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Autore: Francesco Marino
Il cimitero maledetto
Horror Gotico
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Il cimitero maledetto

Inghilterra, anno domini 1080.

Il vento soffiava tra le colline come un lamento antico, trascinando con sé l'odore umido delle foglie marcite e della terra bagnata. La strada sterrata che conduceva al villaggio di Dunwich era quasi deserta.
La nebbia saliva lenta dalle fosse umide, velando croci di pietra annerite e di angeli corrosi dalla pioggia. Il cimitero di Highmarrow, incastonato tra boschi secolari e colline battute dal vento, era un luogo che i contadini evitavano al calar del sole. Nessuna campana vi suonava più, nessun canto liturgico osava infrangere il silenzio che gravava sulle tombe. Si raccontava che di notte le anime dei dannati vagassero tra i sepolcri e che un male antico fosse stato sepolto sotto la chiesa in rovina che dominava l'ingresso.
La notte si stendeva come un sudario sulle brughiere inglesi e l'aria densa di pioggia avvolgeva ogni cosa di un silenzio irreale.
Il cimitero di Highmarrow giaceva isolato ai margini della foresta, circondato da un muro di pietra scheggiata che pareva più di una cicatrice che una difesa. Mura fatte di pietre medievali annerite dal tempo, si ergevano come ossa sepolcrali.
Tutt'attorno non vi cresceva che erba amara e contorta, e i corvi vi volteggiavano come presagi di sventura, il ferro dei cancelli, contorto dalla ruggine, gemeva al vento come se protestasse contro chiunque osasse varcarne la soglia. Cancelli arruginiti e pericolanti che gemevano al vento e scricchiolavano anche senza mano che li toccasse.
Nel cuore di quel paesaggio desolato, tra querce annerite dai fulmini e un ruscello che pareva scorrere solo di notte, l'antico cimitero di Highmarrow era maledetto da tutti. Nessuno del villaggio vicino vi metteva piede da generazioni, eppure i loro sussurri serpeggiavano nelle taverne e nelle case, raccontando di luci che ardevano da sole tra le tombe, di canti monastici che si levavano dalle cripte e di un signore oscuro che, maledetto dalla chiesa, attendeva ancora di banchettare nel sangue dei vivi. Nessuno vi si avventurava da secoli; i contadini del villaggio evitavano persino di pronunciare il nome dopo il tramonto, perchè si narrava che tra le tombe si aggirassero spettri e che sotto la chiesa cadente, fosse ancora prigioniero un male antico. Difatti gli abitanti del piccolo villaggio di Dunwich, avevano imparato a vivere volgendo lo sguardo altrove.
Nessuno nominava il cimitero di Highmarrow nelle preghiere, nessuno osava camminare lungo la strada che vi conduceva, nemmeno nelle giornate di sole. Ognuno lo evitava come la peste.
La vita nel villaggio continuava come se nulla fosse accaduto. I contadini seminavano, le madri intrecciavano ghirlande d'aglio per le porte e i bambini correvano lontano dal cancello del cimitero, lanciando pietre per vedere chi osava avvicinarsi di più al cancello.
Nella strada buia e desolata, spettrale e paurosa, solo il cigolio di un carretto abbandonato rompeva il silenzio, oscillando piano come se sospinto da mani invisibili.
La luna piena, enorme e pallida, pendeva nel cielo come un occhio implacabile. Ogni raggio illuminava le case diroccate ai margini del borgo e faceva brillare le croci di ferro all'interno del cimitero, oltre il cancello arrugginito.
Nel piccolo villaggio di Dunwich arrivò un viaggiatore che avanzava lentamente. Indossava un mantello scuro, le cui pieghe assorbivano la luce argentea e stringeva a sé un libro logoro che non lasciava mai. Camminava a stento, appoggiandosi ad un bastone ricurvo.
Le sue scarpe vecchie e consumate dal tempo, affondavano nel fango, eppure i suoi passi risuonavano nitidi, come se la notte stessa si fosse fermata ad ascoltarlo. Un cane ululò in lontananza, poi tacque di colpo. L'uomo sollevò lo sguardo: vide una finestra illuminata da una candela, spegnersi in fretta, come se qualcuno si fosse nascosto alla sua vista. Ogni porta chiusa, ogni persiana serrata. Il villaggio pareva vivo, ma prigioniero della paura.
