Writer Officina
Autore: Teresio Asola
Titolo: Tu, Bianca e Johnny
Genere Romanzo
Lettori 3860 40 62
Tu, Bianca e Johnny
Il primo venerdì, 21 luglio, finita la prima settimana di lavoro nei campi, vi metteste in fila. Vi consegnarono la paga in una bustina quadrata di cartoncino marrone: 51 sterline e sessanta pence, roba da sentirsi ricchi. Inorgoglito t'infilasti nella baracca per una doccia, e indossata la maglietta azzurra dell'Adidas raggiungesti gli altri. - Si va alla disco? - propose un ragazzo scozzese.
Entraste tutti in una piccola discoteca nel retro di un pub. Bianca si lanciò a ballare a buon ritmo. Tu, noncurante del tuo stile sconclusionato, ti facesti trasportare da Rivers of Babylon e Brown Girl in the Ring: non t'importava far bella figura. Lei ti sorrise. Ti dicesti che forse, allora... Andaste a sedervi insieme. Lei sorrideva, ancora, e parlava dolce. Poi tacque. “Tanto vale provare” ti dicesti, l'imbarazzo spezzato dal frastuono della musica.
Le cingesti la spalla sinistra e lì rimanesti, immobile e silenzioso, orgoglioso del coraggio. Bianca ti urlò di aver portato nello zaino il tuo libro Practice and Progress, e che di sera in baracca se lo sfogliava. Rideste, a sproposito. Le sussurrasti, consapevolmente banale: - Usciamo insieme? - . Uscire. La parola non rendeva un millesimo di ciò che la domanda sottendeva. Ti pentisti subito. Adolescente al quadrato, ti sentivi scoppiare in testa ben altri e più elevati discorsi. Vedevi il mondo in mille colori privi di sfumature. Amore è amore: non ammettevi mezze misure. Per questo l'insulsa parola - uscire - , gettata lì con la pelle d'oca della passione, ti suonò fuori luogo. - Sì - rispose lei.
- Adesso usciamo. -
- Me l'hai già detto, e ti ho risposto - rispose furba, Bianca.
- Nel senso di andare fuori dalla disco - precisasti ridendo. Usciste, soli, il tuo braccio mai spostato dalla sua spalla sinistra: temevi di sciogliere l'incantesimo se avessi cambiato anche un solo ingrediente dell'alchimia finalmente indovinata, foss'anche il levare il mio braccio dalla sua spalla. Camminaste sotto i barbagli di un tramonto infinito, lo sguardo sciolto in quel sole delle undici di sera. Ti sentivi più grande della luna, mentre lei con due mani ti stringeva la tua, sulla sua spalla.
Quella sera, solo dita intrecciate e sussurri nel vento. La baciasti la sera dopo, tardi, sotto una pioggina tiepida che vi stirava i capelli mentre il sole si adagiava sulla linea dell'orizzonte e i profumi di terra si mescolavano a quelli del mare, in piedi davanti alla porta della sua baracca, al ritmo di una canzone che nessuno cantava se non i vostri cuori: - Les enfants qui s'aiment s'embrassent debout / contre les portes de la nuit - . Uomo, avevi raggiunto la cima. Vi salutaste da bambini, abbracciati in piedi contro le porte della notte.

