
Kiev. Una città che nasconde un cuore diviso tra bellezza e orrore. Monumenti che svettano contro il cielo, chiese che raccontano di fede antica, centri commerciali e ristoranti che parlano di modernità. Ma sotto questa superficie incantata c'è un'anima tormentata, un territorio stanco dove denaro e potere si intrecciano costantemente generando crimini e distruzione. E poi, la guerra. Annunciata per mesi, ma arrivata come un fulmine a ciel sereno. Una scossa devastante, capace di ridurre a cenere ogni certezza. La gente fugge, abbandona case, ricordi e frammenti di vita in cerca di un rifugio. Ma in una città sotto assedio, dove si può davvero nascondersi? La sicurezza è un'illusione, e io lo so meglio di chiunque altro. Il nemico non lascia scampo. Sono qui da un mese. Un mese di sangue e macerie, di speranza calpestata e coraggio riscoperto. Ma questa notte, senza corrente, il buio sembra infinito. Il silenzio è rotto solo dalle esplosioni lontane che continuano a scandire il tempo, una ninnananna di terrore. Ogni giorno, le vittime si accumulano. Soldati che cadono, civili che svaniscono. Eppure resistiamo. Combattiamo. Siamo esseri umani: cadere e rialzarci è nella nostra natura. Non c'è spazio per la paura. Non per me. Seduta su un terrazzo instabile, osservo la cenere che cade lenta dal cielo. Sembra neve, ma è sporca di disperazione. Il gruppo di soldati davanti a me è esausto, piegato dalla fatica e dal dolore. Io stringo il mio fucile di precisione. Non lo vedo come un'arma, ma come una promessa. Ogni proiettile è un messaggio diretto al nemico: “Non vincerai”. Mi chiamo Snejana Bakurova. Nome in codice: Diana, come la dea della caccia. Lei brandiva l'arco, io ho scelto il fucile. Sono il cecchino più ricercato dall'esercito russo. Hanno messo una taglia di un milione di dollari sulla mia testa, ma non è abbastanza. Perché per ogni uomo che mandano, c'è un proiettile che li aspetta. La mia arma non sbaglia mai. Non ho bisogno di certezze o approvazioni. Non sono qui per cercare giustizia, ma per proteggere ciò che resta. Non sono una salvatrice. Sono un'arma, precisa e letale. Il mio motto non è una minaccia, ma una promessa: “Sto venendo da te.”
DMITRIJ
Ufficialmente siamo a Kiev, il cuore pulsante dell'Ucraina, ma la città che mi si presenta davanti non ha nulla di vivo. È solo una carcassa, un ricordo mutilato di ciò che era. Siamo qui da settimane, infiltrati sul territorio occupato, a mappare punti di forza e debolezza del nemico. Non c'è spazio per il sentimentalismo. Ogni informazione che raccogliamo è un tassello in questa scacchiera mortale. Il mio compito è chiaro: individuare e neutralizzare uno dei bersagli più temibili delle forze speciali ucraine. Nome in codice “Diana”. Lei è il fantasma che infesta le nostre missioni, l'arma che non puoi vedere arrivare. Chi l'ha incrociata non vive abbastanza a lungo per raccontarlo. Ma io sicuramente sì. La pioggia scroscia sulle strade, trasformando la polvere in fango, lavando via sangue e speranze. I miei stivali affondano nella melma mentre fisso i corpi sparsi: amici, nemici, non fa differenza. La guerra non fa distinzioni. Eppure, nel caos, c'è un ordine spietato. Siamo qui per finire ciò che è iniziato, senza esitazioni, senza dubbi. «Tenente, ci sono ancora due zone da controllare!» La voce del mio capitano mi riporta alla realtà. Annuisco. Non sono uno di quelli che si perde nei pensieri. La guerra non aspetta. C'è un nemico là fuori, nascosto, e non possiamo permetterci di sottovalutarlo. Sono Dmitrij Kupchenko, tenente delle forze speciali Spetsnaz, nome in codice “Zmeya”. Come il serpente, mi muovo silenzioso, pronto a colpire. Mi adatto a ogni situazione, e non c'è terreno troppo ostile o nemico troppo letale. Il nostro motto è semplice: “Noi non conosciamo pietà e non ne chiediamo!”. Diana è il mio obiettivo. Una cecchina che colpisce con la precisione di un bisturi. Il suo nome si sussurra tra i soldati come una maledizione, ma per me è solo una missione da portare a termine. Non penso alle sue motivazioni, ai suoi ideali. Non mi interessa sapere chi è veramente. Io sono qui per eliminarla. Fine della storia. Mentre il silenzio assordante della città riempie l'aria, stringo il fucile tra le mani e guardo avanti. Non importa quanto sia brava, prima o poi commetterà un errore. E quando lo farà, sarò lì. Non mi interessa essere il migliore o il più intelligente. Sono quello che sopravvive.
