Writer Officina - Biblioteca

Autore: Maria Enea
Alchimia
Mistery
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Alchimia

1 - Gand, 1610.

Qualcuno bussava violentemente alla porta.
Senza scomporsi, il medico e alchimista Pieter Martens in persona aprì l'uscio, predisponendosi ad affrontare un'emergenza. Sapeva bene quanto i problemi di salute potessero essere impellenti, specialmente se a creare problemi era il cuore.
Ma, con grande sorpresa, vide che non si trattava di pazienti, bensì di quattro gendarmi.
«Che succede? Il capitano ha di nuovo mal di denti?»
«No, signor Martens, si tratta di un'altra cosa», spiegò uno dei birri. «Nei sobborghi della città abbiamo trovato un ragazzo svenuto. Sembrava un vagabondo e lo abbiamo arrestato. Ma lui dice di essere tedesco, di venire da Dresda e di voler parlare urgentemente con voi. Si chiama Hans Berger. Dice che deve parlarvi di vostra figlia Osmolinda».
Le parole dei gendarmi sconvolsero il pover'uomo.
«Vengo con voi».
I gendarmi lo accompagnarono gentilmente alla prigione di Gand. L'alchimista fu introdotto in ambienti angusti, bui e fetidi. Le prigioni del mondo si somigliano tutte, purtroppo. Infine, lo fecero sedere in una stanza.
Poco dopo, accompagnato dai gendarmi, entrò un ragazzo magrissimo, biondissimo, alto, con due paurose occhiaie a segnargli il bel viso.
«Fatemi liberare, signor Martens. Non ho fatto nulla». Parlava il fiammingo in modo stentato, con accento tedesco.
«Hanno creduto che io fossi un vagabondo. Ma io sono venuto dalla Sassonia per parlare con voi! Sono l'apprendista e l'aiutante di vostra figlia. Mi chiamo Hans Berger».
«So chi sei. Mia figlia ha parlato di te nelle sue lettere».
Pieter si rivolse allora ai gendarmi presenti.
«Che devo fare per liberarlo?». 

