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Autore: Gioacchino Rosa Rosa
50 giorni di Nemesi
Thriller Noir
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50 giorni di Nemesi

La giustizia ha fallito, ora tocca a loro.

La croce nel grano.

Magro e nodoso come un ramo d'ulivo, con la pelle cotta dal sole e le ossa scricchiolanti, Santino Corvasci aveva aperto gli occhi che era ancora buio. Fuori, la campagna tratteneva appena il respiro, sospesa tra la notte e il giorno: spighe immobili, cielo scuro, aria ferma che odorava di terra. Dentro quella quiete, Santino si mise a sedere sul bordo del letto e portò alle labbra il piccolo crocifisso che portava al collo. Era il gesto che apriva ogni giornata.
Santino era un uomo di poche parole, solo quelle necessarie, e talvolta neppure quelle. Preferiva ascoltare e agire, convinto che i fatti avessero più peso delle frasi. «Se il Signore ci ha dato due orecchie e una bocca sola», diceva, «un motivo ci sarà.» E lui quella proporzione non l'aveva mai tradita.
Vera, sua moglie da più di cinquant'anni, se ne stava ancora adagiata sulla poltrona del soggiorno, dove si era appisolata la sera prima. C'era rimasta tutta la notte, un po' per pigrizia, un po' per non sentire il respiro pesante del marito nel letto. Era malata, ma non si lamentava mai. Non voleva dar pensieri a Santino e lui, da parte sua, faceva di tutto per non farle pesare che non riuscisse più ad aiutarlo nelle faccende domestiche. Il suo sonno era fragile come carta velina, e Santino lo custodiva in silenzio, muovendosi come un'ombra tra le pareti domestiche.
Quando aprì la porta che dava sul retro del podere, la luce del giorno filtrava a fatica lungo il corridoio. L'uomo si curvò sulla fontanella e si lavò con l'acqua gelata, senza emettere un gemito. Ci era abituato. Era un rito che si ripeteva uguale, estate e inverno, da più di due anni. Lo aveva promesso alla Madonna dell'Incoronata quando sua moglie s'era aggravata e lui non sapeva più a chi chiedere aiuto.
Dopo essersi vestito, mise la moka sul fuoco e accese la radio. Le notizie delle sei e mezza scivolarono nella stanza a volume basso, quasi in punta di piedi, mentre l'aroma del caffè lentamente invadeva la cucina. Santino ne versò il contenuto in due tazze e ne porse una a Vera, che aveva appena aperto gli occhi, baciandola sulla fronte.
«Vuoi anche dei biscotti?» le sussurrò. Lei annuì piano, senza dire nulla. Non ne aveva la forza.
Santino guardò l'orologio a muro. Era ancora presto: i lavoratori nigeriani non sarebbero arrivati prima delle sette e mezza, e così ne approfittò per sparecchiare la tavola, sciacquare qualche piatto e metterli ad asciugare sul lavello.
La campagna, a quell'ora, sembrava una cartolina illustrata: ferma, immobile, senza che un alito di vento sfiorasse le spighe.
Eppure Santino avvertiva nell'aria una nota stonata che non riusciva a decifrare.
A un tratto, a metà campo, dove le spighe di grano si facevano più fitte, notò qualcosa: una sagoma verticale in lontananza. Non era una persona. Ma nemmeno una cosa. Era qualcosa nel mezzo.
Accelerò il passo senza pensarci. Forse si trattava di un ladro o di un vagabondo in cerca di un riparo per la notte. Ma più si avvicinava, più il dettaglio diventava chiaro. Terribilmente chiaro.
Era un uomo.
Crocifisso.

LO SPAVENTAPASSERI DI CARNE

L'uomo era nudo. Le braccia spalancate, inchiodate al legno. La testa afflosciata in avanti, come un frutto marcito. Il pene reciso di netto. Al suo posto un buco nero, incrostato di sangue rappreso.
Sembrava uno spaventapasseri. Ma non uno di quelli di paglia, messi lì per spaventare i corvi. Questo avrebbe fatto rabbrividire anche il diavolo in persona.