“Certe immagini non dovrebbero essere nei ricordi di un bambino” (Zmeya)
Il silenzio è lungo. Troppo lungo. Il volto del mio comandante è una maschera di pietra, scolpita dalla gravità della guerra. Nessuna esitazione nelle sue parole, solo il peso di una realtà che non concede tregua. «A Kiev hanno bisogno di te,» dice, la voce dura come acciaio temprato. «Ma con tutta l'attenzione mediatica su di noi, non possiamo inviarti in veste ufficiale. Ti muoverai nell'ombra.» Non servono domande. Non servono spiegazioni. Annuisco, accettando senza bisogno di ulteriori dettagli. «Cosa devo fare?» «Far arrivare un carico di armi e forniture ai combattenti. E poi... fare ciò che sai fare meglio.» Uccidere. La parola non viene pronunciata, ma si insinua tra noi, sospesa nell'aria come un presagio. Esco dalla fabbrica abbandonata, il cemento grezzo e le pareti spoglie imprigionano il freddo, amplificandolo fino a renderlo quasi insostenibile. Fuori, il vento mi taglia il viso con lame invisibili, un monito della realtà che mi attende. Mi stringo nel cappotto e infilo gli auricolari, cercando una tregua mentale. La voce malinconica di Amy Winehouse in Back to Black mi avvolge, accompagnandomi nei miei pensieri. Questa guerra si è insinuata nelle nostre vite come un veleno lento, impossibile da fermare. A casa cerco disperatamente un brandello di normalità. Il profumo del boršč riempie la cucina mentre mescolo la carne e le barbabietole, il colore del piatto un'ombra sinistra nella mia mente. Rosso. Come il sangue che ho visto. Come quello che vedrò. «Uhm, che buon profumo... boršč?» Il suo sguardo morbido mentre si appoggia contro il bancone. «Sì, amore. Tra poco è pronto.» Le mie mani lavorano con precisione, mescolano, preparano, come se potessi mettere ordine anche dentro di me.
Dopo cena, pulisco tutto con la stessa ossessione che mi accompagna ogni volta che il caos mi stringe la gola. Ogni piatto lavato, ogni ripiano asciugato. Un gesto dopo l'altro. Se posso controllare questo, forse posso controllare anche ciò che mi attende. Mi avvicina. Le mani scivolano sulle mie, fermandomi. Mi volto, il suo sguardo incontra il mio. «Devi partire?» chiede, la voce appena un sussurro. Annuisco. Non servono parole. Solo il peso del momento. Più tardi, avviso mia zia. Lei non chiede nulla. Sa che è meglio così. Poi, una doccia calda, l'acqua che scivola sulla mia pelle portando via la tensione. O almeno ci prova. Nel cuore della notte, raccolgo tutto ciò che mi servirà: Telemetro, per calcolare la distanza perfetta. Silenziatore, per colpire senza preavviso. McMillan 50, il mio compagno fedele. Sacco a pelo, perché il lusso di un letto è ormai solo un ricordo lontano. Mi fermo. La stanza sembra più piccola, più irreale. Mi avvicino al letto. Dorme, il volto rilassato, non sa cosa sto per affrontare. Mi chino piano, sfioro la fronte con un bacio. Leggero. Come una promessa che presto ritornerò. Non voglio che si svegli. Non voglio dire addio. Voglio solo portare con me questo istante. Poi, con il cuore stretto e lo zaino in spalla, apro la porta e sparisco. L'aereo atterra con un sussulto. Un brivido mi percorre la schiena. Non paura. Solo una consapevolezza scomoda. Sto tornando a casa. Ma casa non esiste più. L'aria gelida mi taglia il viso mentre cammino per le strade. Ma non è il freddo che mi