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Autore: Matteo Santoro
Seed - il gatto che vedeva con il cuore
Romanzo
Lettori 14
Seed - il gatto che vedeva con il cuore

Il diario ironico e poetico di un gatto cieco.

Ogni volta che mi spavento, sbatto da tutte le parti.
Succede anche adesso.
Non lo auguro a nessuno. Nemmeno al gatto più catti-vo su questa terra.

Ero piccolo. Non so dire quanto. Ho ricordi confusi.
Un giorno mi svegliai su qualcosa di morbido, l'aria sapeva di sapone. Odori strani.
Mi sentivo a pezzi.
Mangiavo, dormivo e basta. Così per giorni, credo.

Appena cominciai a stare meglio, mi presero e mi fic-carono a forza in una scatola di plastica con delle sbar-re.
Soffiai, miagolai, niente da fare.
La scatola vibrava, sballottata per ore.

Poi si fermò. La posarono. Si aprì.
Voci e passi erano tutto intorno. Ero appallottolato in un angolo, ascoltavo. Diffidente.
Noi gatti siamo così.

Aspettai, girando le orecchie come un radar.
Le voci si allontanarono. I passi anche.

Misi il muso fuori dalla scatola e, lentamente, uscì an-che il corpo. Ancora odore di sapone. Sentivo degli uc-cellini, erano lontani. Il pavimento era duro, freddo.
Mi arrivò un odore di crocchini. Dovevano essere lì vi-cino, ma non mi sembrava il momento giusto per cer-carli.
I passi stavano tornando. Panico.
Iniziai subito a soffiare. Cominciai a sbattere da tutte le parti cercando di ritrovare la scatola.
Le voci, insieme ai passi, erano sempre più vicine.
Sbattei contro la gamba del mobile. Di nuovo contro l'asse da stiro. Il cuore mi batteva all'impazzata. Le vo-ci si avvicinavano ancora. I baffi mi tremavano dalla paura.
«Adesso vi faccio vedere io», pensai. Dovevo solo tro-vare la direzione giusta.
Tirai una zampata.
Presi il vuoto.

Qualcosa si stava avvicinando al mio muso. Soffiai con tutte le energie che mi erano rimaste.
Si ritirò.

Noi gatti siamo connessi con la Natura. È un fatto.
Voi umani quella connessione l'avete persa.
In quel momento, la Natura mi disse: “Lascia andare”.
Così feci.

Una carezza.
Sulla testa.
Da quel momento in poi, nulla fu mai più come prima.

Quando tutto sembrava finito (e poi mi hanno chiamato Seed)

Io, gli occhi, non li ho più.
No, non è che li tengo chiusi perché faccio il misterio-so.
Proprio non ci sono più.
Puff.
Tolti.

Mi ero svegliato da poco. L'aria pizzicava il naso, sape-va di pulito.
La luce? Nemmeno quella c'era più. Non che me ne fossi accorto subito. All'inizio pensavo fosse notte, ma poi il buio non se ne è più andato.
Sentivo odori sempre uguali.
Voci, passi. Ma una voce tornava più spesso delle altre. Cercava di essere simpatica, con quel tono che gli umani usano con i gatti. Come se fossimo tutti tonti.
«Chi è che ha il musetto tutto bello, eh?»
E poi mi toccava.
Madonna santa.

Stavo su una coperta che grattava la pancia. Ogni tanto me la cambiavano. Quando lo facevano, provavo a sof-fiare. Un po' per principio, un po' per dire: «ehi, non ho mica bisogno di voi».
Ma spesso ero così stanco che a malapena muovevo la coda.
«Sai chi è venuto a trovare questo musetto tutto pelo-so? La tua nuova mamma! Si chiama Giulia».
Mamma? Quante zampe hai? Ci avrei scommesso: due.
Sentii una mano che si avvicinava e soffiai. Non che mi fosse venuto proprio un ruggito da leone, ma feci del mio meglio.
La mano si ritirò subito. Funziona sempre.
«Lo ha trovato una volontaria sotto il sole, in un par-cheggio. Aveva gli occhi gonfi e pieni di sabbia. Era pelle e ossa».

Tutto vero.
Gli occhi mi bruciavano sempre. Non ci vedevo quasi più. Ero finito lì per caso.
Dovevo essermi addormentato per sbaglio su un ca-mion. O qualcosa del genere. Quando mi sono sveglia-to, non c'era più nessuno. Solo sole, caldo e fame.