La croce lo sovrastava di almeno mezzo metro. Grezza, fatta con due travi da carpentiere annerite, inchiodate alla buona: una verticale e una orizzontale, piantate con furia nella terra come un insulto scagliato contro Dio.
Santino si portò le mani alla bocca, come a voler trattenere un urlo. Ma dalle sue labbra, comunque, non sarebbe uscito neppure un sibilo. La gola era asciutta e arsa come se non avesse bevuto mai un goccio d'acqua in tutta la sua vita.
Le chiavi della mietitrebbia, che stringeva nel pugno, caddero rotolando via chissà dove tra le spighe. Con mani insicure e mascella tremante, cercò il cellulare nelle profonde tasche della sua tuta da lavoro. Fortunatamente, il suo vecchio Motorola funzionava ancora, ed era carico. Tentò più volte di comporre il 113, senza riuscirci. Si sentiva osservato dall'uomo sulla croce e ne era terrorizzato, come se quello potesse scendere dalle assi e succhiargli il sangue dal collo.
Alla fine, riuscì a completare il numero. Ma quando l'agente rispose, Santino rimase muto e chiuse la chiamata prima ancora di iniziarla.
Barcollando su gambe molli, si allontanò dalla croce e raggiunse il ciglio della strada. Si sedette sulla pietra miliare che segnava il confine tra il suo podere e quello del vicino e respirò profondamente per qualche istante. Poi, provò di nuovo.
«Questura di Foggia, servizio 113.»
«Al podere mio... un uomo... crocifisso... io non so che debbo fare...» la voce gli si fermò in gola.
«Si calmi, signore. Può dirmi il suo nome?»
«Corvasci. Santino Corvasci. Abito al Salice Nuovo, Podere 523. Vi prego, fate presto.»
«Si allontani dal cadavere, signor Corvasci, e non tocchi nulla. I colleghi saranno sul posto in pochi minuti.»
Santino, stremato, si lasciò andare a un urlo. Un grido pieno, che il silenzio della campagna restituì come un'eco smorzata.
Vera sobbalzò. Si trascinò fuori, aggrappata al girello, con pastore maremmano che abbaiava furiosamente intorno a lei.
Santino la vide arrivare e le corse incontro, cercando di fermarla. Non doveva vedere. Non doveva sapere.
«Madonna Santa, cosa è successo, Santino?» la voce di Vera tremava, lieve ma tesa.
«Niente, niente... torna dentro, non è successo nulla.»
«Non è vero, hai urlato. Non sono una bambina alla quale si devono nascondere le cose brutte, Santino, dimmi cosa è successo, altrimenti mi fai agitare di più» replicò la donna spaventata.
Lui esitò. Lo sguardo basso.
«C'è un uomo, nel campo.»
«Un ladro?»
«Non lo so. Chiunque fosse, non potrà mai dircelo.»
Vera si irrigidì. Il respiro si fece corto. «Stai dicendo che è... morto?»
Santino annuì piano.
«Ma come è morto? Un incidente?»
Santino non riusciva a guardarla. Fissava il vuoto davanti ai suoi occhi.
«No, Vera... lo hanno ucciso, ucciso... e crocifisso.» rispose Santino di colpo come per levarsi il peso dallo stomaco.
Lei scosse la testa lentamente, come per negare ciò che sentiva. Portò una mano tremante alla bocca, un lamento soffocato sfuggì dalle sue labbra.
«Crocifisso come... come Gesù?»
«Sì.»
Non pronunciò altro. Si lasciò cadere su sé stessa mentre un sottile filo di bava le usciva dall'angolo destro della bocca. Santino la prese tra le braccia e, con voce rotta, le disse: «Basta. Vera, andiamo dentro, subito.»

L'auto della squadra mobile, con a bordo l'agente Danilo Piersanti e l'Ispettore Aldo Manna, arrivò al Podere 523 a velocità sostenuta, sollevando polvere e facendo schizzare la brecciolina sotto gli pneumatici. I due poliziotti scesero dall'auto con le mani già pronte alle fondine, come se dovessero sparare alla paura.