fa rabbrividire. Case distrutte. Scuole abbattute. Negozi vuoti. Ovunque, macerie e silenzio. Il tipo di silenzio che segue il massacro. I civili si muovono come spettri. Volti scavati, occhi spenti. Alcuni piangono senza lacrime, troppo stanchi anche solo per quello. Vedo madri che affidano i loro figli agli aiuti umanitari. Li stringono forte, li baciano come se fosse l'ultima volta. Perché potrebbe esserlo. Cammino, passo dopo passo, fino a lui. Il palazzo di mio nonno. O meglio, quello che ne resta. Macerie annerite. Un tempo, lì dentro, il suono del suo liuto riempiva il soggiorno. Ora, solo cenere. Sento il nodo stringersi in gola. Non lo lascio sciogliersi. Non c'è tempo per il dolore. Un suono improvviso. Colpi di arma da fuoco. Mi abbasso d'istinto, rotolo dietro una macchina distrutta. Respiro. Un battito. Due. Poi alzo il fucile sul cofano ammaccato. Occhio nel mirino. Due soldati russi. Perquisiscono casa per casa. Il dito scivola sul grilletto. Un colpo. Un altro. Cadono. Non penso. Non posso permettermelo. Devo muovermi prima che altri arrivino. Ogni vita che tolgo pesa. Ma mi ripeto la solita bugia: "È necessario." Loro lo fanno. Uccidono la nostra gente. E io sono qui per fermarli. Eppure, ogni volta che premo il grilletto, qualcosa dentro di me si spezza un po' di più. Mi addentro in un vicolo. La città è allo stremo. E noi stiamo combattendo per non crollare. Gli invasori avanzano. Ma io non mi arrenderò. Mai.
DMITRIJ
Mi sveglio di colpo, il cuore che martella, il respiro affannoso. Ancora quel fottuto sogno. L'odore di polvere da sparo. Il suono di un colpo secco in lontananza. Poi il gelo che mi scivola lungo la schiena mentre sento il mirino di un cecchino puntato addosso. Sopravvivo. Sempre. Ma ogni notte è la stessa maledetta scena. A volte mi chiedo se sia solo un sogno o un fottuto avvertimento. Qualcosa che sta per accadere. Un suono. La notifica del telefono squarcia il silenzio. Lo afferro. «Tra un'ora, solito posto.» Merda. Mi tiro su dal letto. So già cosa significa. Una missione. Sporca, segreta, senza vie di fuga. La mia mente è già al campo di battaglia. Al bersaglio. Alla prossima vita che verrà spezzata. Un miagolio. Mi volto. Xena mi fissa, la coda che oscilla pigramente. Le passo una mano sul pelo. Lei è l'unica cosa viva in questa stanza che non mi guarda con paura o con aspettative. «Ciao, piccola.» Non posso fermarmi. Doccia veloce. Acqua gelida. Sveglia il corpo, resetta la mente. Poi il borsone. Apro l'armadietto. Pistole. Lubrificate. Pronte. Caricatori. Controllati. Sigillati. Giubbotto tattico. Preso. Portafortuna... Aspetta. Dov'è? "Merda”. Rovisto freneticamente. Niente. Un rumore. Mi giro di scatto. Xena. La ladra ha qualcosa tra i denti. Il mio berretto militare. Lo stringo tra le dita. Il mio primo berretto. L'unico che conta davvero. Lo riprendo. Me lo infilo. E vado. Il locale è il solito. Niente di speciale. Buio, odore di tabacco e carne bruciata. Le costolette qui sono leggenda. Ma oggi non è il giorno per mangiare. Appena entro, Natasha mi squadra da dietro il bancone. Il suo sorriso è pericoloso quanto la missione che sto per accettare. Un battito di ciglia. Un'intesa silenziosa. Mi dirigo nell'ufficio sul retro. La porta è socchiusa. All'interno, il mio comandante è seduto alla scrivania. Non sorride mai. Se lui è