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Autore: Serenella Minto
L'isola perduta
Romanzo Storico
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L'isola perduta

L'isola.

Mozia (Sicilia), settembre 1979.

Una landa piatta, arida e ventosa, si estendeva sull'acqua bassa e immobile della laguna.
Era arrivato: davanti a lui c'era lo ‘Stagnone di Marsala'.
Michele parcheggiò vicino al molo, dove alcune persone silenziose lo stavano aspettando. In fondo, all'orizzonte, l'isola di Mozia appariva come sospesa dentro una caligine opaca.
“È dunque questo il posto”, pensò Michele. La stanchezza del viaggio, dopo giorni di spostamenti e lunghe trafile burocratiche, si dissolveva lasciando spazio a una strana attesa, come se ogni giudizio su quel luogo fosse sospeso in un tempo parallelo, in attesa di un risveglio.
“Ecco, questa è la magia di certi luoghi: sospendono il giudizio e concedono una tregua ai pensieri”. Quel nome, ‘Stagnone di Marsala', lo aveva sentito per la prima volta a Venezia, mentre studiava l'itinerario per il viaggio in Sicilia. Allora gli era parso un luogo privo di fascino, anonimo. Ma ora che lo aveva davanti, non c'era più spazio per i giudizi: era un viaggiatore stupito, in attesa di una nuova visione.
Voltandosi a nord, Michele scorse i mulini a vento, e tutto intorno cumuli di sale grigio e sporco.
Sembrava di essere nell'anticamera della storia. “All'improvviso sei su un palcoscenico e ti trovi a recitare qualcosa che hai solo immaginato e mai vissuto”, pensò Michele.
Guardò di nuovo verso l'isola, adesso la vedeva più nitidamente. La foschia si stava diradando e, tra i filamenti opalescenti della nebbia, un'ombra scura scivolava silenziosa sull'acqua. La barca larga e quasi priva di carena si avvicinò lenta al molo, sollevando leggere creste bianche di spuma salata.
Gli uomini in attesa si fecero avanti. Fu il fotografo, Vito Filangeri, a presentarsi per primo spiegandogli che erano tutti a sua disposizione:
«Per raggiungere l'isola dobbiamo attraversare la laguna» disse, muovendosi verso la barca. E con un movimento del braccio gli indicava il molo, dove la strana imbarcazione ormeggiata li stava aspettando:
«Sono i figli del custode che trasportano merci e passeggeri all'isola.»
Con un gesto del braccio lo invitò a seguirlo e, sempre gesticolando, lo accompagnò verso il bordo del pontile.
Michele alzò lo sguardo e notò che la nebbia era scomparsa.
L'acqua della laguna emanava un odore salmastro, mentre il suo colore opaco richiamava quello delle alghe imputridite. La barca scivolava tra strani cumuli di pietre ricoperti da muffe verdognole che ondeggiavano a pelo d'acqua come lunghe dita animate dalle correnti.
Il tragitto gli parve breve: ora l'isola era nitida, quasi abbagliante sotto il sole.
Michele posò i piedi su quella terra dove, dopo la distruzione dell'isola, ben pochi avevano camminato. Davanti a lui, una breccia di antiche mura sbiancate dal sole e strane piante verdi e polpose segnavano il sentiero.
Guardandosi intorno, sentiva l'euforia di chi sta per scoprire un luogo incantato.
All'improvviso, senza una logica apparente, gli tornò in mente l'isola di Torcello, nella laguna della sua città, Venezia. Anche lì, pochi resti e una straordinaria cattedrale testimoniavano un passato glorioso.
Il fotografo, che agitava le braccia per dirigere i facchini, continuava a parlare:
«Attenzione, fate così! Fate così!»