«Ma era proprio necessario?»
«Le condizioni erano disastrose. Sarebbe morto nel giro di pochi giorni.
Ma vedrai che con il tempo imparerà a cavarsela».
A cavarmela?
Sono un gatto, so già cavarmela.
Grazie.
E poi avrei anche fame. Così per dire.
«So che vieni da Roma».
«Sì, cercavamo un micio da aiutare. Come si chiama?»
«Qui ho scritto ‘Seed'. Ma puoi scegliere quello che preferisci».
Seed? Ma che nome è?
Volevo dirle: «Senti, il muso mi fa male, non riesco ancora a sedermi e continuano a infilarmi in bocca co-se amare. Cosa me ne faccio di un nome adesso?»
Però quella voce era diversa. Non gracchiava come l'altra. Doveva essere più giovane.

Non ho mai capito perché si ostinano a dare i nomi ai gatti. Comunque Seed non era poi così male.
Meglio di Pallino, Birba o Tobia.
E poi, come lo diceva lei, suonava come un miagolio detto piano.
Alla fine mi tenni quel nome.
Anche perché non potevo fare altro.

Mi sentivo stanco. I dolori alla testa stavano tornando. Mi accovacciai di nuovo sulla mia coperta e mi addor-mentai.

Da allora mi chiamano Seed.
Sono un gatto cieco.
Anzi, senza occhi.

Quel giorno è cominciata la grande avventura della mia vita.

***

Il viaggio fu una follia.
Mi svegliai di nuovo dentro quella maledetta scatola. Trasportino, lo chiamano. Devono avermici infilato mentre dormivo.
Non so bene quanto durò. A un certo punto smisi di miagolare perché mi si era seccata la gola.
Quella scatola tremava, vibrava, mi sballottava a destra e a sinistra. Ogni tanto partiva un rumore tipo scrr-chhh, come un topo gigante che rosicchiava la plasti-ca.
Giulia diceva cose tipo: «Va tutto bene, micio. È quasi finita».
Sì, certo. Come no.
Poi, finalmente, silenzio.
Qualcosa si aprì.
Una ventata d'aria fresca entrò.
Giulia prese la scatola. Ovviamente ricominciai a mia-golare. Quando ti portano in giro in quel coso, lo fanno sempre dondolare.
Giulia si fermò.
Il tintinnio di chiavi fece girare le mie orecchie in au-tomatico. Le tremava il respiro. Gli umani credono che non si senta. Ma si sente.
Click.
Un'altra voce.
Maschile.
«È lui?»
«Si chiama Seed».
«Ma quanto è piccolo...»
C'erano un sacco di odori nuovi, alcuni familiari. In quel posto doveva esserci stato già un gatto. O forse c'era ancora.
Appoggiarono la scatola per terra.
Siccome sapete già come fu la mia eroica uscita, ripar-tiamo dalla carezza sulla testa.

Tutto sembrava calmo. Cercai un angolo che mi costò due musate. Ero sotto qualcosa, perché avevo anche già sbattuto due volte la testa.
«Qui dovrei essere al sicuro», pensai, «gli umani non ci possono arrivare».

«Benvenuto, Seed», disse Giulia.
«Lasciamolo in pace ora, così esplora un po'», disse l'altra voce.
Sembrava sapesse come funzionavano le cose.
Però avrei esplorato più tardi.
Avrei imparato ogni angolo.
Avrei fatto miei quegli odori, quei suoni, quelle stanze. Avrei conosciuto quelle voci, quei passi, quei respiri.
Solo che ancora non lo sapevo.

Esausto, mi addormentai.

Una nuova famiglia (con genitori a due zampe)

Mi ci vollero settimane per mappare la casa.
La lavanderia, dove avevano aperto il trasportino, era la mia base. Da lì partivano le mie esplorazioni: man-giavo, facevo i bisogni, mi riposavo.
Il mio territorio sicuro.

Tredici passi dritto, ed ero sotto un letto gigante.
Ci andavo solo quando i due umani dormivano. Stu-diavo i loro movimenti. I passi di Matteo erano lenti e pesanti. Quelli di Giulia più rapidi, a scatti. Come se dovesse sempre prendere qualcosa al volo. O magari schivarla.
Matteo aveva piedi così grandi che potevo dormire dentro una sua scarpa. Letteralmente.
Cosa che ovviamente feci. Inaspettatamente calda e comoda.
Ci misi parecchio prima di salire su quel letto. Non mi fidavo ancora di quei due. E poi, se sali, devi anche scendere. Col tempo imparai: contare la spinta signifi-cava misurare l'altezza. Bastava calcolare bene e il pa-vimento non ti prendeva alla sprovvista.

C'erano altri due gatti in quella casa: Benny e Adolfo.
Benny era il teppista del quartiere. Usciva per giorni interi e tornava graffiato, sporco e fiero. Quando era in casa lo seguivo dappertutto. Non mi voleva intorno, e quando gli stavo troppo vicino mi arrivava una zampa-ta sul muso. Che ovviamente mi prendeva in pieno perché non la vedevo.