qui, significa che la missione è una condanna. «Capitano.» Mi siedo. I nostri occhi si incrociano. La tensione è densa come il piombo nei caricatori che porto con me. «Tenente, si va in guerra.» Freddo. Diretto. Senza inutili dettagli. Afferro il borsone. Lo stesso di sempre. Solo che ogni volta sembra più pesante. Mi alzo. Non servono altre parole. È ora di muoversi. A bordo del Mil Mi-24, il rombo dei rotori riempie l'aria. Vibra nelle ossa. La mia squadra è assorta. Alcuni dormono. Altri leggono mappe. Qualcuno scorre il telefono come se avesse ancora una vita normale a cui tornare. E poi ci sono io che muovo il piede al ritmo di Love is Noise, The Verve, mentre la mente è altrove. Diventare Spetsnaz non è stato un capriccio. Era l'unica scelta. Mia madre voleva un avvocato. Un uomo in giacca e cravatta, con la penna d'oro e una vita già scritta su carta intestata. Io invece no. Avevo bisogno di qualcosa di reale. Di sangue. Di guerra. Avevo bisogno di una fuga. Da lei. Quando mi ha lasciato senza una parola, qualcosa dentro di me è morto. Sono sopravvissuto. Ma quello che è rimasto non era più lo stesso uomo. E ora eccomi qui. A un metro da terra. Il Mi-24 inizia la discesa. L'odore di polvere da sparo è già nell'aria. Atterriamo. L'AK-101 è saldo tra le mani. La caccia è iniziata. L'Obiettivo: Diana L'elicottero si allontana, svanendo nel fragore dell'aria. Il terreno è desolato, quasi spettrale. Con passo deciso, comincio la perlustrazione. «Sputnik a Zmeya: raggiungete il punto indicato, passo!» «Qui Zmeya, ricevuto, passo!» Avanzando, i miei pensieri corrono veloci verso Kiev. Mi soffermo a guardare la città, le sue rovine che raccontano storie di dolore. Una città che un tempo conoscevo bene, dove correvo in mountain bike con i miei fratelli e i miei cugini. Oggi Kiev non è più quella che ricordavo. Mia nonna era ucraina e spesso trascorrevo del tempo in questi luoghi con lei. Ora, combattendo in questa guerra tra Russia e Ucraina, mi trovo nella missione più difficile della mia vita, una che avrei voluto evitare. Mentre osservo ciò che mi circonda, mi assale un pensiero che non posso scacciare: questa guerra mi sta cambiando profondamente. «Zmeya, c'è un problema!» La voce del mio compagno squarcia i miei pensieri. Due blindati ci passano accanto, i loro motori ruggiscono, ma la zona sembra tranquilla. Mi fermo un istante, pensando a Diana, al suo nome che mi tormenta nei sogni. L'incubo continua a bruciarmi dentro. Stavolta la prenderemo. Un fuoristrada si ferma all'improvviso davanti a un posto di blocco russo. Un soldato alza un RPG. L'esplosione dilaga nel silenzio, rompendolo con brutalità. Il calore dell'esplosione mi colpisce il viso, e l'odore di polvere da sparo riempie l'aria. «Al riparo!» Urlo, mentre ci lanciamo a terra cercando di ripararci. I colpi risuonano nell'aria, una sinfonia di caos e distruzione. Il cuore mi martella nel petto, e ogni fibra del mio corpo è tesa «Qui Zmeya, siamo sotto fuoco nemico, passo!» «Qui Sputnik, invio elicottero, passo e chiudo!» I colpi nemici non smettono. Stiamo rischiando, non c'è verso di neutralizzarli. I nostri colpi servono a poco contro le placche di protezione della mitragliatrice e il loro RPG ci sta schiacciando. Penso a una strategia quando sento il rombo dell'elicottero fare il suo ingresso. Un colpo preciso, e i