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Autore: Rocco Luccisano
Namibia Terre violate
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Namibia Terre violate
La maledizione degli Orisha.

Dodici miglia al largo delle coste dell'attuale Namibia, 14 aprile 1703.

- In tanti anni di navigazione e di viaggi nelle terre più diverse non ho mai visto nulla di così terrificante, per la prima volta ho assistito all'inferno... -
Questo fu l'ultimo commento che quella sera il veterano capitano olandese Frederik Smith, al comando del galeone Mater, rivolse in confidenza al suo secondo.
Il sole era tramontato e l'imbarcazione era salpata d'emergenza da un paio d'ore dal luogo in cui sarebbe sorta e si sarebbe sviluppata nel secolo a seguire la cittadina costiera di Lüderitz. Il comandante osservava le mappe preoccupato: secondo i suoi calcoli aveva già percorso almeno una decina di miglia. E così era; raramente il capitano si sbagliava nella valutazione delle rotte già coperte o ancora da coprire.
Dopo due ore l'equipaggio era ancora sconvolto da quello a cui aveva assistito. Ognuno pregava, ringraziava il proprio dio per essere scampato all'orrore cui si era trovato di fronte. Peggio si sentivano gli schiavi, costretti con la forza a imbarcarsi, annichiliti per i loro cari rimasti a terra, lasciati in balìa di un crudele destino.

