
Il cellulare squillò facendola sussultare. Proprio ora che sto ballando la quadriglia con il conte Vronskij, pensò con una punta di stizza. Posò il libro sul comodino senza chiuderlo e sfiorò il touch del suo smartphone. In anteprima apparve un messaggio, era Emma. «Tutto ok?». «Tutto bene, tu?». «Anch'io. Sono un po' di giorni che non ti sento. Dove sei finita?». «Tra le pagine di un libro russo», rispose allegando la faccina che ride a testa in giù. «Sei sempre la solita strana», controbatté l'amica con tre emoji sorridenti. «Si lo so. Però, se divento antipatica, dimmelo!». Emma le mandò due pollici rivolti verso l'alto. Poi aggiunse: «Nei prossimi giorni usciamo, ti chiamo». «Ok. Ciao». «Ciao». Elisa riprese in mano il libro e la sua mente ritornò al ballo, vide Anna e Vronskij ballare la mazurka con gli occhi di Kitty, vide lo smarrimento e l'eccitazione nei loro sguardi e provò la delusione per un desiderio infranto. Il sogno romantico la trasportò lontana dalla sua stanza. Concluso il capitolo, si alzò dal letto per sgranchirsi le gambe e andò alla finestra. Si affacciò, gli otto piani di altezza le dettero un senso di vertigine. Non si era mai abituata a guardare il mondo dall'alto. I condomini popolari illuminati dall'alone giallo dei lampioni le ricordarono che anche lei viveva in quegli alveari di cemento costruiti sulla collina. Prima di chiudere l'avvolgibile si consolò guardando il golfo rischiarato dalla luce lattiginosa della luna, da quella posizione si ammirava appieno. Devo andare a letto, è tardi, si disse mentre appoggiava il libro sulla scrivania. Il codice della biblioteca comunale scritto a penna sulla costoletta di Anna Karenina la infastidì un po'. Lo cercherò da Domenico. Le piaceva andare nel suo negozio e perdersi tra i libri accatastati in scaffali polverosi e impilati a terra senza nessuna logica. Lui la guardava come fosse un'aliena, poi tornava a fissare annunci di vendita on line sul portatile. «Sta tornando di moda il vinile e a che prezzi!», le aveva detto l'ultima volta con tono di stupore misto a felicità. Svuotando le cantine, negli ultimi anni, ne aveva accumulati tanti e, dato che era sempre in bolletta, sperava di guadagnarci qualcosa. «Non sai che tesoro hai qua dentro», gli aveva fatto notare Elisa mentre appoggiava sul bancone le edizioni di 100 pagine mille lire. Suo padre le aveva raccontato che un tempo la gente comprava quei classici in edizione economica nelle edicole delle stazioni per passare il tempo in treno. «Purtroppo il valore delle cose non lo decidiamo noi», aveva controbattuto Domenico con quel tono disilluso che lei voleva credere fosse da sognatore e non da commerciante. Elisa prese l'antologia. Per un attimo, riaprì il capitolo su I Sepolcri. L'occhio le cascò sulle sottolineature che aveva fatto quel pomeriggio. Ho un po' esagerato, pensò, ma ci teneva a fare una bella interrogazione con la Turini. La mise nello zaino. Con fatica chiuse la cerniera che non aveva più il tiretto. Poi spense la luce. Cercò di rilassarsi e prendere sonno, ma fu travolta da un vortice di pensieri. Dov'è mia madre? Cosa sta facendo? Domani viene quell'impiccione di Enrico... Guardò la sveglia sul comodino. Era l'una di notte, doveva dormire. Aprì il cassetto e ci rovistò dentro cercando la boccetta di Delorazepam. Negli ultimi tempi non ne aveva fatto più uso. Questa sera ne ho bisogno pensò con senso di colpa mentre le gocce dell'ansiolitico le bagnavano la lingua. Bevve un sorso d'acqua, quel sapore chimico non le piaceva. Si alzò per andare in bagno. Il farmaco cominciava a fare effetto e pian piano si sentì più leggera. Fece il giro della casa e una vaga alterazione delle percezioni gliela fece sembrare più carina. Il salotto sem- brava più grande, i divani lisi con quel motivo floreale sbiadito e la cucina con i suoi componibili di fòrmica non erano poi così male. Passò davanti alla camera dei genitori. La finestra era aperta e la luce lunare creava un chiaroscuro nel quale le sembrò di intravedere due sagome nel letto. Era soltanto un gioco di ombre, per un attimo si rivide bambina. Ma solo per un attimo, perché il farmaco stava prendendo il sopravvento con il rischio di farle perdere l'equilibrio. Andò a letto e cadde in un sonno senza pensieri.