Il grano, indifferente, continuava a oscillare piano nel vento leggero, come se niente fosse successo.
Il più giovane dei due, Danilo Piersanti, soprannominato “Martellone”, per via del fisico robusto e la mano destra molto più sviluppata della sinistra, era in servizio solo da un paio di anni, a differenza dell'ispettore Aldo Manna, che aveva già visto nella sua carriera più cadaveri di quanto fosse necessario per “farsi lo stomaco”, come si diceva in gergo.
Santino gli andò incontro indicando ripetutamente con la mano la croce in lontananza.
L'agente Piersanti percorse i poco più di cento passi che lo separavano dal cadavere con un crescente senso di nausea. E quando ci fu davanti, non riuscì a trattenersi e vomitò l'anima proprio ai piedi della croce.
L'Ispettore Manna scosse la testa lentamente, in segno di disapprovazione e rassegnazione nel contempo. «Martellò, porca la miseria, bel casino hai combinato! Hai inquinato la scena del delitto. Fatti da parte, dai, che è meglio!»
L'agente Piersanti si ripulì la bocca con un fazzoletto di carta e tornò sui suoi passi con un profondo senso di umiliazione.
Lui, pur grande e grosso com'era, “lo stomaco”, non se l'era ancora fatto.
«Vado a parlare con il contadino», disse Manna. «Tu avvisa la centrale che il contenuto della chiamata al 113 è confermato. Che avvertano il dirigente, la scientifica e il PM di turno.»
Piersanti annuì ed eseguì. Mentre l'ispettore interrogava Santino Corvasci, lo sguardo dell'agente fu attratto da una figura sotto il portico. Una donna. Seduta su una sedia di paglia, immobile, pallida. Accanto a lei un girello ortopedico, come quelli di chi non può più reggersi da solo.
C'era qualcosa, nei suoi occhi, che gli ricordò sua nonna. Stessa dolcezza. Stessa stanchezza. Stessa rassegnazione. Le andò incontro.
«Tutto bene, signora? Ha bisogno di qualcosa?» chiese con gentilezza.
Vera alzò lo sguardo, sorpresa. Non si aspettava una voce così calma da un uomo così grande.
«Solo di svegliarmi e scoprire che ho fatto solo un brutto sogno. Questa è opera del diavolo, figlio mio... del diavolo!»
Danilo scelse le parole con cura, usando quel tono che si adopera con i bambini spaventati. Piano, tranquillo.
«Il diavolo, addirittura... No, signora. Il diavolo non c'entra. Ma lei non si preoccupi. Chiunque l'abbia fatto, lo prenderemo. E non farà più del male a nessuno. Deve stare tranquilla.»
Vera sospirò a lungo. Poi lo fissò.
«Si vede che sei un bravo ragazzo. Come ti chiami?»
«Danilo, signora. Danilo Piersanti.»
Lei annuì, pensierosa. Poi lo guardò con un'ombra d'ansia.
«Ma chi ve lo fa fare, a voi ragazzi, a scegliere un lavoro così difficile? Sempre in mezzo a gente cattiva, gente senza Dio...»
«Qualcuno lo deve pur fare» rispose lui, stringendosi nelle spalle.
«E tua madre? Tua madre non sta sempre in pensiero per te?»
Danilo arrossì appena. Poi sorrise.
«Le mamme sono mamme. Finché campano, per loro, i figli restano bambini.»
Vera fece un mezzo sorriso. Era triste, stanco. Ma vero.
Danilo la salutò con due dita alla fronte e tornò verso l'auto con il groppo in gola.
Manna lo osservò avvicinarsi. «Che ha detto la moglie di Corvasci?»
Martellone scrollò le spalle.
«Niente d'importante, ispettore. È spaventata. Non ha visto niente, non ha neanche capito bene cos'è successo. Aveva solo bisogno di una parola buona.»
In quello stesso momento un furgone si fermò sul ciglio della strada. A bordo c'erano gli operai nigeriani che Santino aveva ingaggiato per il lavoro nei campi. Appena notarono l'auto della polizia, ripartirono senza esitazione, alzando una nuvola di polvere.