Due ore prima di salpare

Nel raggio di oltre un chilometro la terra cominciò a sollevarsi esplodendo in diversi punti e scagliando in cielo milioni di rocce e particelle minerali roventi. Si formò una nube in cielo, gigante. L'onda d'urto fece volare in aria per decine di metri antilopi, zebre e altri animali di grande taglia, scaraventando elefanti da sei tonnellate che si trovavano nel raggio di centinaia di metri dall'epicentro. Si crearono crateri in cui erano sprofondate vite umane, animali e vegetali. Quelle voragini e quel paesaggio di desolazione sarebbero rimasti per secoli testimonianza concreta della potenza distruttiva di un fenomeno anomalo.
Gli uomini dell'equipaggio, sulla spiaggia pronti a partire, erano scossi di fronte alle deflagrazioni, lontane un paio di chilometri dalla costa: la mano dell'uomo non era ancora riuscita a generare una potenza tale. Fecero giusto in tempo a salire a bordo del veliero alla fonda nella rada quando furono travolti da un'ondata di calore infernale. Fuggire prima che le onde anomale prendessero volume: era questo l'imperativo del comandante. Quei pochi istanti parvero un'eternità agli occhi degli europei e degli autoctoni.
- Salite a bordo con i negri e abbandonate quei dannati diamanti! - continuava a gridare il comandante.
Abbandonarono sul posto oro e diamanti, per lo più estratti e trasportati fin lì da altre zone della regione. Bastò un attimo che presero a considerare “maledetti” quei beni. Alla loro estrazione attribuirono la causa del risveglio dalle viscere della terra di quei demoni che adesso li minacciavano. Non solo li immaginarono neri come i loro fedeli africani, ma anche malvagi come i mercenari negrieri che castigavano a vita innumerevoli innocenti.
Gli uomini della tribù locale erano adesso ben più preoccupati per la natura ribelle che per gli schiavisti bianchi. Benché incatenati come animali, erano più fortunati di coloro che – scartati dai negrieri – erano rimasti a morire sulla terraferma, lanciati in aria e poi inghiottiti dalle bocche che si aprivano nel terreno. Loro, seppure ridotti in schiavitù, ebbero la fortuna di abbandonare la natura che li aveva ospitati per decenni e che adesso gli si rivoltava contro.
A bordo del Mater gli schiavi, maschi color ebano e senza un filo di grasso, piangevano già le loro donne e i loro figli.
L'esigua tribù si era scissa dal ceppo bantù ed era giunta lì una trentina di anni prima da una regione a nord, al confine tra gli attuali Nigeria e Camerun. Circa quattromila uomini, donne e bambini avevano percorso più di cinquemila chilometri per sfuggire alle minacce dei negrieri che concentravano le loro attività di ricerca e selezione di schiavi nella regione centro-occidentale dell'Africa. Così, per evitare che i migliori adulti venissero prelevati forzosamente e trasportati nelle Antille e in Brasile, erano migrati verso sud. L'altro motivo che aveva generato quella diaspora era la ricerca di un luogo sicuro e lontano dalle tribù più violente. Il luogo eletto dalle loro divinità era la regione meridionale del Namib, vicino alla futura Lüderitz, meno battuta dai mercanti europei e disabitata. Ormai allo stremo delle forze e ridotti a un migliaio di unità dopo il lungo e tribolato viaggio a piedi lungo le coste dell'Africa occidentale, tra mille peripezie e sciagure avevano deciso di stabilirsi lì in modo sedentario e definitivo.
La comunità era capeggiata da Togu, il più saggio e potente capo religioso mai conosciuto in Nigeria. Un uomo che professava la religione Yoruba. Una volta occupate, avevano chiamato quelle terre Alabo, e loro, gli abitanti, avevano preso il nome di Alabosunilé: i protettori e custodi della terra.
Ora, per la seconda volta, subivano la malaugurata sorte di assistere a quel fenomeno “sovrannaturale”, attribuito all'ira di semidei, palesatosi con proporzioni molto più devastanti rispetto alla precedente. Le persone più lontane dall'epicentro correvano verso il mare in cerca di una via di fuga, vedendo i loro compagni e familiari saltare in aria. I sopravvissuti si gettavano tra le onde del mare quando il galeone stava ormai prendendo il largo.
Togu Kamate, l'anziano religioso, sulla riva cominciò a pregare rivolgendosi al cielo per invocare e implorare le creature in cui credevano, gli Orisha. I suoi movimenti si fecero frenetici e vibrando emetteva, sempre più forte, versi impressionanti e incomprensibili per gli europei. Secondo il loro credo divinatorio, in tempi remoti gli Orisha erano stati re e regine di antichissimi regni africani, diventati poi semidei. Su questo culto si fondava la religione Yoruba.
Il comandante Smith e il suo equipaggio rimasero increduli di fronte a quella catastrofe. Osservavano i tentativi di fuga degli abitanti verso il mare, soprattutto donne, bambini e anziani. Da lontano sembravano formiche disperate che avevano rotto le file. La maggior parte degli uomini, invece, si trovava al riparo sulla nave in condizioni di schiavitù, la stessa che ora li stava salvando. I marinai rimasero per un attimo a osservarli prima di salpare d'urgenza. Vedevano indigeni lanciarsi da alti dirupi e rompersi le ossa pur di trovare riparo, altri che riuscivano a raggiungere il mare e a gettarvisi dentro senza saper nuotare. C'era chi invece non ce la faceva, chi perdeva l'equilibrio e cadeva a terra a causa delle oscillazioni sussultorie del suolo. Alcune madri restarono accasciate a coprire con il corpo i loro piccoli inermi nel tentativo di proteggerli dalla pioggia di massi simili a meteoriti. Rinunciavano perfino a rialzarsi per cercare altre vie di salvezza. Forse non era un caso che quella fosse la terra con la più alta concentrazione al mondo di materiale meteoritico.
Togu, la guida spirituale e il più anziano di tutti, fu scaraventato sotto gli occhi dei naviganti, ma lui, coperto di polvere, si rialzò tra i cadaveri dei suoi seguaci sparsi ovunque. Dignitoso, riprese a eseguire rituali convulsi simili a danze. Per i marinai quelle orazioni erano solo un preambolo al suicidio, un inutile tentativo nella speranza di poter calmare le entità ostili. Lo considerarono un folle: sfidare la violenza della natura era qualcosa che andava oltre la loro immaginazione. Il comandante, invece, lo osservava con ammirazione per la fierezza e il coraggio che mostrava di fronte all'ira degli “spiriti maligni”, “spiriti neri” come i “profani” olandesi definivano impropriamente le sacre divinità Orisha.
Affinché graziassero il suo popolo da quella punizione, l'anziano si stava appellando a Onilé, dio legato al culto della terra; a Obatalà, creatore del mondo e dei corpi umani; a Nana, Orisha della morte e non solo; a Yemayà, semidea della fertilità, e a Oxum, Orisha femminile dell'oro. Grazie a quelle preghiere, la terra si era placata.