- Comunque sì, Johnny. C'entra Bianca - gli rispondi, infine.
- Romantici. Bravi - sospira Johnny a mezzo sorriso, ricacciando in tasca le chiavi dell'auto.
- Ti viene naturale quand'è così. Lo sai, tu che hai avuto tante ragazze. -
- Già, dovrei saperlo - mormora serio Johnny, scrutando le montagne illuminate dal tramonto.
Cade ancora il silenzio. Per un attimo la strada è deserta. Neanche più il sole, sceso dietro la montagna. Né lui né io guardiamo l'ora. Io ho voglia di parlare, ancora: io, che neppure sotto tortura. E lui di ascoltare.
- A Forfar - continui - rimanemmo un mese e mezzo. Avrei desiderato fermare il tempo, che correva a svelare tardivi tramonti e albe precoci in quei giorni di luce. I primi raggi dai finestrini senza tendine dei container ci svegliavano prima delle cinque - .
- Nel nostro container dormivamo in sei: tu, io, un gallese cicciotto di nome Ian, due ragazzi di Frossasco e un marocchino, Halim. -
- I due di Frossasco erano cugini, nuotatori come noi: Marco e Silvio. -
- Lo ricordo, Silvio - dice Johnny.
- Pensa che l'ho incontrato tre anni fa a Torino, nella piscina che frequenta Leo. -
- Davvero? Che bello. Era simpatico. E ricordo gli scherzi ad Halim: dentifricio nei capelli mentre dormiva, smontaggio molle della brandina, e il canto di Ranieri con intonazione di canto arabo per far ridere gli spagnoli "Halim Haalim, tiene corto el pajarìn" - .
- Halim voleva fare colpo sulle ragazze. Più volte gli prestai la mia unica Lacoste, bianca, per giocare a tennis; si profumava così tanto che dovevi scappare dal container, dopo. Diceva che a Casablanca si doveva fare così per conquistare le ragazze. -
- Scappare dal container? - ride Johnny.
- Scemo. Profumarsi a volontà. Invece, nel container di Bianca c'erano Luna, Vivi e la sorella del gallese. Luna, per indolenza data dal troppo pensare a Zeno, dormiva col sopra del pigiama come l'aveva sfilato la mattina: una notte dritto, un'altra al rovescio. -
- È vero - ride Johnny. - Chissà perché. Per stanchezza, pigrizia, o per dare un senso a giornate troppo uguali. Sette e trenta latte e corn flakes, marmellata di rabarbaro, fragola o lampone spalmata con la margarina su pane in cassetta abbrustolito sopra le stufe elettriche; alle otto nei campi a raccogliere o nei capannoni a vagliare, inscatolare e pesare il prodotto precongelato; spuntino alla mezza con i panini di Mrs Semolina. -
- Mrs Semolina! - intervieni con un sorriso grande come la luna. - Mrs Semolina ci preparava per pranzo i panini e il semolino caldo, che condivamo con marmellata di rabarbaro. Poi stendevamo il bucato (rosa per il rosso di una maglietta), subito asciugato dal sole e stirato dal vento; al lavoro dalle due all cinque, doccia nella baracca con pavimento in cartone e alle cinque e mezza cena con francesi, spagnoli, scozzesi, italiani. Mrs Semolina rovesciava il gigantesco dumpling fumante su un canovaccio di tela in mezzo al tavolo. Poi la aiutavamo a lavare i piatti, e lei li asciugava dicendo che Bianca e io eravamo “a nice couple”, e che il nome del castello vicino dove dicevamo di voler andare si pronunciava “Glams” e non “Glamis”. - .
- Sì - s'inserisce Johnny. - Poi, la sera, si usciva al pub del paese. Il sabato e la domenica si andava alla piscina coperta di Dundee o allo Scone Palace di Perth nel cui salone da ballo in periodo vittoriano giocavano a curling sul pavimento di legno tirato a lucido - .
Non commenti. Non gli ricordi che dopo i primi due weekend tu e Bianca avevate incominciato ad andarvene per conto vostro. Non hai voglia di dirgli altro, di lei. Eppure ti sta passando dentro un treno in corsa. Lo lasci correre, solo per te. Anche Johnny è stanco di parlare. Pensi a quei giorni.