Erano tutti senza documenti. Immigrati clandestini, uomini senza nome che lavoravano nei campi del foggiano per pochi euro al giorno. Disgraziati sfuggiti a guerre, alla fame, o semplicemente a un futuro senza nulla. Sfruttati da caporali senza scrupoli che gestivano la manovalanza reclutata sulla Pista, a Borgo Mezzanone: un agglomerato di baracche e container arrugginiti, cresciuto lungo la pista di un vecchio aeroporto militare abbandonato dopo l'ultima guerra.
La Pista era nata così, pezzo dopo pezzo, senza regole né diritti. Dietro il C.A.R.A. — il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo — dove viveva una parte di quel mondo invisibile: oltre diecimila anime.
L'ispettore Manna osservò la scena senza dire nulla. Conosceva bene la situazione ma quel giorno aveva ben altri fantasmi da inseguire.

LA MESSA IN SCENA RITUALE

Dopo poco più di un'ora, arrivò la scientifica. Gli agenti srotolarono il nastro bianco e rosso e delimitarono la scena del crimine con rapidità meccanica. La fotografa forense, una donna bionda con l'aria di chi sa il fatto suo e ha fatto il callo a scattare dettagli macabri di ogni genere, ebbe un attimo di cedimento avvicinandosi al cadavere. La puzza, la scena, le mosche che ronzavano intorno al corpo martoriato, erano un po' troppo per una donna incinta al terzo mese. La fronte le si aggrottò solo un attimo, poi riprese il controllo. Indossò un paio di guanti in lattice e iniziò a lavorare scattando foto da ogni angolazione mentre un topografo prendeva misure accurate annotando ogni dettaglio della scena del crimine su un taccuino logoro: il sangue, le mani inchiodate, i segni sul petto. Un drone registrava immagini dall'alto.
Nonostante pullulasse di agenti, il campo era stranamente silenzioso. Il grano ondeggiava come in una messa funebre. Nessuno parlava se non era necessario.
Alle 10:50 arrivò l'auto della Procura. Un'Alfa Romeo grigia, senza lampeggiante.
La dottoressa Elena Ruggeri, PM di turno quella mattina, scese con un gesto deciso. Tacchi larghi, capelli raccolti, volto tirato. Camminò a fatica tra le spighe mature, poi si fermò a pochi passi dalla croce. Si portò un fazzoletto di seta davanti alla bocca per attenuare il tanfo.
«Da quanto tempo è qui?» chiese, senza distogliere gli occhi dal cadavere.
«Presumibilmente dalle prime ore del mattino, dottoressa. Ma è solo un'ipotesi. Il medico legale sta arrivando», rispose l'ispettore Manna, alle sue spalle.
Pietro Saracino arrivò di lì a poco. Zaino in spalla, sigaretta tra le labbra, il passo stanco di chi ha dormito in macchina. E probabilmente era così. Si accovacciò accanto alla croce. Guardò il volto, le mani, le ginocchia, il pube mutilato.
«Maschio, ovviamente. Età stimata: settanta, settantacinque. Lo hanno crocifisso da morto. Iperestensione degli arti, chiodi infilati in muscoli già flaccidi. Nessuna reazione. Probabile causa della morte: dissanguamento da evirazione. Ma sarà l'autopsia a parlare.»
La PM annuì, il fazzoletto ancora sulla bocca.
«Una messa in scena rituale?» chiese.
Saracino scrollò le spalle. «Probabile.»
La Ruggeri annuì, poi guardò l'orologio da polso. Dario Catapano, il capo della Mobile, era in ritardo. Come al solito.
Prese il cellulare dalla tasca interna e compose il numero a memoria.
«Che c'è?» rispose bruscamente il vicequestore Catapano.
Elena strinse le labbra. Non era il momento di mettersi a litigare.
«Cosa c'è? Tu cosa credi che ci sia? Non dovresti essere qui, prima di me, a raccontarmi cos'hai trovato sulla scena del crimine?»
