pur legato agli altri da un filo narrativo individuabile - ha vita e sviluppo propri, con finali talora a sorpresa. Ora, dopo quarant'anni di lavoro manageriale a tempo pieno e tanta scrittura a tempo perso, mi piacerebbe dedicarmi a tempo pieno al fare, artigianale e operaio: scrivere e tradurre. Prima di scrivere romanzi, da giovane ho scritto poesie, collaborato a un giornale locale e tradotto Death of a Salesman di A. Miller e Relato de un nàufrago di G. G. Màrquez. Nessuno dei due mi generò contratti, perché all'epoca, preso nel lavoro, non ne cercai. Ora, a sessant'anni, aspiro unicamente alla riscrittura fedele in italiano di belle storie. Ambisco a realizzare scritti onesti per il piacere del lavoro ben fatto, a beneficio dei lettori. Per questo da qualche mese mi sono rimesso a tradurre. Un romanzo inedito al mese. Ho affrontato Muesli at Midnight, di Aidan Mathews: un romanzo irlandese ostico e disorientante, ma gratificante come una scalata. Protagonisti la parola, il linguaggio, le immagini, i rapporti interpersonali, lo scavo nell'animo umano, fatto di corpo e spirito. Poesia e teatro. Poi è stata la volta di An Honest Man di Ben Fergusson, in cui il lettore è trascinato nel vortice di un intreccio sorprendente ambientato nel 1989 a ridosso della caduta del Muro di Berlino, in compagnia di personaggi scolpiti. La narrazione è incalzante, gremita di sorprese e rivolgimenti di fronte. Un racconto di amore, tradimento, storie familiari, spionaggio, alla ricerca delle tracce geologiche della storia come delle vicende individuali. Infine, The Man Who saw Everything di Deborah Levy. Di nuovo fantasmi e speranze della Berlino del 1989, in contrappunto con la Londra di quel periodo, proiettate poi nel 2006 funestato dalla Brexit e dalla contrapposizione tra spaesamento e certezze dell'età matura. Una narrazione commovente, inafferrabile, che parla di vecchiaia, giovinezza, amore, contrasti, inganni. Per nessuna di queste traduzioni ho trovato un editore italiano. Il momento non è propizio. Tuttavia continuo. Scrivere è una gran fatica, ma smettere è più dura. |
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