Sovente uscivate soli, lei e tu. Volevate conoscervi. Tu, di poche parole, con lei andavi a lingua sciolta su tutto. Senza nasconderti, manifestandoti. E commentavate: - Ci dispiace per gli altri - . E pazienza se le vostre parole parevano canzoni, talvolta.
Voi due, soli, dopo il lavoro scendevate al Post Office per un Mars, da Iannarelli per il fish and chips (come a Fladbury anche a Forfar avevamo sempre fame) e al pub sulla stessa via a bere mezza pinta di scura o Black-and-Tan chiacchierando con i Morrison, padroni della fattoria. Camminavate al lago, vi sedevate su un muretto e rincasavate sotto l'ultimo sole della notte e una pioggina subito asciugata dal vento.
Spesso partivate in autostop, dopo la cena. Una sera al ritorno dal parco del castello di Glamis, fra stormire di fronde e suoni di cornamusa, la nebbia precipitò a nascondere voi e la strada; un camion vi notò a fatica e vi riaccompagnò a Forfar. E poi, sulla spiaggia di conchiglie rosa a Montrose le dicesti: - Ti voglio bene perché raccogli conchiglie. Le altre ragazze si annoierebbero - . Chiedevi informazioni e c'era sempre chi si faceva in quattro per te calcando le erre ( - You take the firrst strreet rright, then go strraight - ) e facendosi scappare disinvolte flatulenze. Voi zitti. Imperturbabili. Perché, diceva mamma, prima di sposarsi - tajarin - , dopo, - lasagne - , intendendo un progressivo lasciarsi andare. Voi eravamo ancora ai tajarin e su quelle cose facevate gli indifferenti: esistevano solo profumi, colori, dolcezze, melodie, sorrisi, risate, tepore. Le flatulenze, anche di altri, non esistevano.
La sera vi auguravate la buona notte davanti alle baracche, i capelli grondanti stirati dall'acqua, labbra sulle labbra che avrebbero voluto cantare - Les enfants qui s'aiment ne sont là pour personne - . E vi dispiaceva davvero per gli altri. Più che nella canzone.
Nei weekend vi spingevate oltre, in autostop. - Ehi, lassie, you're bonnie! - esclamò a Bianca un gioviale automobilista, scrutando la reazione della propria anziana signora, seduta accanto a lui. Tu, dietro, accarezzasti la mano della tua lassie. Apprezzasti che non si fosse offesa a essere chiamata lassie (per voi cresciuti negli anni '60 il cane dei telefilm), a giudicare da come le ridevano gli occhi. Vi allungaste fino ad Aberdeen, tirati su nel mezzo della valle del Dee da un palombaro delle piattaforme petrolifere, e dopo un tè con biscotti Digestive in una tea-room passeggiaste sul lungomare bagnati di pioggia leggera mentre gli altoparlanti diffondevano Hotel California. Un altro passaggio propizio vi portò a Ovest dov'eri stato con papà due anni prima: Glasgow, Gourock e Greenock, raccolti da una coppia di anziani con cani bianchi e neri come nella pubblicità del whisky. All'ostello di Glasgow vi venne assegnato l'incarico di spazzare la sala del pianoforte. Finito, alzaste il tappeto e infilaste tutto sotto.
Per voi il mondo di fuori non esisteva. - Quand on n'a que l'amour... - , si canticchiava. Il 5 agosto non credeste a quei burloni di Yogi e compari scozzesi che annunciavano la morte del Papa: "Scherzano" scrollaste la testa. Ridendo, persino. "Come quando mi hanno mandato a chiedere al magazziniere un inesistente strumento dal nome di skyhook?" vi chiedeste. Usciti, su un giornale abbandonato al pub leggeste del Papa, e del record del mondo di salto in alto di Sara Simeoni, agli Europei di Praga: 2,01. Scuoteste il capo. - Il mondo va avanti - diceste. - Senza noi e senza Papa - . Scopriste che era Ferragosto dopo aver lavorato ore sotto il sole a raccogliere fragole.
Il mondo per voi era dormire a Oban seduti su una panchina in collina a margine della strada, abbracciati e incuranti dell'auto della polizia che ogni due ore passava a controllare; e svegliarvi prima dell'alba a godere il primo barbaglio di luce sul mare di Caledonia. Sapevate che l'avventura sarebbe finita, ma non quel vostro mondo.

Teresio Asola
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Autori di Writer Officina

Teresio Asola
Albese di nascita (1960), torinese di adozione. Laureato in Lingue nel 1984 con tesi su Orwell (non su 1984), lavoro dal 1977, ho maturato svariate esperienze manageriali in molte aziende dei più disparati settori e ho tre figli. Prima di scrivere narrativa ho collaborato a un giornale locale (anni ‘80), pubblicato poesie (Diario in frammenti, 1987), scritto un capitolo per un Nobel per la Pace (Woodrow Clark, Sustainable Communities). Ho tradotto (sinora per mero piacere personale) Death of a Salesman di Arthur Miller (1992), The Tenants (1993) di Bernard Malamud, Relato de un nàufrago di Gabriel Garcia Màrquez (1995), Muesli at Midnight di Aidan Mathews (2019), An Honest Man (2020) di Ben Fergusson, The Man Who Saw Everything (2020) di Deborah Levy. Sette i romanzi pubblicati sinora (nessuno a pagamento né in autopubblicazione): Volevo vedere l'Africa (2010), All'orizzonte cantano le cascate (2013), L'alba dei miracoli (2016), Mùnscià (2017), Spegnere il buio (2019), Raccontare troppo (2019), Tu, Bianca e Johnny (2020). Svariati i racconti: in Possa il mio sangue servire (2015) di Aldo Cazzullo, nella Rivista "Pastrengo" (2018), in Piemontesi per sempre (2019) di Autori Vari, e nella rivista "Zona di disagio" (2020)

Writer OfficinaWriter Officina: C'è un libro che, dopo averlo letto, ti ha lasciato addosso la voglia di seguire questa strada?