nemici vanno giù, abbattuti in un istante. La tensione svanisce in un attimo. Mi giro a controllare i miei uomini. Sono tutti sani e salvi, ma la missione deve continuare. Tra le macerie, un bambino piange. Mi avvicino, il cuore che si stringe. È accanto alla madre, ferita, con la gamba bloccata sotto un masso. «Ti prego, aiuta la mia mamma!» Certe immagini non dovrebbero essere nei ricordi di un bambino. La sua paura mi perfora. Faccio cenno alla squadra di aiutare quella donna, mentre prendo il piccolo in braccio, tremante. «Voi siete i cattivi, vero?» Mi fermo un attimo. Non posso rispondere a questa domanda, perché la verità è che non saprei cosa dire. Rimango in silenzio, guardandomi attorno. Vedo altri bambini correre, tenuti per mano da madri che cercano di proteggerli, alcuni coperti di sangue. Come si spiega tutto questo a un bambino? Ma poi è lui a parlare, raccontandomi che si chiama Vadym, ha cinque anni e gli piace il calcio. Mi sorride timidamente quando gli dico che una volta anch'io giocavo a calcio. «Era la semifinale di un torneo tra quartieri. Stavo per battere il calcio di rigore, quello decisivo...» La mente vola indietro, verso quel giorno, il momento in cui la vidi per la prima volta, bellissima e indifferente. «Hai segnato?» La voce di Vadym mi riporta al presente e il volto di Jana svanisce. «No, sbagliai il tiro, tutto per colpa di una ragazza!» Vadym sorride, e io gli accarezzo la testa riccia. «Allora io non mi fidanzo, così non sbaglio!» Sorrido, ma dentro sento un vuoto che non si colma. Prima di lasciarlo, prendo una manciata di caramelle dalla mia tasca e gliele porgo. «Mi raccomando, occupati della mamma!» Il piccolo mi guarda, il suo sorriso è disarmante, innocente, è una tregua, seppur breve. «Tu non sei cattivo!» Quegli occhi, così pieni di speranza, mi trafiggono. «Addio piccolo, e fai il bravo!» Lascio quel bambino dolcissimo e riprendiamo a camminare. Il terreno devastato scricchiola sotto gli stivali, mentre il respiro si condensa nell'aria gelida. Poi, ci fermiamo. Un gruppo di militari ucraini sta pattugliando il perimetro di un deposito. Probabilmente proteggono un carico o una posizione strategica. Non importa cosa, per noi è un ostacolo da eliminare. «Sokol, posizione?» Chiedo nel microfono del comunicatore, il tono basso e controllato. «Pronto su un punto elevato.» Risponde il cecchino con la sua solita calma glaciale. È appostato sulla sommità di una torre di guardia semidistrutta, il fucile di precisione saldamente puntato. Da lì vede tutto: uomini, mezzi, movimenti. «Tigr, Grom, pronti a muovervi?» «In attesa dell'ordine.» Risponde Tigr, accovacciato dietro un cumulo di macerie, le mani enormi che stringono il coltello come se non vedesse l'ora di usarlo. Grom, il nostro esplosivista, è accanto a lui. Sta già armeggiando con una carica, un sorriso compiaciuto sotto il passamontagna. Snack, invece, è dietro di me, sempre con la sua ironia tagliente pronta a esplodere. «Spero che ci sia qualcosa da mangiare nel deposito. Andrebbe bene anche una vodka.» Medved non risponde. È concentrato. Berkut e Volk si tengono in posizione più arretrata, pronti a intervenire. Osservo la scena. Ci sono almeno una dozzina di uomini armati, sparsi in piccoli gruppi. Si muovono con sicurezza, ma vedo le falle nelle loro linee: punti ciechi, distrazioni. Perfetto