Giunto davanti al cimitero, il viaggiatore posò la mano sul cancello. Il ferro era gelido, umido di rugiada...o forse di qualcos'altro. Un brivido gli corse lungo la schiena quando notò, incise sul metallo, strane scritte ormai corrose dal tempo. All'improvviso un sussulto sottile si levò tra le tombe gelide, un bisbiglio che nessun vento avrebbe potuto portare. Non era una voce chiara, ma una moltitudine di lamenti intrecciati, come se i morti stessi stessero invocando il suo nome. E fu allora che dalla nebbia, una figura curva emerse accanto al cancello. Un vecchio con un mazzo di chiavi appeso alla cintura e un lanternino traballante tra le mani. Curvo sulla sua vecchiaia, calvo e con occhi scavati dal terrore vissuto, come due pozzi scuri e privi di riflesso.
Era il custode, di nome Thomas, un uomo stanco, con mani callose e occhi segnati dall'insonnia, ogni notte percorreva i vialetti fangosi, con la sua lanterna tremolante che gettava ombre sulle croci di pietra e aggrappandosi alle sua fede cristiana tramite un rosario.
Costui era un uomo di mezza età, spalle curve dal lavoro e mani segnate dalle zolle di terra. Parlava poco e sembrava più a suo agio tra le tombe che tra i vivi. Eppure era grazie a lui che i morti riposavano composti, che le tombe non venivano invase dalle bestie dei boschi.
Non dava mai credito alle superstizioni, svolgeva il suo lavoro come meglio poteva, serrando al meglio le tombe con pietre e chiodi arrugginiti.
Percorreva quei campi di ossa ogni sera, con la sua lanterna che faticava a fendere la nebbia. Era un uomo che apparteneva più ai morti che ai vivi. Conoscitore di tanti segreti e di tombe antiche.
Da tempo, stranezze avevano macchiato la terra consacrata. Fosse scoperte senza pala, ossa sparse come giocate da mani invisibili, cadaveri rinvenuti con il sangue svuotato e le labbra bluastre. Il vento portava sussurri, le vecchie al focolare dicevano «un revenenant cammina fra noi», ma nessuno del villaggio osava varcare il cancello del cimitero, se non Thomas.
Il villaggio lo temeva, chiamandolo “servo delle tombe”, ma era grazie a lui che i corpi non restavano insepolti e che la marcescenza non si diffondesse tra i vivi. Ma Thomas non trovava pace. Ogni notte, nel silenzio dei sepolcri, aspettava. La lanterna ardeva, ma a volte la fiamma tremava come se qualcosa la sfiorasse. Gli pareva di udire spesso, passi nella nebbia, sussurri nelle radici e un battito lento, cavernoso, proveniente sotto terra.
Vide davanti al cancello il viaggiatore e gli chiese, fermo:
«Sei arrivato, dunque eccoti qui. Ma sappi che chi entra qui...non sempre trova la via d'uscita» mormorò con voce roca.
Il vecchio reggeva la lanterna con una mano tremante, ma la fiamma al suo interno non vacillava, come se fosse protetta da un potere invisibile. La luce arancione gli scavava solchi profondi sul volto rugoso, mettendo in risalto una pelle che pareva consumata dalla notte stessa. Il vento sottile soffiava tra le lapidi delle tombe logore dai secoli. Con il viaggiatore fermo su se stesso che osservava il vecchio. Quel custode di cimitero non sembrava un semplice becchino. C'era qualcosa di innaturale nei suoi occhi, troppo fermi, troppo scuri, come se non riflettessero davvero la luce emanata.
«Chi sei?» domandò il viaggiatore, stringendo forte sia il libro che il bastone in cui si reggeva.
«Il guardiano del cimitero». Il vecchio sorrise appena e fu un sorriso amaro. «Da generazioni la mia famiglia veglia su queste tombe. Ma non credere che lo facciamo per i vivi» disse il vecchio. Si voltò, indicando il cimitero oltre le sbarre arruginite.
«Lo facciamo per loro. Perché non escano» mormorò il vecchio.
Quella notte il vento portava con sé un odore dolciastro, simile al ferro e al vino rancido. Thomas lo percepì mentre attraversava il camposanto. La sua lanterna illuminò un cipresso alto e nodoso, e lì, nell'ombra, vide, tra le tombe e lapidi in pietra, figure tetre muoversi nel buio, qualcuno indossando un mantello scuro che sembrava assorbire la luce.