Teresio Asola: Ho sempre letto tantissimo, fin da ragazzo, ormai troppi anni fa. Due libri in particolare mi hanno lasciato addosso la voglia di provarci. Due libri molto diversi l'uno dall'altro. Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, letto almeno sei volte nella mia vita, la prima volta alle Medie, e Relato de un nàufrago, letto in spagnolo una trentina d'anni fa e subito da me tradotto per il piacere di riscriverlo lasciandomi condurre dalla penna di Gabriel Garcia Màrquez.

Writer Officina: A quale dei tuoi libri sei più affezionato? Puoi raccontarci di cosa tratta?

Teresio Asola: Difficile dirlo. Come dire a quale dei miei tre figli sono più affezionato: verrebbe da dire a tutti allo stesso modo. Tuttavia, forse il primo, Volevo vedere l'Africa, è quello che tra tutti ancora oggi mi spiace sia andato esaurito nelle librerie troppo presto e, vendute mille copie, non sia poi stato ristampato. La storia è formidabile, forse perché ispirata alle vicende – vere – di mio padre. Un vecchio di 85 anni, malato di cancro, racconta al figlio la sua avventura giovanile: ragazzo di diciott'anni parte volontario per l'Africa nel 1942 da un paese delle Langhe, combatte in Libia e Tunisia e dopo la disfatta di Enfidaville, catturato dagli inglesi è prigioniero nei campi francesi e americani in Tunisia e Algeria. Degli americani diventa cooperatore (Italian Cooperator), ne veste l'uniforme e con loro s'imbarca per Plymouth. Dalla città inglese scende in Normandia poco dopo lo sbarco alleato, giù fino a Parigi appena liberata e a Marsiglia dove per arrotondare lavora come interprete e accompagnatore degli ufficiali americani per i bassifondi. Torna, poi, ad Alba, ma spaesato torna in Francia, dove emigra, sans-papier ante litteram, passando per sentieri di monte con passeurs del luogo. Compiuta l'esperienza di qualche anno di lavoro in ferrovia dove conosce l'intolleranza mentre incontra nuove opportunità, il giovane torna in Italia.
Un libro di guerra, di memorie, di confronto fra generazioni, di sogni realizzati a metà ma utili per maturare. Di desiderio di partire e di bisogno di un ritorno.

Writer Officina: Quale tecnica usi per scrivere? Prepari uno schema iniziale, prendi appunti, oppure scrivi d'istinto?

Teresio Asola: Prendiamo il primo romanzo di cui ho parlato prima, Volevo vedere l'Africa. Nasce da certe rivelazioni fattemi da mio padre sul letto di morte, undici anni fa: storie di guerra, battaglie, prigionia, collaborazione con gli Alleati, ritorno a casa in divisa americana di un soldato italiano e successivi spaesamento, voglia di fare e migrazione clandestina in Francia. Dopo aver intervistato mio padre mi sono messo a scrivere, senza ben sapere dove mi portasse la scrittura, riempiendo i giustificabili vuoti di memoria con l'invenzione narrativa e la ricostruzione storica, fatta attraverso ricerche d'archivio. Lo schema iniziale è stato il diario scritto da mio padre durante la prigionia in Algeria.
Anche per il secondo romanzo, All'orizzonte cantano le cascate, sono partito da un documento (un diario manoscritto di un macellaio di bordo di un veliero inglese che a inizio ‘800 faceva la spola tra Inghilterra e India), per poi dare libero sfogo alla creazione, sorretta sempre da un buon lavoro di ricerca storica. Nel terzo caso, L'alba dei miracoli, dove parlo di un bambino degli anni '60 nella città simbolo del miracolo economico, Alba, mi sono lasciato guidare da ricordi personali, oltre che da testimonianze di prima mano e da una miriade di articoli di giornali dell'epoca. Anche in questo caso, non mi sono avvalso di uno schema rigido. Lo stesso per i successivi romanzi Mùnscià, Spegnere il buio, Raccontare troppo, Tu, Bianca e Johnny. Unica regola che mi sono dato, sempre: attingere ai fatti veri della vita da riplasmare nell'invenzione narrativa, perché non c'è nulla di più fantastico e inimmaginabile della vita realmente vissuta.