2 - Dresda, 1707

Segrete del castello di Grossedlitz
Il prigioniero si dimenava spasmodicamente nelle catene e non smetteva di urlare.
«Sono Bottger! Sono un famoso alchimista! Non sono un criminale! Perché mi avete portato qui? Chi mi ha fatto arrestare? È un errore! Liberatemi! Voglio parlare con il principe! Portatemi da lui!».
Le guardie continuarono la loro partita a dadi, senza curarsi delle sue urla. Ogni tanto trangugiavano un boccone e tracannavano birra.
Nessuno rispose al prigioniero.
Parco del Castello di Grossedlitz
L'unica regola era centrare il bersaglio. Tutto il resto per lui non contava. Il principe avvertiva la tensione dei muscoli del suo polso destro, che formava un tutt'uno con la corda dell'arco. Assoluta calma e padronanza di sé. Autocontrollo, posizione perfetta, mira precisa.
Quella beccaccia non sarebbe sfuggita al suo occhio infallibile di esperto cacciatore. Si ostinava ancora a cacciare con arco e frecce, nonostante tutti gli consigliassero metodi più moderni ed efficaci.
Qualcuno aveva osato proporre al principe di servirsi di battitori che stanassero le prede e gli facilitassero la caccia. Il sovrano se n'era adontato.
Era fatto così. Amava la meticolosa preparazione degli strali, i lunghi appostamenti per avvistare la preda, i sentieri poco battuti, l'odore che la terra sprigiona in ciascuna delle stagioni.
Amava lanciare a se stesso delle continue sfide, colpire con la sua freccia obiettivi sempre più piccoli, sempre più distanti. Meglio ancora se l'obiettivo era in movimento. Ogni preda, ogni animale abbattuto, per lui rappresentava una vittoria, una prova certa di aver superato difficoltà, spesso quasi insormontabili. E non gli importava di dimostrarlo agli altri. Raramente faceva impagliare gli animali abbattuti.
Nel castello di Grossedlitz, la sua residenza favorita, alcuni cervi e orsi, da lui uccisi, facevano bella mostra di sé sulle pareti, tra spesse cortine e tendaggi, creando una strana mescolanza tra eleganza e rozzezza.
Ma lui, Federico Augusto I, principe ed Elettore di Sassonia, nonché re di Polonia dal 1697, non degnava di una sola occhiata quei grossi animali. Valevano molto di più i piccoli volatili, ai suoi occhi di arciere. La beccaccia cadde più oltre, nel folto del bosco. I cani andarono a recuperarla. Il principe li seguì senza fretta, godendosi il suono quasi metallico prodotto dalle foglie secche calpestate.
La caccia riusciva ad assorbire totalmente i suoi pensieri, finché vi si dedicava. Al rientro, questioni di stato, e non solo, lo avrebbero nuovamente assalito.
Uno degli impulsi che lo spingevano ad andare a caccia da solo era il pressante bisogno di distogliere la mente da questioni spiacevoli e di trovare spazi per se stesso. Altrettanto essenziale per lui era proprio il cimentarsi con se stesso, mettere alla prova le proprie capacità: questo gli dava la misura del proprio valore di uomo.
Voleva giudicarsi come uomo, non come sovrano, e con obiettività, senza tener conto dell'adulazione interessata e della piaggeria dei sudditi. Disprezzava i consiglieri pavidi e temeva chi si faceva notare per la propria indipendenza di giudizio.
Avrebbe preferito che la sorte gli avesse riservato un ruolo sociale meno impegnativo. Era stanco. Ma non lo dava a vedere.
Nelle tenute reali di Sassonia non si sarebbero mai effettuate battute di caccia chiassose e mondane come quelle organizzate dai re di Francia a Versailles.
Uomo austero e sobrio, il principe era ben consapevole della propria fama di personaggio eccentrico, e ne andava fiero. Qualunque suo desiderio, anche il più strano, veniva esaudito. Si divertiva a fare appositamente le richieste più strane, con espressione burbera e minacciosa, per vedere servi e cortigiani affannarsi per accontentarlo. In genere chiedeva, all'ultimo momento, piatti elaboratissimi, oppure frutta fuori stagione. A volte gli capitava di richiedere armi fabbricate da un certo artigiano o in un determinato anno.