per noi. «Sokol, inizia tu.» La mia voce è un sussurro nell'auricolare. Un istante dopo, il primo colpo risuona, secco e preciso. Uno degli uomini crolla. Gli altri non capiscono subito cosa sta succedendo, poi scatta l'allarme. Il secondo colpo arriva prima che si coprano, poi il terzo. Sokol è una macchina. «Tigr, Grom, muovetevi.» Tigr si lancia in avanti, il coltello stretto nella mano. Il primo soldato che incontra non ha nemmeno il tempo di gridare. Tigr lo colpisce alla gola e lo trascina nell'ombra. Il secondo è più fortunato, riesce a vedere Tigr, ma non abbastanza da evitarlo. Il combattimento è feroce, fatto di pugni, gomitate e il suono sordo di ossa che si spezzano. Grom, nel frattempo, si avvicina a uno dei camion parcheggiati vicino all'ingresso del deposito. Con movimenti rapidi e precisi, piazza una carica esplosiva sotto il telaio. «Pronto a far saltare il loro giocattolo.» Dice, con tono divertito. «Aspetta il mio segnale.» Gli ordino. Medved, Berkut e Volk si muovono sul fianco destro, attaccando un gruppo di soldati che stanno cercando di riorganizzarsi. Medved, con la sua forza brutale, abbatte un uomo con un singolo colpo. Berkut, più metodico, colpisce dove fa più male. Volk, copre le loro spalle, il fucile che spara colpi a ripetizione. Snack si avvicina al mio fianco, osservando la scena con un sorriso storto. «Se sopravviviamo a questa, ci meritiamo almeno una bistecca.» «Adesso viene il bello... Grom, ora!» L'esplosione scuote il terreno. Il camion si solleva per un istante, poi si spezza in una pioggia di detriti e fuoco. I soldati ucraini si disperdono, urlando. Sokol non perde tempo e ne elimina altri due prima che possano nascondersi. Tigr, con il sangue che gli macchia il volto e le mani, si avventa su un altro avversario, mentre Grom lancia una granata a frammentazione verso un gruppo di nemici. L'onda d'urto solleva neve e corpi, lasciando il terreno disseminato di resti. Quando il fumo si dirada, vedo il comandante ucraino cercare di scappare verso un fuoristrada. «Sokol, fermalo.» Un colpo netto, e il comandante crolla nella neve, immobile. Ci riuniamo al centro del deposito. Grom controlla le casse per assicurarsi che non ci siano più esplosivi. Snack si guarda intorno e commenta: «Beh, non è stata una pessima serata.» «Medved, Berkut, Volk, tutto a posto?» Chiedo. «Tutto tranquillo, Zmeya.» Risponde Medved, la voce profonda e sicura. Il deposito è nostro, i nemici eliminati. Ma non c'è tempo per rilassarsi. Ordino di riprendere il cammino. La missione non è finita. «Qui Zmeya a Sputnik, siamo in posizione, passo!» «Sputnik a Zmeya, liberate l'aeroporto, passo e chiudo!» Il nostro obiettivo è a circa dieci metri. Dopo aver controllato l'intera area, decido di fare due gruppi: il primo neutralizzerà la zona, mentre io, Snack, Tigr e Volk penseremo al resto. Comunico attraverso l'auricolare che siamo in posizione. Medved, Sokol, Berkut e Grom sono andati avanti per assicurarsi che nessun civile scappi. In caso contrario, per quanto terribile possa essere, dovranno procedere con le uccisioni. Avere dei prigionieri non è nei nostri ordini. Si sta facendo buio e questo gioca a loro vantaggio, poiché conoscono bene il posto. Stringo la mia arma ad altezza uomo, i movimenti sono rapidi e decisi. In questi momenti la concentrazione è