Adolfo invece tutta un'altra storia. Era gigante, silen-zioso e calmo. I suoi salti non facevano rumore. Non sapevi mai dov'era.
Una notte lo seguii fino alla finestra dalla quale usci-va. Lui saltò. Provai a imitarlo. I primi tre salti andaro-no a vuoto, poi indovinai la misura e ce la feci. Ero sul davanzale, un posto più stretto del previsto, tanto che rischiai di scivolare giù. Che emozione!
Ma lì finiva tutto: c'era una rete su tutta la fine-stra. Accidenti.
«Chissà dov'è il buco», pensai con il muso all'insù.
La finestra era molto alta. Se avessi provato ad arram-picarmi, le probabilità di ricadere sul davanzale erano minime.
«Per oggi il davanzale mi pare già un'ottima conqui-sta», mi dissi, e rimandai la ricerca del buco.

Sempre dalla lavanderia, sei passi dritto e una dozzina a sinistra e si entrava in bagno. Ci andava sempre Benny a bere. Saltava dentro una cosa dura e fredda, e poi miagolava.
Io stavo sotto ad ascoltare.
«Ragazzi, un minuto e poi la richiudo», diceva Matteo mentre se ne andava. Parlava come se fossimo dentro in due. Forse non aveva visto che ero lì sotto. O forse era un modo per dirmi di entrare.

Un giorno provai ad alzarmi sulle zampe dietro e ad appoggiarmi al bordo.
Zampata dritta sul muso.
Diciamo pure che Benny non era proprio il migliore amico che tutti vorrebbero avere, ma era il mio idolo.
Un giorno sarei diventato come lui. Sarei andato in gi-ro anche io, avrei fatto le lotte, avrei cacciato. Proprio come lui.
Era bravo in tante cose. Ma nella lotta, era un vero professionista. Quando provavo a giocarci assieme, ruzzolavo dappertutto. Non c'era verso di atterrarlo, per quanta forza mettessi.
Adolfo invece non giocava mai. Una volta mi lanciai in un attacco. Mi fermò con una zampa. Senza nessuno sforzo. Poi si spostò.
L'ho sentito lottare una sola volta, ed è stato spavento-so. Ma di questo, vi parlerò più avanti.

Sempre dal centro della lavanderia, 6 passi dritto, 4 a sinistra e altri 5 a sinistra si arrivava in una piccola stanza piena di strane forme e odori. La porta era qua-si sempre chiusa. Quando era aperta e mi avvicinavo, suonava l'allarme umano: «No Seed!», urlava Giulia.
Un giorno la trovai aperta, forse per sbaglio. Entrai lentamente aspettando il solito strillo.
Silenzio.
«Giorno fortunato», pensai.
Mi ci infilai e cominciai a esplorare un po'.
Dentro e fuori da scatole, sacchetti, alcuni con odori nauseanti. C'erano anche cose dure su cui salire, ma mai troppo. Solito problema poi del dover scende-re. Era come un labirinto, e dopo un po' che ravanavo persi completamente l'orientamento.
Mi chiamarono più volte.
Ogni tanto lo facevano per sapere dove fossi. Io mi mettevo davanti alla lavanderia e tutto tornava tran-quillo. Era piuttosto antipatica come cosa, ma si sa, gli umani hanno bisogno delle loro certezze.
In quel momento però non riuscivo più a capire dove fossi. Saranno stati i miei starnuti e un paio di miago-lii, sta di fatto che all'improvviso una mano gigante mi prese da sotto la pancia e mi tirò fuori.
«Eccoti qui».
Protestai soffiando. Non si tira su un gatto così all'improvviso.
«Seed ma sei diventato tutto nero!», sospirò Giulia.
Per la cronaca: sono bianco e nero. Evidentemente il bianco era sparito.
Mi portarono in lavanderia. Giulia cominciò a pulirmi con un panno bagnato.
Che fastidio!
Noi ci puliamo da soli. Da soli.
L'acqua è una cosa che non sopportavo. Poi il pelo mi si appiccica e devo leccarmi un'ora per rimetterlo a po-sto.
Cercai di liberarmi come quando ti incastri sotto una coperta pesante. Dopo un «lasciamolo fare, ci pensa lui» di Matteo, sgattaiolai sotto al mobile.

Continuiamo con la mappa.
Se dopo i sei passi per uscire dalla lavanderia ne facevo diciotto a destra:
con cinque a sinistra ero in salotto, con altri otto dritto ero in cucina.
Le porte erano quasi sempre aperte dappertutto.