Dentro di sé scommetteva sul nome di colui o colei a cui sarebbe stato affidato il compito di comunicargli che non erano riusciti a soddisfare la sua richiesta. Si dimostrava bonario, comunque, in questi casi.
Ciò che davvero non tollerava era che la gente non s'impegnasse nello svolgimento dei propri compiti. Quella era la cosa che riusciva veramente a farlo uscire dai gangheri.
Erano celebri i suoi accessi d'ira. Quando si arrabbiava, afferrava qualunque oggetto gli capitasse per le mani e lo scagliava in aria. E non solo soprammobili e suppellettili, ma anche tavoli e mobili, che sollevava senza alcuna difficoltà. Non per nulla era soprannominato Augusto il Forte.
D'altronde, era meglio essere temuto piuttosto che amato.
Con la beccaccia nel carniere, seguito dai suoi cani, Augusto tornò al castello. Procedeva a passi lenti, affondando nella terra umida gli scarponi da caccia, cuciti appositamente per lui con il migliore cuoio da un artigiano di sua fiducia.
Il violento temporale scoppiato quella mattina aveva reso fangoso il terreno.
Meglio, camminare in acquitrini e pantani era la sua passione. Se si vive più di una volta, pensava il sovrano, in qualche esistenza precedente devo esser stato una rana. O forse un rospo: è per questo che adesso sono un principe.
Sapeva che, ad attenderlo, avrebbe trovato il suo consigliere e complice, Wilhelm von Offburg. Le sue aspettative non furono deluse.
Offburg si trovava già nel padiglione esterno dell'edificio, da dove il sovrano era solito entrare e uscire quando si addentrava nel bosco.
Capì, con un solo sguardo, che la battuta di caccia era stata fruttuosa.
Il sovrano lo guardò a sua volta per comprendere quale fosse l'esito del non facile compito che gli aveva affidato; anche in questo caso, si capiva che la caccia era stata fruttuosa. Fu il sovrano a parlare per primo.
«Allora? Com'è andata? L'avete preso?».
Mentre parlava, un servo gli sfilava gli stivali infangati e poi gli faceva calzare scarpe pulite. Il sovrano era solito cambiarsi d'abito senza lavarsi. Sosteneva che l'igiene fosse una pratica per i corpi deboli, e che il suo fisico vigoroso non necessitasse di un'eccessiva dimestichezza con l'acqua.
«Certo che l'abbiamo preso. Senza problemi».
Il sovrano, intanto, si cambiava gli abiti, sempre con l'aiuto del servo. Indossò un completo color cenere della seta più fine, con una giacca più lunga sul retro, che terminava con una coda di rondine. Il colletto bianco della sua camicia era ricco e vistoso. Adesso dimostrava, anche nell'aspetto, la propria sovranità. Il consigliere guardava fuori, distratto dal canto melodioso di un chiurlo tra gli alberi.
«E adesso dov'è?».
«È qui, maestà, nelle segrete del castello. Se sua maestà vuole vederlo, non ha che da chiederlo».
«Lasciamolo bollire nel suo brodo per qualche giorno. Gli farà bene».
«Bottger crede di essere stato arrestato per qualche reato. Si dispera perché dice di non aver commesso alcun crimine».
«Meglio così. La necessità aguzza l'ingegno. È del suo ingegno che ho bisogno, non dei suoi vizi».
«Però, sarà un bene tenere in catene un uomo abituato al lusso?».
«Tranquillo, Offburg! Le privazioni non fanno male a nessuno, se sono limitate nel tempo. Dovrà collaborare!».
«E se non riuscisse nell'impresa? Non è certo il primo a tentare».
Con un gesto annoiato, il sovrano si adagiò su un bel sofà rosso carminio.
«Riuscirà, riuscirà. È il migliore».
Serbava ancora, dentro di sé, la soddisfazione del cacciatore che ha centrato la propria preda. Vide se stesso nell'atto di centrare Bottger con una freccia. Non avrebbe fallito.
Con un gesto della mano congedò il suo consigliere. Era certo della riuscita del suo piano. Sarebbe stato lui, e solo lui, il sovrano europeo che avrebbe ottenuto per primo quel risultato, agognato da molti.
La piccola Sassonia avrebbe avuto un primato invidiato da tutti, e tutti si sarebbero inchinati ai suoi piedi. Sì, Bottger non l'avrebbe deluso. Con le maniere forti si ottiene molto, quasi tutto. Tranne l'amore.