alta, potrebbe accadere qualsiasi cosa e il pensiero ricorrente è quello di morire, ma non oggi. Vorrei vedere la mia vicina Kira, quella che si prende cura della mia gatta ogni volta che io non ci sono, e chiederle finalmente di uscire insieme. Ho bisogno di chiudere con il passato e di voltare pagina. Nel frattempo raggiungiamo il posto e ci posizioniamo. Snack si ferma contro il muro. «Qui Zmeya, avvistamenti nemici ucraini!» «Avete luce verde. Passo e chiudo!» Guardo Snack e dò il segnale. Apre la porta e una raffica di colpi silenziosi libera la prima stanza. Avanziamo indisturbati verso la stanza successiva, dove due nemici dormono tranquilli con i loro fucili accanto. Guardo Snack e con un cenno gli faccio capire che io mi occuperò di quello sulla destra. In un secondo sono passati dal sonno alla morte. Sento i passi dell'altro gruppo al piano di sopra. Manca poco e ci riuniamo di nuovo. All'improvviso sento un rumore provenire dalla stanza accanto, come se stessero trascinando dei mobili. Sollevo il pugno destro ben chiuso e ordino alla mia squadra di fermarsi e mettersi in posizione. «Facciamo vedere a questi stronzi che siamo i migliori!» Dice Tigr sottovoce. Abbasso il visore notturno e Snack apre la porta. Una rapida occhiata tra noi due e lanciamo del gas lacrimogeno. Subito una raffica di colpi da parte loro ci costringe a rimanere coperti finché l'effetto chimico non fa il suo dovere. Appena iniziano a tossire, ne approfittiamo per fare irruzione e sparare. «Boris, com'è la situazione da voi?» «Abbiamo neutralizzato diversi soldati. Proseguiamo!» «Ci vediamo all'uscita!» Dò l'ordine di avanzare ed entriamo in contatto con altri ostili. Dopo un breve scambio di proiettili, riusciamo a conquistare l'aeroporto. Sospiro e scarico la tensione mentre, con cautela, raggiungiamo l'altro gruppo. Dopo il breve conflitto, senza perdite tra i miei uomini, cala un gelido silenzio. «Signore, la zona è libera, ce l'abbiamo fatta!» La voce di Berkut spezza la quiete. Socchiudo un momento gli occhi, poi torno a guardarlo. «Quando cade un nemico non è mai una vittoria.» Comunico alla base che l'area è libera. C'è chi festeggia, chi sorride; io, invece, per rispetto delle vittime, resto in silenzio. In questo gioco a scacchi, noi siamo le pedine. «Allora, ragazzi, questo è il prossimo obiettivo.» La foto scorre tra le mani della squadra. Volti duri. Sguardi freddi. Ma quando vedono lei, qualcosa cambia. «Sembra una modella.» Medved ridacchia, si lecca il labbro inferiore. Mi irrigidisco. «Questa donna non è un bersaglio qualsiasi.» Faccio una lunga pausa. «Lei è una cecchina.» Li fisso, a uno a uno. «E non fate l'errore di pensare che sia solo una bella faccia. È letale.» Sokol solleva il fucile, pulisce il mirino con calma glaciale. «Un cecchino è solo un bersaglio più lontano.» Lo guardo. Senza emozione. «Se fosse così facile, sarebbe già morta.» Berkut lancia una mappa sul tavolo. «Ha vantaggio su di noi. Conosce il territorio.» Annuisco. «E ci stanerà. Tutti.» Snack ride. Ma stavolta non c'è ironia. «Dobbiamo stare all'erta.» Io fisso di nuovo la foto. Diana. Il mio stomaco si attorciglia per un istante. Un ricordo lontano cerca di emergere. Scaccio il pensiero. Lei è solo una preda. E noi siamo i predatori. Ma la caccia non è ancora finita. Raggiungiamo il mezzo. È tutto pronto.
