
Cinque anni dopo Cinque anni dopo cosa? Dopo il giorno della tua morte, Tommy. Ti avevo visto per l'ultima volta un mese prima, una mattina di cui ricordo l'assenza di luce e la tristezza. Ricordo anche il sapore del caffè che abbiamo bevuto a Milano al bar sotto casa. Tu doppio, io macchiato. Pensa, era Giovedì Grasso e non ce ne siamo neppure accorti, disperati come eravamo al pensiero di doverci separare. Quel giorno ti ho accompagnato, una volta ancora, alla comunità Il Bosco, dove vivevi da quasi due anni. Hai suonato, hanno aperto il cancello, ti sei avviato lungo l'opaco viale di ghiaia. Io sulla strada con l'anima in frantumi, come la tua mentre andavi. - Ciao mamma, torno a casa presto e questa volta per sempre. - - Sì, Tommy...ti aspetto, ti aspettiamo tutti. - - Mamma, non ce la faccio più. - - Lo so tesoro, lo so. È dura anche per noi. - - Mai come per me. - - Hai ragione, ma adesso vai. - A metà strada ti sei girato e mi hai regalato una specie di sorriso. Ho provato a sorridere anch'io e abbiamo fatto ciao con la mano, a testa bassa tu, a testa bassa io. Sono rimasta ferma in macchina, sotto la pioggia, per un tempo senza fine. Non ricordo se ho pianto, forse sì, accasciata sul volante. Il lamento del tergicristalli era già un compianto. Se mi avessero detto che non ti avrei mai più rivisto mi sarei buttata ai tuoi piedi, ti avrei supplicato di non lasciarmi, avrei gridato tutto il mio amore e tutto il mio dolore. - Non andare via, Tommy, ti prego, resta con me. - E poi, pochi giorni dopo, quella voce che dice - Tommy è morto. È caduto. Si è buttato - . L'avevi detto, - Mamma torno per sempre - . Tutta la tua breve vita era stata un lungo e ostinato tentativo di ritrovare la strada di casa, persa così tante volte. Sei tornato, sì, ma in una bara di legno lucido e chiaro con una targa di ottone su cui, in un bel corsivo inglese, erano incisi il tuo nome e quella data agghiacciante: 15 marzo 2013. Ora sei qui, come volevi tu figlio mio, e riposi in una casetta di ceramica bianca che ho fatto fare per te. Il tetto con le tegole colorate è a punta, come si conviene, e no, non ha la porta e non ci sono finestre.
Quando, e purtroppo solo se, le responsabilità saranno state accertate e la verità svelata, allora sarò felice di averne scritto e farlo, intanto, mi conforta e mi aiuta. Non a dimenticare, questo non potrà succedere mai, né a me né a chi ti ha tanto amato, ma a non sentire più l'oppressione della vergogna che si prova quando si è costretti a subire. Perché sai, ogni abuso ti fa sentire colpevole, come se tu fossi il carnefice e non la vittima. L'ingiustizia sporca la mente e imbratta il cuore, perché non sei riuscito a opporti e, alla fine, hai chinato il capo. Perché hai lasciato che violassero la tua anima e hai permesso che fossero crudeli. Sì, perché c'è stato anche questo. E quando un torto è stato perpetrato, come nei tuoi confronti figlio mio, con l'inganno e la menzogna, allora è necessario ristabilire l'onore e la dignità che sono stati calpestati. La memoria, perseguita con amore e con impegno, può fare questo miracolo.
Cosa stavo facendo quel giorno che sembrava uguale agli altri e che sarebbe diventato il più spietato di tutti? Il decimo lunedì tra i cinquantuno di quell'orribile anno. Il Dottor K. – non voglio neppure nominarlo, gli farei onore pronunciando il suo nome – mi telefonò alle sei e mezza. Stavo tornando a casa mentre arrivava puntuale la sera, all'ora prevista. Avevo appena superato l'angolo tra via Paolo Sarpi e viale Montello, di fronte al distributore di benzina anni '50 che da poco hanno abbattuto, dopo anni di resistenza all'avanzare degli implacabili grattacieli. Ero stanca e per questo tranquilla e volevo solo chiudere quella giornata, simile a tutte le altre. Dopo cena, un film o uno sceneggiato, io li chiamo ancora così, alla televisione. L'harusame, la rarefatta pioggia di primavera, scivolava sui tetti portando il crepuscolo con sé. 春雨 Mancavano pochi giorni all'equinozio. Sai perché si chiama così? Deriva dal latino ‘aequa nox' che vuol dire notte uguale, perché quel giorno, il 21 marzo, il giorno e la notte hanno la stessa durata. Riferirò di quel giorno e di quelli che seguirono e racconterò con sincerità tutto quello che è accaduto prima. Tornerò indietro nel tempo per narrare la tua e nostra storia e cercherò di essere obiettiva perché si tratta di illuminare le tenebre di quella sera con la luce splendente della verità. Darò a Cesare quel che è di Cesare e perciò a te quello che è tuo, a tuo padre ciò che è suo, a me stessa ciò che è mio e via distribuendo non colpe, certo che no, ma responsabilità o meglio ancora relazioni, connessioni e snodi in quello che è accaduto, per essere il più neutrale e imparziale possibile. Perché è giusto che ognuno si faccia carico della sua parte, persino tu che non ci sei più. Sarò severa con tutti e severissima con me stessa, ma non sarà una inutile resa dei conti. Sarà doloroso, lo so, ma cercherò di essere leale e di non mentire. Di non barare al solitario, come consigliava con un sorriso soave il Maestro Dosen, mio saggio amico e guida, da poco scomparso. Non emetterò giudizi né tantomeno condanne, e non mi autoflagellerò perché soffrirei, se fosse possibile e non lo è, ancora di più. Se qualcuno, leggendomi, vorrà dire la sua sarò felice di ascoltarlo e di cambiare idea, semmai, se non avessi capito, se avessi frainteso o travisato i fatti, se avessi omesso qualcosa di importante. Tutti hanno diritto di dare la loro versione, di spiegare e, perché no, di difendersi, se occorre, e, se è quello che desiderano, di chiedere, come farò io, di essere perdonato. Perché abbiamo sbagliato tutti.
