
Sin da piccola Elena aveva avuto la sensazione di essere diversa, si sentiva molto sola ed era convinta che gli altri la considerassero come una persona da isolare e che cogliessero ogni occasione per prendersi gioco di lei. Gli altri, una massa di individui uguali tra loro, o almeno, omologati nell'aspetto e nel comportamento, completamente diversi da lei, incapaci, a suo parere, di capirla e di comprenderne le profonde sofferenze.
In qualsiasi contesto si trovasse si sentiva goffa ed impacciata ed era convinta che il proprio aspetto fosse peggiore rispetto a quello delle sue coetanee, per questa ragione spesso preferiva restare sola chiudendosi come un riccio impiegando il proprio tempo a pensare. Spesso si domandava - Perché io sono io? - , era una domanda ricorrente che non trovava risposta, non capiva perché proprio quella parte interiore, quell'anima, aveva scelto quel corpo. Si sentiva diversa dagli altri in tutto, nel comportamento, nell'educazione ricevuta, nei sogni che custodiva, nelle aspettative, nelle preoccupazioni e nell'aspetto. Era più alta delle sue coetanee e ne soffriva. In realtà Elena non poteva sapere come si sentivano gli altri, magari anche loro facevano le stesse sue riflessioni, ma lei immaginava che non fosse così. Il contesto familiare non le era certo stato di aiuto, figlia minore, con un fratello maggiore brillante e sicuro di sé, talvolta anche arrogante e presuntuoso che poteva fare tutto quello che voleva. Un padre severo dalle strette vedute che si aspettava da Elena risultati brillanti come quelli del fratello e che, di fronte all'approccio insicuro e introverso della figlia, reagiva sempre facendo inutili quanto dannosi paragoni con l'intraprendenza e le indiscusse capacità del fratello maggiore. Consapevole di ciò Elena era terrorizzata dall'idea di deludere il proprio genitore perché temeva che potesse poi farle pesare la sua inadeguatezza facendo aumentare così il proprio senso di frustrazione. Ai tempi della scuola i suoi voti non erano mai abbastanza alti e venivano sempre paragonati ai rendimenti scolastici di suo fratello Enrico che, pur studiando poco, aveva eccellenti risultati. Finita la scuola la situazione non cambiò molto, Elena continuò a vivere, o meglio, sopravvivere, portando dentro di sé un senso di oppressione, malessere, timore ogni volta che sapeva di dover incontrare suo padre o semplicemente parlarci al telefono. In realtà il padre di Elena aveva per lei una profonda stima ma lei, pur rendendosene conto, tendeva a far prevalere quella sensazione di disagio e soggezione che aveva contrassegnato l'intera sua esistenza sin dall'infanzia. Aveva sempre rinunciato ad essere se stessa per essere ciò che i suoi genitori desideravano che fosse. Elena soffriva, soffriva molto.
Non capiva per quale ragione suo fratello Enrico aveva un elevato grado di libertà mentre lei veniva sempre soffocata e costretta, con continui ed estenuanti condizionamenti psicologici, a rinunciare a tutto. Questa situazione accresceva ogni giorno di più il suo senso di frustrazione e insicurezza e la allontanava ancora di più dagli altri. Non aveva amici, si sentiva sempre più insicura e si isolava ogni giorno di più. Si comportava in modo diverso dalla maggior parte delle sue coetanee e ne era consapevole, il divario dalla cosiddetta normalità era tale che anche gli altri se ne accorgevano e, seppur forse inconsapevolmente, la isolavano. La sua percezione di essere diversa aveva sedimentato in lei la convinzione di non poter fare niente di ciò che facevano gli altri. Attorcigliandosi nei suoi stessi pensieri veniva come inghiottita da un coacervo di autolimitazioni che si replicavano all'infinito.
Lei era lei, gli altri erano gli altri questa convinzione era talmente radicata da farle credere che esistessero due mondi diversi, estranei, distanti, che difficilmente avrebbero potuto integrarsi e comunicare. Durante il periodo adolescenziale, almeno fuori dalla famiglia, la situazione fu decisamente migliore e Elena iniziò ad avere sempre più fiducia nelle proprie capacità pur portandosi dietro le ferite di una infanzia colma di sofferenza.Passava dalla convinzione di essere in grado di poter fare qualsiasi cosa in modo migliore e più rapido rispetto agli altri, con una eccessiva fiducia nella proprie potenzialità rasentando la megalomania, a momenti di depressione in cui una incolmabile tristezza la faceva sentire inadeguata ed incapace di affrontare anche le situazioni più semplici. Questa ambivalenza, come un'ombra incollata alla mente, fu l'inseparabile sua compagna di vita portandola arbitrariamente ad auto diagnosticarsi una lieve forma di disturbo bipolare senza però avere mai approfondito attraverso un consulto con professionisti perché era convinta che in ogni caso nessuno avrebbe potuto aiutarla e poi sicuramente i suoi genitori non la avrebbero mai sostenuta in percorsi terapeutici e minimizzando il problema l'avrebbero indotta a sentirsi ancor più a disagio. Si ricordava che anche ai tempi in cui frequentava le scuole superiori aveva frequenti sbalzi di umore che si ripercuotevano inevitabilmente anche nella sfera relazionale.
Silvia Vivoli
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