SNACK
Dmitrij cammina davanti a me. Passo deciso, postura rigida. Come sempre. Ma oggi c'è qualcosa di diverso. Non sono solo le ferite sul corpo. Quelle guariscono. Sono quelle che non si vedono. Quelle che continuano a sanguinare. Il vento gelido ci taglia il viso, solleva polvere, neve, terra. Il paesaggio è spoglio, morto. Come noi. Tigr guida il gruppo. Fucile saldo in mano. Ogni tanto si volta, controlla, calcola. Di solito parla. Oggi no. Volk chiude la fila. Silenzioso come un fantasma. Osserva tutto, ascolta tutto. Non dice mai una parola di troppo. Io? Io riempio i vuoti. Non sopporto il silenzio. Perché so cosa si nasconde dentro di esso. «Cosa pensi che ci aspetterà?» Dmitrij non rallenta. Non mi guarda. «Non lo so.» Il suo tono è basso, controllato. Ma sento la tensione. «Diana è imprevedibile, abile, stratega.» Fa una pausa. Quando riprende a parlare, la sua voce cambia. «Per questo la chiamano l'angelo della morte. Oppure Ghost» So che sta pensando a lei. Anche se non lo ammetterebbe mai. «Spero di trovarla io per primo.» La determinazione nel suo tono mi fa irrigidire. Quasi mi spaventa. Cerco di spezzare la tensione. Di far tornare il Dmitrij che conosco. «Vuoi vincere la scommessa?» E lì sbaglio tutto. Dmitrij si ferma. Di colpo. Il suo zaino cade a terra. Si gira verso di me. Il suo sguardo è puro acciaio. «Di quale scommessa stai parlando?» La sua voce è bassa. Pericolosa. Merda. Prima che possa dire qualcosa, mi afferra per il colletto. Mi tira a sé con forza. Perdo l'equilibrio. I suoi occhi sono fissi nei miei. «Snack, quale fottuta scommessa?» Dietro di noi, Tigr si ferma. Solleva un sopracciglio. Non interviene. Volk rimane immobile. Osserva. Dmitrij stringe la presa. Le sue dita affondano nel tessuto della mia uniforme. Non sta scherzando. Cerco di minimizzare, ma sbaglio anche questa volta. «Sai come sono i ragazzi. Scommettono su tutto!» «Di quale. Scommessa. Stai. Parlando?» Ripete le parole. Le sputa fuori come proiettili. Le sue dita scattano. Mi afferra il mento. Stringe le mascelle. Forte. Non ho scelta. Devo dirglielo. «Boris.» Il nome esce come un veleno. «Cioè Medved. Ha lanciato una scommessa.» Dmitrij non si muove. Aspetta. «Chi prende per primo Diana... ci fa quello che vuole.» Le parole restano sospese nell'aria come fumo di polvere da sparo. Dmitrij mi lascia. Mi spinge via con forza. Barcollo. Lui non mi guarda nemmeno. Si china, raccoglie lo zaino. Silenzio. Poi, una sola parola. «Merda.» Non grida. Non esplode. Ma il silenzio che lascia dietro di sé è più pesante di qualsiasi urlo. Volk mi si avvicina. Mi passa accanto. «Bella mossa, Snack.» Non rispondo. Mi affretto a seguire Dmitrij. Non posso lasciarlo così. «Dmitrij, mi dispiace. Non volevo.» Mi interrompe. Freddo. «Non è il momento per le scuse.» Si ferma. Si volta leggermente. Mi guarda. Gli occhi sono due voragini di ghiaccio. «Sai che sono contrario allo stupro.» Le sue parole sono un colpo allo stomaco. Annuisco. Ma lui non sta più guardando. Tigr si avvicina. Il volto ombroso. «Diana non è una preda.» Si gira a guardare gli altri, il disprezzo evidente. «È un nemico. Ma a volte dimenticano la differenza.» Volk lo segue senza dire nulla. E riprendiamo a camminare. Verso la torre di controllo. L'aria si fa più fredda. Ma la tensione è più gelida della neve sotto i nostri stivali. Dmitrij cammina davanti. Sempre avanti. Ma io so. So che qualcosa lo tormenta. Tigr rompe il silenzio. Voce bassa. «Scommesse stupide. Ma alla fine è la guerra. Fa uscire il peggio dalla gente.» Dmitrij non risponde. Il suo passo non rallenta. E mentre lo seguo, mentre lo osservo, mi chiedo cosa abbia visto. Cosa abbia vissuto. E se quelle ferite che non vuole mostrare... lo abbiano già ucciso dentro.
Esselle
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