Lunedì 15 marzo, dunque. Un giorno che sembrava uguale agli altri, all'inizio della stagione più amichevole, mentre avanzava inatteso e impietoso il mio infinito inverno. Il giorno più temuto da chi ama. Ricordo tutto. Le quattro e mezza. Pensai, uscendo dalla biblioteca – un'emeroteca per essere precisi – di corso Vercelli, ora chiamo Tommaso. Tommaso che tutti chiamano Tommy. Così, pensai, ora chiamo Tommy. Non ti sentivo da giorni ma sapevo che presto saresti tornato da quel luogo maledetto lontano da casa che per quasi due anni era stato il tuo carcere e che sarebbe diventato, in un attimo assassino, la tua tomba: la comunità Il Bosco. Ma non ti ho chiamato. No, non l'ho fatto. Pensai è tardi, lo chiamo domani. Credevo che avessimo ancora tempo ma tu, tu, amore mio, avevi ancora solo due ore di vita. Eri lontano da me, da tutti noi, ma sapevamo che stavi tornando e ti stavamo aspettando per festeggiare il tuo coraggio e il tuo successo. Mancava meno di un mese alla tua libertà, e alla nostra, segregate dalla tua prigionia. Cosa stavi facendo? A cosa stavi pensando? Ti sentivi solo come mi sentivo io senza di te? Qual è la maledetta sequenza di minuscoli eventi che ha portato al disastro? Perché è così che funziona. Migliaia di decisioni inconsapevoli che a volte approdano alla salvezza quando non alla fortuna e altre volte alla catastrofe, senza che riusciamo a percepirne l'importanza e ad accorgerci che quel fatto insignificante ha in sé il seme, ohimè fecondo, dell'ineluttabilità. Cambiare strada, disdire un appuntamento, decidere di andare o di restare. Fermarsi a un semaforo, guardare una vetrina, prendere un caffè, perdere l'aereo, fare una telefonata, appunto. Senza intuire che qualcosa di tragico e impercettibile sta accadendo. Senza fermarci a osservare ciò che avviene proprio mentre avviene e a riflettere su cosa è importante e su cosa non lo è. C'è chi lo chiama destino, chi fato, chi sorte e chi dice che è già scritto. Maledizione, ma davvero non possiamo smetterla di rimandare a dopo, a domani o a chissà quando. E se non ci fosse un dopo, né un domani, tantomeno un chissà quando? Il tempo è vorace e impietoso, lo sappiamo, ma preferiamo ignorarlo e sventati corriamo, fino a che non è troppo tardi. Ma questo lo capiamo, sventurati, solo dopo, quando sono le conseguenze ad aprirci gli occhi. I disastri accadono così. Non per stupidità o cattiveria, se non sei pazzo, sconsiderato o malvagio, ma per una dimenticanza, una sbadataggine o un contrattempo. Perché eri distratto, tutto qui. Alle cinque hai fatto una telefonata, eri sereno mi ha detto poi chi ti ha risposto, qualche minuto dopo la tua vita si è fermata e sei scivolato oltre il confine di questo mondo. Ce n'è forse un altro? Questo io non lo so ma tu adesso sì. Lo dice Proust, ‘Si può morire oggi pomeriggio', a tutti può accadere. È successo a te, amore mio, e ancora non so come e perché. Per me era una giornata come un'altra, in frenetica ma serena attesa del tuo ritorno. Sei tornato, ma senza più vita e ora sei luce ed energia e sei una minuscola parte dell'anima universale. Alle cinque spensi il telefono per uno stupido appuntamento di quelli dove tutti credono di avere qualcosa di importante da dire. Cosa poteva esserci di più importante di te, che stavi volando via? E se, a quell'ora precisa, ti avessi chiamato? Alle sei quando lo riaccesi, era troppo tardi per tutto e, per la seconda volta nella mia vita e per sciagura non l'ultima, quell'ottusa scatola nera celava un messaggio dall'inferno e un'orribile sentenza di morte. La tua, figlio mio.
Carla De Bernardi
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