La porta del bagno vibrò. Qualcuno aveva bussato violentemente e per poco il chiavistello non cedette. «Occupato!», rispose Marta farfugliando con la bocca impastata. «Un attimo per favore», ribadì recuperando una certa fluidità nel suo eloquio. Le venne da ridere e le sembrò di essere tornata bambina quando con le sue compagne di classe giocava allo scioglilingua Sopra la panca la capra campa e sotto la panca la capra crepa. Cominciò a ripeterlo a bassa voce mentre davanti allo specchio cercava invano di rimarcare la linea sottile dell'eyeliner sbaffato. Sopra la panca la capra campa e sotto la panca la capra crepa. Sopra la banca la capra campa sotto la banca la capra crepa. La filastrocca da gioiosa divenne seria. Lo sguardo le cadde su un foglio appiccicato al muro, proprio sopra la placca di comando del Geberit. Era scritto al computer e non riuscendo a metterlo bene a fuoco le sembrò una di quelle lettere che le intimavano di saldare pagamenti per i quali era inadempiente. Invece era solo un vademecum sull'uso dei sanitari: Stai per battere un rigore a porta vuota vedi di non sbagliare. E tira l'acqua in caso di vittoria. La direzione. Sorrise divertita. «Allora!». Il tono divenne incalzante. «Ho fatto». Prima di uscire si compiacque di quella donna ri-flessa davanti a sé che a quarantadue anni aveva an- cora il fisico di una ragazzina, lineamenti mediterranei e capelli neri alla Penelope Cruz. Così le aveva detto Roberto e a lei quel paragone era piaciuto da morire. «Un po' di pazienza», rimproverò all'uomo che, con le mani sulla patta dei pantaloni, saltò nel bagno come un ranocchio. Chissà se rispetterà le regole della direzione, pensò Marta facendo una smorfia con le labbra rosso sangue. Il rumore che filtrava dalla porta socchiusa faceva rimpiangere il gracidare delle rane. «Ce ne hai messo di tempo!». Roberto seduto al tavolino del Coffee & Drink aveva un'aria mista tra il risentito e lo scherzoso. «Noi donne abbiamo bisogno di andare ai box ogni tanto», gli rispose sapendo della sua passione per la Formula Uno. Lo baciò e il suo pizzetto le fece pizzicare il mento, ma non le dispiacque, lo trovava affa- scinante con quel look curato. Gli accarezzò i capelli corti tenuti in piega dalla cera. «Ho ordinato un altro Prosecco», le disse mentre si apprestava a riempire i calici. Era la terza bottiglia della serata. «Aspetta, facciamoci una foto prima». Marta adagiò il cellulare sul portatovaglioli. «Alla nostra!», esclamò lui afferrando il calice non appena vide il flash della fotocamera. I dieci secondi di countdown dell'autoscatto gli erano sembrati interminabili. «Ma non vuoi neanche vedere come siamo venuti?», gli chiese mentre riprendeva il cellulare, «questa foto non è granché, ho gli occhi chiusi», constatò infasti- dita. «La rifacciamo dopo, prima brindiamo». «Ve la scatto io?», propose Pino che si stava godendo la scena. Negli ultimi giorni erano stati clienti abituali del suo locale da poco rinnovato. Il Coffee & Drink si era rifatto il trucco. Le pareti annerite erano state ridipinte di un vivace grigio perla e i tavoli non erano più sporchi e traballanti. Un maxischermo con l'abbonamento a Sky Calcio e un'area dedicata alle slot machines, gli garantivano le giuste entrate. Carte e chiacchiere non bastavano più. «Grazie», rispose Marta entusiasta. Gli porse il suo telefonino «è tutto pronto, devi solo schiacciare qui», si sedette accanto a Roberto che la cinse con le sue braccia muscolose. «Sorridete, bene, bravi così, conto fino a tre e poi