Writer Officina: In questo periodo stai scrivendo un nuovo libro? È dello stesso genere di quello che hai già pubblicato, oppure un'idea completamente diversa?

Teresio Asola: Smettere di scrivere è difficile come smettere di fumare (non fumo, ma immagino le pene). Da una dozzina d'anni dedico tutto il mio tempo libero alla scrittura. Perché? Non so. Certo non per soldi. E neppure per annegare dispiaceri della vita, che non riconosco.
Di solito mi dedico a più di un libro. Mi piace accarezzare le storie, coccolarle, rifinirle, leggerle e rileggerle, scriverle e riscriverle, riporle in un cassetto e riprenderle, più e più volte. Mi è molto difficile separarmi da una storia, dai suoi affanni, dalla consuetudine di una convivenza con i personaggi e le trame e con le difficoltà, la fatica e le gioie del loro sviluppo.
Ora, per esempio, ho – pronti e finiti, per quanto si possa considerare finito un libro – tre romanzi e una raccolta di racconti, oltre a una serie di abbozzi di storie. Due parole sui libri terminati, in attesa di un editore.
Un romanzo ripercorre le vicende di un giovane che viaggia in un mondo più vasto rispetto alla ristretta visuale della sua cittadina simbolo del miracolo economico, sullo sfondo di momenti storici cruciali e di paure di inizio anni '80, non ultimi il terrorismo e le guerre in Medio Oriente. Un altro romanzo intreccia misteri di paese, intrighi di famiglia, sanguinosi fatti di cronaca, inciampi della memoria, tragedie della storia e finzioni della vita: destini incrociati fra tre luoghi piemontesi, inventati ma più che mai veri e familiari. Dove il reale può superare la fantasia. Un terzo romanzo parla di tre città, tre aziende e un giovane che volevano volare (metaforicamente e non solo). La raccolta di racconti è cucita da un filo conduttore: il lavoro manageriale in cinque diverse aziende, ognuna caratterizzata da sfide, aspirazioni e problemi propri, tra declino industriale e visioni di futuro. Ogni racconto - pur legato agli altri da un filo narrativo individuabile - ha vita e sviluppo propri, con finali talora a sorpresa.
Ora, dopo quarant'anni di lavoro manageriale a tempo pieno e tanta scrittura a tempo perso, mi piacerebbe dedicarmi a tempo pieno al fare, artigianale e operaio: scrivere e tradurre.
Prima di scrivere romanzi, da giovane ho scritto poesie, collaborato a un giornale locale e tradotto Death of a Salesman di A. Miller e Relato de un nàufrago di G. G. Màrquez. Nessuno dei due mi generò contratti, perché all'epoca, preso nel lavoro, non ne cercai.
Ora, a sessant'anni, aspiro unicamente alla riscrittura fedele in italiano di belle storie. Ambisco a realizzare scritti onesti per il piacere del lavoro ben fatto, a beneficio dei lettori. Per questo da qualche mese mi sono rimesso a tradurre. Un romanzo inedito al mese.
Ho affrontato Muesli at Midnight, di Aidan Mathews: un romanzo irlandese ostico e disorientante, ma gratificante come una scalata. Protagonisti la parola, il linguaggio, le immagini, i rapporti interpersonali, lo scavo nell'animo umano, fatto di corpo e spirito. Poesia e teatro.
Poi è stata la volta di An Honest Man di Ben Fergusson, in cui il lettore è trascinato nel vortice di un intreccio sorprendente ambientato nel 1989 a ridosso della caduta del Muro di Berlino, in compagnia di personaggi scolpiti. La narrazione è incalzante, gremita di sorprese e rivolgimenti di fronte. Un racconto di amore, tradimento, storie familiari, spionaggio, alla ricerca delle tracce geologiche della storia come delle vicende individuali.
Infine, The Man Who saw Everything di Deborah Levy. Di nuovo fantasmi e speranze della Berlino del 1989, in contrappunto con la Londra di quel periodo, proiettate poi nel 2006 funestato dalla Brexit e dalla contrapposizione tra spaesamento e certezze dell'età matura. Una narrazione commovente, inafferrabile, che parla di vecchiaia, giovinezza, amore, contrasti, inganni.
Per nessuna di queste traduzioni ho trovato un editore italiano. Il momento non è propizio. Tuttavia continuo.
Scrivere è una gran fatica, ma smettere è più dura.
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