La voce di Catapano era secca, come sempre. «Sono in macchina, sto arrivando. Non rompere. La Mobile non è il tuo giocattolo personale, Elena.»
«E tu non sei un libero battitore, sei al servizio dei PM per cui muoviti. E raggiungimi in fretta. Questo non è un semplice omicidio, è l'anticamera dell'inferno.»
Catapano le chiuse il telefono in faccia.
La Ruggeri rimase un attimo immobile, poi infilò il cellulare in tasca. Non se la prese. Bisticciavano da una vita. Ma si rispettavano. Lui la trattava da pari, e lei glielo lasciava fare perché gli voleva bene. Anche se non glielo avrebbe mai detto.
Dopo una manciata di minuti, la Jeep blu del dirigente della Squadra Mobile si fermò sul ciglio della strada. Catapano scese con la camminata dinoccolata di sempre. Non per stile, ma per logorio. Il ginocchio destro dava ormai evidenti segni di cedimento.
Aveva, come sempre, il sigaro spento tra le labbra. Non era un vezzo, ma una scusa per parlare il meno possibile. Indossava una camicia leggera di jeans, sbottonata al collo, le maniche arrotolate sugli avambracci. Un vento caldo e polveroso gli sfiorava la pelle sudata.
Era più alto della media, con i capelli rossi sempre scomposti e gli occhi blu ghiaccio. Chi lo conosceva bene, sapeva che se ti guardava fisso per più di 5 secondi, stavi per essere smontato come un'arma difettosa. Non aveva un buon carattere, ma ce l'aveva più con sé stesso che con il mondo intero.
Quando fu accanto alla croce, restò in silenzio per un lungo momento. Poi guardò Elena.
«Chi abbiamo?»
Elena Ruggeri lo fissò per più di cinque secondi, ma fu lui ad abbassare lo sguardo.
«Don Saverio Cecere. O almeno crediamo sia lui» disse Manna. «Martellone l'ha riconosciuto: lo aveva visto in un servizio delle Iene. Pedofilia. Caso archiviato come infondato, ma l'opinione comune è sempre stata di tutt'altro avviso.»
Catapano si avvicinò al cadavere. Strinse gli occhi per l'odore, poi guardò Elena.
«Rito satanico o vendetta. Una delle due. Ma è presto per tirare conclusioni. Quel che è certo è che questo casino non l'ha fatto una persona sola. Per mettere su un teatrino di questo tipo ce ne vogliono almeno tre, di persone.»
«Su questo non ho dubbi» disse Elena. «Ma ci dà una direzione, almeno.»
Il sole era già alto quando gli uomini della polizia mortuaria sollevarono il corpo e lo adagiarono sul lettino. Catapano seguì ogni gesto, il sigaro spento stretto tra i denti. Non parlava. Sgranava gli occhi come se volesse vedere anche l'invisibile.
Più in là, Santino Corvasci stringeva le mani di sua moglie, Vera. Lei mormorava qualcosa, forse una preghiera. Lui non smetteva di tenerle le mani nelle sue.
Elena si avvicinò a Catapano.
«Ho assegnato l'autopsia a Saracino. Vado in Procura. Ci vediamo in Istituto tra un'ora.»
«Ti faccio sapere.»
«Non è una domanda, Dario, non c'è il punto interrogativo nelle mie parole, è un ordine.»
Catapano alzò appena un sopracciglio, ma non replicò.
Il furgone si allontanò sullo sterrato, lasciandosi dietro una scia di polvere.
Il grano restò lì. A ondeggiare. Come se tutto il resto non lo riguardasse.


IL MARCHIO NELLA CARNE

L'auto di servizio della Procura con Elena Ruggeri a bordo entrò con la lentezza di un corteo funebre nel cortile dell'Ospedale Colonnello D'Avanzo.
Dario Catapano, stranamente in anticipo, la stava aspettando insieme all'agente Teresa Liguori, l'informatica della squadra mobile.