Michele si rese conto che l'uomo non aveva smesso di parlare per tutta l'attraversata. Poi, davanti ai gelsi macchiati di rosso sangue, all'improvviso si fece silenzioso. Era come se volesse colpire l'animo di Michele, persuaderlo, quasi temendo da parte sua incredulità o noia.
L'abbigliamento del fotografo, da moderno colonialista, sembrava più adeguato del suo completo cittadino, stazzonato dal viaggio e impolverato dalla lunga traversata in macchina lungo la costa. Michele si tolse la giacca e aspettò.
Filangeri gli raccontò del ricco inglese che acquistò l'isola, e iniziò gli scavi archeologici. Della passione dell'uomo per quella terra arsa e della tipica e anglosassone infatuazione per l'avventura, sempre teso verso nuove scoperte, sperando sempre in qualcosa, in un pezzo unico. Non sopravvisse alla scoperta della statua.
«Il ritrovamento è recente» disse il fotografo, «si stavano già chiudendo gli scavi quando... venga, architetto, ora vedrà con i suoi occhi.»
Il blocco di marmo bianco, forse anatolico, era disteso sotto il pergolato di una casa povera e modesta che Michele quasi non notò. I suoi occhi erano fissi sulla statua, e il cuore gli batteva forte.
“Finalmente. Ecco il marmo. Splendido, più di quanto avesse osato immaginare”.
Gli uomini e i bambini intorno si fecero da parte, in silenzio, quasi in attesa.
Michele avvertiva il battito del proprio cuore fin nei polpastrelli, mentre la sua mano seguiva delicatamente le creste bianche della veste di marmo, scheggiata qua e là.
Dentro il vano scuro della casa una donna aspettava immobile, con uno straccio ancora in mano, usato per pulire le tracce di terra dal marmo.
“Che strazio”, pensò Michele, e sedendosi iniziò a riflettere. Guardò il custode, che spingeva i bambini da parte e ogni tanto lo fissava, quasi temendo un rimprovero. Era come se pensasse che Michele avesse il potere di cambiare in meglio ogni cosa.
Come se lui tutto potesse. Come se questo fosse ancora un confronto tra due mondi. Ecco, la macchina è in moto. Noi, improvvisati artefici di questa scoperta, sprovveduti scopritori di antiche spoglie, ci rimettiamo a te, efficiente strumento di ordine e cultura. A te, noi affidiamo il nostro marmo.
«Perché è stato spostato?» chiese Michele.
Quelle parole furono come una scintilla che scatenò un finimondo di gesti, ordini, urla e movimenti intorno a lui.
«Andiamo sul posto» disse, infine.
Il tragitto verso lo scavo gli parve lungo. Camminavano tutti in processione: gli abitanti dell'isola, Michele e il fotografo, come durante una festa paesana.
Il sentiero, fiancheggiato da piccoli vitigni impolverati, si perdeva nell'orizzonte basso verso il mare.
Lui e il fotografo erano in testa, mentre gli raccontava degli antichi abitanti di Mozia. E di Dionisio, tiranno di Siracusa, che un giorno arrivò con i greci per distruggere l'isola, assestando così un terribile colpo alla scomoda potenza fenicia nel Mediterraneo.
Ascoltandolo, Michele pensava a Cartagine, la città fenicia sulle coste africane. E poi, all'estremo confine orientale del Mediterraneo, alle città di Tiro, Biblo e Sidone, da cui partivano i mitici esploratori di quella terra lontana. Immaginava quegli esperti navigatori fenici approdare, con le imbarcazioni cariche di merci, nella grande e sicura baia dello Stagnone. E i loro piedi calpestare quella stessa terra dove lui ora stava camminando...