Un brivido corse lungo la schiena del viaggatore. L'aria sembrò farsi più pesante, carica di umidità e di odore di muffa, come se la terra stessa respirasse.
«Molti stranieri, come te, sono venuti spinti dalla curiosità. Alcuni cercavano tesori nascosti. Altri, risposte che non avrebbero mai dovuto conoscere. Nessuno è mai tornato per raccontarlo» continuò il custode, con voce cavernosa.
Il viaggiatore esitò. Avvertiva dentro di sé un conflitto, parte di lui voleva voltarsi e fuggire, ma un'altra parte – più forte, più oscura – lo spingeva avanti. Il libro che stringeva forte nella mano ora lo stringeva al petto, pareva pulsare come se fosse vivo.
Il custode notò quell'oggetto e i suoi occhi si strinsero.
«Quello non dovrebbe stare qui» sibilò. «Quella è la chiave che può aprire...o distruggere».
Il silenzio calò di nuovo tra i due. Poi il vecchio afferrò una chiave arrugginita dal mazzo che aveva appesa alla cintura e la infilò nel cancello. Con un cigolio stridente, il ferro si mosse lentamente, aprendosi con forza, su un sentiero di ghiaia che conduceva nel cuore del cimitero.
«Se davvero vuoi entrare, sappi che ogni passo che compirai sarà sorvegliato. Dai vivi...e dai morti» disse il custode, camminando.
La lanterna tremolò per la prima volta. Dal fondo della nebbia, tra le tombe più lontane, un ombra si mosse.
Il cancello si richiuse alle spalle del viaggiatore con un clangore sordo, come se un enorme coperchio fosse calato sulla sua libertà. L'aria all'interno del cimitero era ora più densa, intrisa di odori metallici e di terra bagnata. Il silenzio, irreale, veniva spezzato soltanto dallo scricchiolio della ghiaia sotto i suoi passi.
Il custode procedeva avanti, la lanterna sollevata, ma la luce arancione si perdeva presto nella nebbia che saliva tra le lapidi inclinate. Alcune recavano nomi ormai cancellati dal tempo, altre sembravano appena scolpite, come se la morte fosse arrivata la sera prima. Un gran silenzio si sentiva tutt'attorno.
Il viaggiatore si fermò. Aveva la netta sensazione di non essere solo. Poi lo udì.
Un sospiro. Lieve, prolungato. Non un soffio di vento, ma il respiro lento e gelido di qualcuno che gli sfiorava la nuca. Si voltò di scatto, ma non c'era nessuno. Solo la nebbia, che si muoveva come se fosse viva. Strinse ancora di più il suo mantello, stringendo a sé il libro.
«Non fermarti. Se ascolti troppo, ti seguiranno» disse il custode.
Il viaggiatore serrò i denti e riprese a camminare, ma i sospiri si moltiplicarono. Ora erano molti, provenienti da ogni direzione. Dietro una croce spezzata, accanto a una cappella in rovina, persino sotto i suoi stessi piedi, come se la terra lo stesse osservando. Un brivido lo costrinse a stringere più forte il libro. Videro la chiesa.
Un silenzio gravò, spezzato solo dal fruscio delle fronde. Thomas, con un coraggio che non si sapeva spiegare, avanzò di un passo.
«Buona sera, custode» disse una voce, vellutata e fredda.
Thomas strinse l'impugnatura della sua lanterna e alzandolo verso il viso della figura tetra, gli chiese: «Chi siete? Non dovreste stare qui».
L'uomo sorrise, mostrando denti troppo bianchi, troppo lunghi.
«Sono ospite di questa terra da ben prima di te. Le ossa che riposi non dormono tranquille, e tu lo sai» rispose il vampiro, ridendo.
Il viaggiatore vicino al custode, inorridì di paura, bianco in volto quasi che svenisse da ciò che stava vedendo. Stringeva sempre forte al suo petto, il libro nelle sue mani incrociate sotto il mantello nero.
«Non avrete le anime che veglio. Questo luogo è consacrato» disse Thomas segnandosi la fronte e guardando il vampiro senza timore.