L'ingresso dell'Istituto di Medicina Legale odorava di disinfettante, muffa e qualcosa di più sottile, più persistente, l'inconfondibile odore della morte. Le luci al neon bianche e lattiginose del corridoio illuminavano senza pietà il pavimento in linoleum e le pareti rivestite di piastrelle che, di bianco, ormai avevano ben poco. Catapano precedeva di poco Elena, che aveva chiesto espressamente di assistere all'autopsia. Lui, invece, l'avrebbe evitata volentieri.
La sala sterile del reparto di anatomia patologica e medicina legale si aprì davanti a loro con un sibilo pneumatico. Il freddo era tagliente, artificiale, e si mescolava a un odore dolciastro, pesante, di carne aperta da troppo tempo.
Teresa Liguori avvertì un malessere diffuso, mentre un ricordo le affiorò alla mente: suo padre, ex ispettore della Digos, che le diceva “Teresa, questo non è un lavoro per persone fragili. Sei sicura di volerlo fare?” E lei aveva risposto con un «sì» convinto. Ma ora quel «sì», ora cominciava a vacillare.
Il medico legale, Pietro Saracino, indossava un grembiule di plastica trasparente sopra al camice, la mascherina abbassata sotto il mento e un paio di guanti blu. Aveva quarantatré anni, e da quindici era murato vivo in obitorio. Nessuna pietà per i morti. Ci aveva fatto l'abitudine, ma non mangiava più carne da un pezzo. Magro, capelli lisci tirati all'indietro e appiattiti da un'incipiente calvizie, mani sottili ma ferme come pinze e un paio di occhiali da vista che lo accompagnavano soltanto durante le autopsie.
Il corpo di Saverio Cecere, il prete pedofilo, giaceva immobile sul tavolo d'acciaio come un Cristo abbattuto e profanato. Catapano restò in piedi, dietro Saracino, mani in tasca, lo sguardo fisso sul corpo. La Ruggeri, accanto a lui, aveva i lineamenti più tesi del solito. D'altronde era la sua prima autopsia, una cosa che non tutti riuscivano a reggere senza perdere i sensi. Le avevano fatto indossare un camice di protezione sopra il tailleur che le impediva di muoversi liberamente. Era troppo stretto o, forse, semplicemente non era abituata a indossare nulla di diverso dai propri abiti.
Il dottor Saracino sollevò il telo che copriva la salma. Un odore metallico, denso e ferroso, colpì le narici di tutti i presenti. Il corpo nudo di Cecere apparve nella sua crudezza: i genitali mutilati, il torace scavato, i polsi segnati da lacci stretti, le mani bucate dai grandi chiodi da carpentiere.
«Mutilazione genitale completa. Recisione di pene e testicoli. Taglio netto, chirurgico, eseguito con strumento estremamente affilato. Nessuna esitazione nel colpo. Ma, ed è importante sottolinearlo, anche questa mutilazione genitale è post-mortem.»
Catapano fece un mezzo passo avanti.
«Ne sei sicuro?»
«Sì. Niente reazioni vitali nei tessuti. Nessun sanguinamento attivo, né infiammazione. L'uomo era già morto quando è stato mutilato.»
Saracino passò con attenzione all'esame del collo. Girò il capo del cadavere con delicatezza, facendo emergere la parte posteriore della testa, là dove si incontrano la nuca e la prima vertebra cervicale. Si bloccò. Poi richiamò l'attenzione di Catapano e Ruggeri con un tono basso e, nel contempo, tagliente: «Venite a vedere qui, sul collo.»
Catapano si avvicinò per primo, inchinandosi leggermente. La pelle, lì, era stata incisa, marchiata. Il simbolo di una bilancia rovesciata sovrastava un disegno geometrico composto da piccoli quadrati e tratti netti.
«È un codice», mormorò Saracino. «Un QR inciso nella carne. Appena sotto l'attaccatura dei capelli. Non visibile quando era sulla croce. Dovevamo girarlo per scoprirlo.»
La Ruggeri sbiancò. «Ma che razza di degenerato incide un QR sul collo di un cadavere come se stesse marchiando a fuoco del bestiame?»
«Qualcuno che vuole giocare al gatto e al topo», rispose Catapano.