Lo scultore


Un giorno fenici vennero, navigatori famosi,
furfanti, cianfrusaglie infinite sulla nave
nera portando.
(Odissea, XV, 415-26)


(Motye) M T W 397 a.C.

Kirus non riusciva a capire cosa gli stesse accadendo quel giorno. Lui e Daiace aspettavano lo scultore in silenzio, ma i pensieri del giovane si accavallavano, trascinandolo verso altre faccende. Ripensava alla sua gara: l'entusiasmo, l'euforia della vittoria; la spettacolare sarabanda di quel luogo lontano, con le chiassose scommesse e le ripicche tra gli spettatori.
Quelle città trafficate, con le ‘agorà' – così chiamavano le piazze – aperte e circondate dai ritmi continui di colonne chiare. E lungo i porticati le donne di quella terra straniera ridevano e gesticolavano animatamente, usando parole dai suoni aperti, così diversi dai silenzi della sua isola. Lì, nella sua terra, c'erano solo il frinire incessante delle cicale e il peso di un'immutabile immobilità.
Kirus avvertiva un malessere strisciante, come se un serpente maligno gli si fosse insinuato nel petto.
“Daiace, che mi succede? Cos'ho nella mente?” pensava, ma non osava dirlo ad alta voce.
Il compagno, come se potesse leggere nei suoi pensieri, gli parlò:
«Te lo dissi che quel viaggio sarebbe stato un'avventura superiore alle nostre forze. Siamo partiti senza difese, e gli dèi ci hanno colpiti. Ora il dubbio è dentro di noi. La tua vittoria è come l'ebbrezza di un vino drogato.»

Kirus non riusciva più a liberarsi di quei ricordi.
Sentiva ancora sul viso la polvere e il vento straniero, mescolati al sudore. Udiva i suoni ovattati della folla, percepiva il sangue che sgorgava dalle ferite aperte sugli avambracci.
Che corsa! Si sorprendeva ancora a sorridere, ripensando al tintinnio delle briglie alla partenza, alle voci di incitamento:
«Hé op, hé op!»
E poi, quel boato della folla al suo arrivo: solo, davanti a tutti.
Ora però, era triste, e non riusciva a capirne il motivo.

L'arrivo dello scultore li colse alla sprovvista. L'uomo avanzava a piccoli passi veloci. Kirus fu colpito dalla forza del suo sguardo: occhi chiari, gialli come il miele e altrettanto vischiosi. Quegli occhi lo trapassarono, e non lo lasciarono più.
Lo scultore gli toccò il braccio in un gesto di saluto che Kirus non comprendeva, stringendogli con forza il palmo e il polso, in una stretta decisa e calda. La mano dell'uomo sembrava voler tastare la sua carne, come per valutarla.
Kirus si ritrasse con decisione, imbarazzato, e lo fissò con una sfida muta.
Lo scultore parlava con strani accenti, ma si faceva capire. Allontanava gli insetti con gesti bruschi, che tradivano un'agitazione mal celata, una collera che gli scuriva le pupille.
“Cosa vuole da me? Cosa cerca?” si chiese Kirus, infastidito.
Era come se quello sconosciuto avesse portato con sé la personificazione di quel male oscuro che lo divorava da dentro. Si scostò, lasciando Daiace a sbrogliarsela da solo. Voleva allontanarsi, ma non lo fece. Si limitò a osservare di nascosto i movimenti dello scultore, mentre curiosava tra i bagagli che i marinai greci scaricavano dalle barche sul pontile.
Oggetti strani uscivano dalle stive: strumenti misteriosi che scintillavano sotto il sole.
I marinai greci ridevano e scherzavano, muovendosi con un'allegria rumorosa che stonava con il silenzio dei suoi concittadini, radunati in piccoli gruppi intorno agli stranieri.
Gli abitanti della sua isola, avvolti nelle loro tuniche lunghe e polverose, sembravano fuori posto, quasi un'eco sbiadita di un tempo ormai passato. Daiace, sempre silenzioso accanto a Kirus, gli indicava i muscoli dei marinai greci: lucidi sotto il sole, le gambe nude e forti, calzate nei sandali.
Quei giovani, quasi nudi nei loro corti gonnellini fermati in vita, erano pieni di vita, strafottenti e senza paura. Proprio come quelli che Kirus aveva lasciato sulla pista, fermi sopra le bighe, in quel posto lontano.

Quella fu una giornata strana, che lasciò a Kirus una premonizione nel cuore e l'angoscia di un futuro incerto. Era come se il destino fosse già stato scritto.
Gli dèi avevano abbandonato l'isola.
Erano in balìa del fato.

Serenella Minto

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