3 - Gand, Fiandre, Anno del Signore 1598

Osmolinda provava perennemente la sensazione di vivere a bordo di una nave colossale. Quella città, edificata su una serie di isolette collegate l'una all'altra da una rete interminata di ponti, conferiva un continuo senso di precarietà a qualsiasi gesto quotidiano, anche il semplice camminare.
Gli infanti che si arrischiavano a compiere i loro primi passi in questo strano mondo, in quella città delle Fiandre barcollavano di più.
La città si chiamava Gand, ma i suoi abitanti, in lingua fiamminga, la chiamavano Gent. Due fiumi, la Schelda e il Lys, le davano acqua e vita, colorando con i loro riflessi il grigiore del clima umido.
A Osmolinda sembrava di trovarsi nell'ombelico del mondo, tra le vie e i canali affollati di gente d'ogni tipo e da una quantità spropositata di botteghe di mercanti, che esponevano chiassosamente i pregi delle loro merci. Il loro vocìo, talvolta assordante, riecheggiava per le vie fino a tarda sera.
Le tele fabbricate lì, nelle Fiandre, erano richiestissime; frotte di mercanti stranieri, provenienti da paesi lontanissimi, come la Lombardia, facevano rifornimento proprio in quella zona. Camminando nelle vie, era normale sentir parlare tanti idiomi diversi, dal greco al russo.
Non che a Osmolinda interessasse molto di quanto succedeva nelle strade. La sua famiglia non praticava il commercio.
La ragazza era infatti figlia di un noto medico. Ma oltre a ciò, Pieter Martens, suo padre, aveva sviluppato nel tempo un grande interesse nei confronti dell'Antica Arte Regia: l'Alchimia. Era divenuto un Adepto.
Nella sua abitazione, confortevole ma certamente non paragonabile alle enormi dimore dei nobili, aveva ricavato una camera segreta che aveva trasformato in Officina Alchemica, nonostante i rimbrotti della moglie, assai poco incline a simili astrazioni.
Osmolinda aveva ereditato dal padre l'interesse per la materia e per la trasmutazione dei metalli. Gli effluvi, i vapori, gli aromi inconsueti, il calore spesso insopportabile, provenienti da forno alchemico e focolare sempre accesi, le procuravano una gioia profonda. Come le piaceva conoscere la composizione della materia! Che gioia provava nel vedere una sostanza trasmutarsi in un'altra!
Ogni volta che la vedeva entrare nel laboratorio paterno, per maneggiare provette e alambicchi, la madre scuoteva il capo, sconsolata, perché non capiva quella strana figlia, che anziché al matrimonio, pensava agli intrugli. Il destino di una donna è sposarsi e fare figli, non perder tempo a cercare di fabbricarsi l'oro! Per fortuna, la figlia maggiore, non le aveva dato pensieri: pur avendo solo diciotto anni, era già sposata da quattro e aveva due figli.
Osmolinda, invece, la faceva preoccupare parecchio.
A Osmolinda, non importava nulla dei discorsi della madre: aveva quindici anni e non intendeva sobbarcarsi il peso di una famiglia. I suoi interessi la spingevano a ricercare il perché delle cose, a vedere la sostanza dietro l'apparenza.
In questa ricerca, era sostenuta e incoraggiata dal padre, Pieter Martens, il quale sosteneva che la figlia era la migliore allieva che un alchimista potesse desiderare.
Entrava nel laboratorio del padre e ascoltava rapita le sue spiegazioni. Lo aveva sempre fatto, fin dalla più tenera età.
Mentre sua sorella Magda trascorreva le giornate tra il telaio, le bambole di pezza, il cucito, il ricamo e gli insegnamenti domestici impartiti dalla madre, senza mostrare interesse per altro, lei si stancava presto e andava a rifugiarsi nel suo porto sicuro: l'officina alchemica del padre.
Guardava con interesse profondo le sostanze contenute nei vasi, e chiedeva al genitore il nome e l'uso di ciascuna di esse. Apprendeva tutto immediatamente e senza alcuna difficoltà. Il padre notava compiaciuto che con lei non occorreva mai ripetere una spiegazione.
Egli le illustrava che cos'è un amalgama, che ha come base il mercurio, oppure come si prepara l'antimonio.