Saracino annuì, poi continuò con voce ferma: «La causa della morte comunque è lo strangolamento manuale. Frattura dell'osso ioide, petecchie emorragiche sulle congiuntive oculari, solchi sotto la mandibola. Ho riscontrato anche una frattura occipitale compatibile con un colpo contundente alla nuca. Dopo la morte, il corpo è stato evirato, crocifisso, e infine marchiato con questo simbolo.»
Si tolse i guanti. Lo fece con lentezza, in silenzio.
«Da quanto tempo è morto?»
«Almeno dodici ore. Forse quattordici. Il rigor mortis era in fase avanzata quando l'hanno trovato.»
«Vado a prendere un caffè, ve ne porto uno?» chiese Catapano uscendo con la bocca amara e le narici irritate da quell'odore sgradevole. Ma nessuno sembrava interessato all'offerta.
Il distributore automatico in sala d'attesa era lo stereotipo dello squallore, con un cestino dei rifiuti circondato da bicchierini di carta gocciolanti come se mani inesperte avessero provato per ore a fare canestro senza riuscirci.
Il caffè era peggio di quello che faceva Tarallo, il che era quanto dire. Ma serviva a tenerlo sveglio, e lui di questo aveva bisogno in quel momento. Mentre sorseggiava a fatica il caffè, si perse con lo sguardo tra le macchie di umidità sulla parete facendo lo stesso gioco che faceva da bambino contemplando le nuvole per trovarci volti, forme, sagome di animali. Ma gli animali che trovò sui muri del D'Avanzo erano diversi, erano dei fastidiosissimi moscerini molli. “I P'ducchie d'ì libbre”. Così li chiamavano volgarmente a Foggia. Era la stagione, si infilavano dovunque ci fosse un po' di umidità.
Il passo deciso di Manna lo fece voltare.
«È arrivata la conferma ufficiale, dottore. Il cadavere appartiene a don Saverio Cecere, ex sacerdote. Una denuncia per abusi sessuali su minori in una parrocchia di Lucera. Processo lungo. Alla fine assolto perché la ragazzina violentata era disabile e ritenuta inattendibile. Sentenza che ha sollevato molti dubbi.»
«Ricordo il caso», disse la Ruggeri sopraggiunta alle loro spalle. «Aveva i Santi in Paradiso, il prete.»
«E ora magari con questa storia della crocifissione ci diventa pure martire» aggiunse con amaro sarcasmo l'ispettore Manna.
«Contattate i familiari, se li ha. I fedeli della parrocchia, ex colleghi, parenti della presunta vittima di pedofilia e chiunque altro lo conoscesse. Voglio sapere chi poteva volere la sua morte e avere lo stomaco e la forza per crocifiggerlo. Una cosa che, comunque, un uomo solo non riuscirebbe mai a fare. Credo ci vogliano almeno tre persone. Un commando. Teresa, riesci a scansionare e analizzare questo QR code prima che io diventi vecchio?»
«Per la scansione è un attimo, ma dubito che ci porti da qualche parte: il QR Code è incompleto. Resta da capire se è una precisa scelta di chi lo ha fatto, o se, quando hanno impresso il marchio a fuoco sul cadavere, la conformazione del collo non ha reso possibile l'aderenza completa della matrice sulla pelle», rispose Teresa con la speranza di non deludere il suo superiore che l'aveva accolta in squadra da meno di un mese.
Teresa Liguori aveva trent'anni, gran parte dei quali passati tra libri e computer. Laureata in informatica con il massimo dei voti, non aveva mai avuto molti amici e, con il suo viso acqua e sapone, i capelli raccolti dietro la nuca in una coda di cavallo e un seno poco sviluppato, sembrava poco più che adolescente.
La scelta di entrare in polizia le era sembrata quasi naturale quando suo padre, un ex ispettore della Digos, era andato in pensione. Ce l'avevano nel sangue la voglia di essere al servizio della giustizia, una giustizia che a Foggia, da un po' di tempo, aveva iniziato a vacillare.

Gioacchino Rosa Rosa

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