Sulla faccenda “porte” devo aprire una parentesi.
Per me sono sempre state un problema, soprattutto quando si scordavano di lasciarle aperte. Quando stai contando i passi e di colpo prendi una nasata su una porta chiusa, perdi il conto e non sai più quanti farne per tornare indietro.
Quando sbattevo si sentiva: “Stong”, e uno dei due cor-reva subito: «Oddio scusami Seed», e poi mi davano una carezza e un biscottino.
Nel tempo ho imparato a orientarmi con la sensazione dello spazio senza più contare i passi. Ma all'inizio, se ci avessi visto, gli avrei tirato una zampata! Altro che biscottino.

A proposito di musate, capitava che, mentre passeg-giavo serenamente in mezzo al corridoio, sbattevo im-provvisamente in qualcosa: un secchio, una borsa, un sacchetto pieno di cose strane. Erano quasi sempre di Giulia. L'odore era inconfondibile.
Brontolavo con un suono a metà tra un miagolio e il verso di un piccione. Che nervi.
Giulia mi chiedeva scusa, poi bacio e biscottino.
Con il tempo impararono a non lasciare cose in giro.
In compenso Giulia, ogni due per tre, cambiava posto ai mobili della sala.
Alla fine imparai a volerle bene, anche così.

C'era un'ultima porta, quella proibita. Era quella per uscire in giardino. Dalla lavanderia erano sei dritto, sette a destra e dieci ancora a destra.
Un giorno quella porta si aprì ed entrarono i due uma-ni parlando tra loro. Dovevano essere stanchi, sentivo il rumore del loro respiro. Si diressero in cucina.
Li aspettavo sempre sotto a un mobile all'ingresso. Una volta provai a stare davanti alla porta, e Matteo mi schiacciò la coda. Tirai un urlo che mi valse tre biscot-tini di scuse. Ero così arrabbiato che non li man-giai. Da lì in poi non successe più.
A ogni modo, li sentivo parlare mentre trafugavano con sacchetti di ogni tipo. Conosco bene quel rumore perché quando se li dimenticano in giro ci salto dentro volentieri.
La porta era rimasta aperta. Sentivo le zampe calde, forse entrava il sole. Feci un paio di passi in avanti e mi trovai appena fuori. Mi sedetti e cominciai ad an-nusare.

Erba. Aria che si muove. Rumori lontani. Un sacco di ricordi mi invasero la mente. Giocavo con altri gatti. Ci nascondevamo tra le piante, ci facevamo gli agguati. Vedevo già poco, quindi mi prendevano sempre.
Dovevano esserci anche molti fiori, lì da qualche par-te. Il suono degli uccellini era molto più forte rispetto a quando la porta era chiusa. L'aria mi muoveva i baffi.
Feci qualche altro passo in avanti e la zampa destra mi scivolò nel vuoto. Mi arrivò il cuore in gola.
C'era un gradino che ovviamente non avevo visto, e c'era mancato poco che mi ribaltassi.
Feci scendere la zampa destra nel vuoto, lentamente.
«Ok, appena tocco il gradino di sotto scendo», pen-sai. Rifeci la stessa cosa, potevano essercene altri. Ne dovetti scendere cinque. Finii su un pavimento strano, fatto di sassolini. Feci lentamente qualche passo in avanti, seguendo l'odore dell'erba. Tastavo ogni passo prima con la zampa destra.
Improvvisamente sentii uno strillo venire da dietro di me: «Matt! Corri!»
Mi girai di scatto.
«Seed è scappato, oh mio Dio!»
Giulia dalla finestra della cucina.
Dopo qualche secondo, arrivò la voce di Matteo, da sopra i gradini.
«Dai signorino, fila dentro».
«Matt, cosa stai lì impalato, prendilo subito!»
Stetti immobile con il muso puntato sui gradini.
«Non mi dovete toccare!», pensai forte.
«Dai, lascia che salga da solo», disse Matteo.
«Ecco, appunto. Torno da solo. Mi mancano gli occhi, mica le zampe».
Tornai tastando ogni passo verso i gradini. Cominciai a salire il primo. Arrivai al quarto, ma dalla fretta ne avevo contati cinque. Andai dritto e pestai il muso sull'ultimo.
Giulia ora era lì e stava cercando di prendermi. Saltai l'ultimo gradino, incurante di cosa ci fosse sopra, e sgattaiolai in lavanderia. Prima di arrivarci presi in pieno la gamba di un mobiletto e lo stipite di una por-ta. Feci il solito suono da piccione.
Ero arrabbiato.
«Spero di averlo fatto abbastanza forte!», mi dissi mentre mi infilai nel mio angolo sotto a un mobile.
«Questa apprensione comincia a starmi stretta. Ho un mondo da esplorare».

Rannicchiato nel mio angolo li sentii discutere anima-tamente. Saranno discussioni che sentirò spesso, da quel momento in poi.
Riguardano me.
Prima o poi si renderanno conto che sono un gatto ve-ro, io. E quando succederà, comincerò a esplorare il mondo.
Come Benny.

Matteo Santoro

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