Ad attrarre maggiormente Osmolinda, però, fu una cosa che apprese gradualmente: il percorso spirituale dell'alchimista. Comprese, nei suoi più intimi recessi, che, raffinando la materia, si eleva lo spirito.
Chissà se anche a una ragazza era permesso raggiungere i livelli più alti della conoscenza! La maggior parte delle donne era analfabeta, perché istruire chi era relegata alle cure domestiche sarebbe stato uno spreco. E poi, secondo l'uomo comune, le femmine erano esseri inferiori e non capivano nulla.
Osmolinda aveva già completato il suo corso regolare di studi. Aveva studiato sia con il padre che con i precettori. Da loro, non aveva altro da imparare.
La ragazza conosceva il latino, il greco e un po' d'ebraico; si riproponeva anche di studiare l'arabo. Avvertiva l'urgenza di imparare tutte le lingue in cui erano scritti gli antichi Testi della sua arte.
Pieter, che aveva una formazione da medico, poteva supportarla fino a un certo punto: l'alchimia era per lui un punto d'arrivo, e per certi versi poteva considerarsi un principiante.
Le sarebbe piaciuto tanto poter trascorrere la vita intera a studiare: c'erano tante cose che ancora non conosceva!
Ma correva l'anno del Signore 1598, e anche nelle tolleranti Fiandre lo spazio per le donne era molto ristretto. C'era qualche pittrice, qualche poetessa; ma di alchimiste, che lavorassero in proprio, nemmeno l'ombra.
Nessuna disciplina, nessuna arte, nessuna istituzione mostrava rispetto e considerazione per la donna, a cominciare dalla Chiesa, cattolica o protestante che fosse.
Almeno in parte, l'alchimia era differente: conferiva alla donna una certa importanza e dignità; per esempio, era consigliabile che un alchimista sposasse una donna che potesse essere un valido aiuto nell'Opera. Ma che potesse farcela da sola, non passava per la mente a nessuno.
A Osmolinda sarebbe tanto piaciuto passare la sua vita a studiare, riuscire a ottenere la pietra filosofale e l'elisir di lunga vita. Ancora, ben pochi erano riusciti nell'impresa di ultimare l'Opera con risultati così alti: tra loro nessuna donna, se non come compagna. Non poteva essere lei la predestinata?
Il padre si fidava di lei, tanto da affidarle il compito di controllare l'uovo filosofico durante le lunghissime fasi, di quaranta giorni, della sua trasmutazione.
L'Opera avveniva in tre fasi: Opera al nero, al bianco, al rosso. La sostanza che cuoceva nell'uovo filosofico, infatti, mutava di colore.
Alla ragazza piaceva vegliare per controllare l'atanor. Quelle fredde notti primaverili, specie quelle tempestose, trascorse nella preghiera e nell'osservazione della trasformazione della materia, erano quanto di più spiritualmente elevato riuscisse a concepire.
Le vie più brevi all'Opera erano poco spirituali e non formative. Osmolinda e il padre raccoglievano religiosamente la limpida rugiada di maggio per avviare le trasformazioni con il più puro dei liquidi.
Oltre agli evidenti contenuti filosofici e teosofici, l'alchimia aveva applicazioni pratiche assolutamente utili nella vita quotidiana. È grazie a esse che gli alchimisti riuscivano a mantenersi.
Alcuni alchimisti siriani, per esempio, alcuni secoli prima, avevano scoperto una proprietà dei derivati del fosforo: a contatto con l'acqua si infiammano. Avevano dunque inventato una formidabile arma da guerra: il “fuoco greco”, utilizzata a profusione dall'esercito bizantino a cui avevano rivelato la formula. Quando una nave nemica, araba prima e turca poi, si avvicinava troppo alla flotta bizantina, i marinai gettavano in acqua quella misteriosa sostanza che incendiava la superficie del mare, avviluppando nelle fiamme i malcapitati avversari. Grazie a questo fuoco, che terrorizzava i nemici, l'impero bizantino era riuscito a sopravvivere agli attacchi dall'esterno per un intero millennio.
La maggioranza degli alchimisti, tra cui il padre, traeva i propri proventi dalla preparazione galenica di misteriosi farmaci.
Molte persone si rivolgevano ai filosofi per avere delle medicine efficaci, perché la medicina propriamente detta funzionava poco e male.

Maria Enea

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