Dopo due ore di navigazione a velocità sostenuta, i marinai erano ancora scossi, consapevoli di essersi lasciati alle spalle un incubo e la morte. Pur forti di maggiori basi scientifiche, non riuscivano a dare a quel fenomeno una spiegazione differente da quella mistica, così che terminarono per lasciarsi suggestionare e terrorizzare dalle credenze spirituali e religiose degli autoctoni.
- Siamo salvi per miracolo. Ma dove ci ha portati, comandante? - disse uno dei subordinati riassumendo quello che pensavano un po' tutti sul galeone.
- Mai visto o sentito nulla del genere in vita mia e in quarant'anni di navigazione per tutti i mari - fece Smith togliendosi la sabbia dagli occhi con l'avambraccio.
- Sembrava l'apocalisse. -
Uomini, donne, bambini, animali, alberi secolari e massi delle dimensioni di una scialuppa erano stati scaraventati in aria dalle ripetute deflagrazioni provenienti con una facilità spaventosa, per lasciarli ricadere a centinaia di metri di distanza come fossero stati sassolini. Il paesaggio che si era delineato sembrava quello di una guerra di sterminio. Desolante quanto la crosta lunare, non era rimasto nulla della già rada vegetazione. A una distanza di circa duecento chilometri dalla costa, non si poteva nemmeno intravedere la nube dai contorni incerti generata dal vulcano più vicino. In quei giorni era attivo ma stava emettendo solo sporadici detriti, senza che però si fosse verificata un'effettiva fuoriuscita di materia lavica.
Per i pochi abitanti di quella zona quasi desertica quelli erano segni che non facevano presagire nulla di buono, cui si aggiungevano suoni cupi provenienti dalle profondità della terra che facevano rabbrividire.
Per i marinai europei invece quel vulcano era stato l'ultimo dei pensieri. Più tardi del solito, quella sera il capitano terminò di scrivere la pagina più importante del diario di bordo mai redatta. Descrisse con minuzia ciò che era avvenuto sotto i suoi occhi poco prima della partenza anticipata, definendo quel fenomeno come un maleficio venuto dagli inferi causato dalla bramosia di oro e diamanti. Scrisse che loro, i bianchi, avevano destato gli “spiriti” africani, malvagi.

14 aprile 1703
[Omissis]
Oggi abbiamo assistito a un evento sovrannaturale mai visto da occhi umani. Abbiamo rischiato le nostre vite e solo grazie a Dio siamo riusciti a salvarci. Un vero miracolo.
Verso sera, prima di salpare, all'improvviso la terra, a poca distanza dalla costa, ha cominciato a esplodere con la potenza di milioni di cannoni. Erano esplosioni così forti che mai l'uomo sarà in grado di generare artificialmente con la polvere da sparo. Erano deflagrazioni talmente potenti da sgretolare in un secondo un'intera fortezza con tutte le sue mura difensive. Provocavano crateri delle dimensioni di due vascelli uno accanto all'altro, le cui voragini risucchiavano tutto quello che vi si trovava sopra, uomini, animali e alberi. Inghiottivano tutto come sabbie mobili.
L'uomo dovrà tenere a mente e tramandare alla memoria dei nostri figli e nipoti che mai più nessuno dovrà avvicinarsi a quelle coste e a quelle terre. Sembrava l'apocalisse. In quel luogo, tra mare, deserto e vulcano, ci sono degli spiriti maligni che non gradiscono la nostra presenza, la civilizzazione, e soprattutto che siano gelosi del loro oro e dei loro diamanti. Ci si sono rivoltati contro con una violenza inaudita. Spero di non dover essere mai più testimone di un fenomeno simile, e quindi non metterò mai più piede in quelle terre maledette dagli spiriti e dal demonio. Era l'inferno.

Rocco Luccisano

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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