scatto». «Pronti», esclamò Marta. «Uno». Dalla sala slot si sentì un fragore di gettoni in caduta libera. «Due». Qualcuno esultava in una lingua slava. «Tre». «Niente, è da rifare», disse Pino, «tu Roberto hai un'espressione troppo seria». Il barista ripeté la pantomima. «Oh! Adesso è venuta bene». «Alla salute», esclamò Marta. «Alla salute», ripeté Roberto alzando il calice, ma si rabbuiò vedendo quell'uomo che andava a riscuotere il suo bottino al banco. Questi abbassano il costo del lavoro pensò con senso di fastidio misto a invidia. Qualche giorno prima alle slots aveva perso ben cento euro, proprio la metà di quanto aveva guadagnato in una settimana di lavoro per la Fabio Traslochi srl. Pochi soldi in cambio di giornate intere a spaccarsi la schiena e a sudare tra- sportando divani fino al decimo piano insieme ad albanesi e romeni. Possibile? Sì, e Fabio con quell'aria da capetto era stato chiaro: prendere o lasciare. D'altronde con questa manovalanza dell'est lo farei anch'io, fantasticò Roberto immaginandosi per un attimo anche lui titolare di una ditta. Poi tracannò il Prosecco tutto d'un fiato. «Ma come fai a reggere così tanto l'alcol?». «Questione di allenamento, sono cresciuto in campagna, mio padre il vino me lo metteva nel biberon», spiegò spacconeggiando mentre si arrotolava in su le maniche della camicia. «Io devo mangiare qualcosa invece», disse Marta alzandosi per andare a prendere un pacchetto di patatine. Roberto osservò eccitato i suoi fianchi stretti in un paio di leggins ondeggiare mentre si avvicinava al bancone. Da quando avevano cominciato a frequentarsi gli appariva sempre più affascinante. Gli sembrava che ormai avesse superato il lutto e soprattutto la noia di essere stata la moglie di un comunista. Tornò a sedersi che il pacchetto di San Carlo era quasi finito. «Che significa quel tatuaggio?», gli chiese indicando la ragnatela sul gomito, «è un po' inquietante, io odio i ragni». «In realtà ha molti significati. C'è una tradizione che dice che se lo facevano i disoccupati della Repubblica di Weimar per protestare contro gli ebrei che controllavano il mercato del lavoro». Marta rimase contrariata, a lei quei discorsi non piacevano. La politica le interessava poco, era sporca e serviva solo a far litigare le persone. Suo marito non era riuscito a trasmetterle la sua passione. E poi questa Repubblica di Weimar non le sembrava di averla mai sentita nominare. A scuola Storia non la studiava quasi mai. A stento aveva preso il diploma all'Istituto Alberghiero. «Io ho sempre fatto lavori saltuari», continuò Roberto, «qui di lavoro ce n'è poco, a meno di non stare chini nei campi come hanno fatto i miei genitori. Ma io non voglio finire come mio padre con la schiena a pezzi. L'acciaieria non è più un'alternativa, è quasi chiusa ormai». «Certo hai ragione, però che c'entrano gli ebrei? Ne hanno uccisi milioni nelle camere a gas». «Ma sui numeri non si è mai certi, la Storia la scrivono i vincitori, comunque io sono un pacifista», la rassicurò. Non voleva che ci fossero attriti. A tempo debito le avrebbe spiegato come va il mondo. «Oddio quant'è tardi», esclamò Marta osservando il display del cellulare, «Elisa sarà preoccupata». «Domani non lavori, che t'importa?». «Ho una figlia a cui pensare», chiarì cercando di tenere il punto. «Non ti preoccupare dai, vieni a casa mia. Tua figlia ormai è grande, può dormire da sola». Marta rimase in silenzio. Era eccitata dalla proposta, ma al tempo stesso combattuta. Poi, quando finì il calice, disse: «Andiamo».
Nicola Polizzi
|