«Consacrato? Forse una volta. Ora è solo pietra umida e terra marcia» rispose il vampiro ridendo piano, un suono che fece gelare l'aria e avvolgendo il suo volto dal lembo del nero mantello.
«Da quanto tempo vegli questo giardino di ossa, custode?» chiese il vampiro a Thomas che stringeva forte la lanterna con la fiamma.
«Da quando ho la forza nelle braccia. Chi siete voi, che vi aggirate tra i morti?» chiese il custode con voce ferma e decisa.
Il vampiro sorrise, mostrando due canini affilati come coltelli.
«Sono uno di loro. Ma non dormo. Non ancora» rispose.
Il sangue gelò nelle vene del viaggiatore, eppure non fuggì.
«Sono il barone Alwyn e questa terra era mia, prima che tu o i tuoi paesani la profanaste con le vostre croci. Io ero signore quando il ferro era giovane e i boschi cantavano. Mi hanno sepolto qui, ma la terra non ha potuto tenermi» disse ancora il vampiro.
D'un tratto, con una velocità innaturale, la creatura fu davanti a lui, la sua ombra più grande della lanterna. Thomas sentì il fiato gelido sulla pelle, ma non indietreggiò. Dal suo mantello tirò fuori un rosario, l'unico ricordo di sua madre. Lo strinse e lo alzò e la piccola croce di ferro brillò nella fiamma.
Il vampiro fece un passo indietro, il volto contorto in una smorfia antica di rabbia e fame. Guardandolo e mostrando i suoi denti aguzzi e bianchi disse al custode, fermo su se stesso con la coroncina tra le dita che faceva oscillare:
«Tu non puoi vincere questa veglia, custode. Ma ricorda: ogni notte che sorgerà, io sarò qui. E prima o poi la tua lanterna si spegnerà».
Detto questo, svanì tra le tombe, dissolto nella nebbia.
Thomas rimase accanto al viaggiatore con il suo cuore che batteva come un tamburo. La lanterna tremolava ancora, ma la sua fiamma non si spense.
Thomas vegliò quella notte, con la lanterna sempre accesa e il rosario stretto nella mano. I villaggi attorno iniziarono a chiamarlo “il guardiano delle ossa”. Il vampiro tornava ad ogni luna nuova e lo trovava sempre lì, saldo, pronto a difendere i morti dai morti che camminavano nelle tenebre.
Il barone Alwyn era un uomo alto, con un volto pallido come la cera e occhi neri che riflettevano la luce tremolante come specchi. Indossava un mantello di velluto logoro, ma elegante, e quando parlava, la sua voce sembrava vibrare nell'aria. Era morto due secoli prima in circostanze misteriose e mai chiarite. Si pensava che fosse stato assassinato per via del suo potere acerbo e vendicativo sugli altri. Lo seppellirono nel cimitero di Highmarrow con disprezzo e ingiuriandolo fino a quando si volle vendicare dei suoi aguzzini, e di quanti lo disprezzarono alla sua morte.
Nella seconda luna nuova, il vampiro tornò.
Non apparve all'improvviso come la volta precedente, ma Thomas lo avvertì ancora prima di vederlo. Il vento smise di muoversi, gli animali del bosco tacquero e la brughiera parve trattenere il fiato. Poi, tra le tombe, la nebbia si sollevò come un sipario e la figura emerse, ancora molto più tetra della prima volta.
«Sei ancora qui, custode?» chiese il vampiro, con un sorriso gelido.
«Gli uomini non durano tanto. Il tempo logora, la carne marcisce. Eppure tu resisti» disse ancora il barone Alwyn.
Thomas con voce roca, rispose: «Non veglio per me stesso. Veglio per chi non può difendersi. Finchè avrò respiro, non entrerai nei cuori di questo villaggio».
Il vampiro si chinò leggermente, come se trovasse divertente la fermezza dell'uomo. Poi con sguardo severo, disse al custode:
«Coraggio e follia sono fratelli, Thomas. Non capisci che tu sei già mio? Il tuo sonno, i tuoi incubi, persino i battiti del tuo cuore...io li sento. Io li gusto. Ogni notte mi nutro della tua paura, anche se tu mi neghi il sangue». Poi rivolgendo lo sguardo in direzione del viaggiatore, mostrando ancora una volta i suoi denti aguzzi, disse:
«Tu, viaggiatore sconosciuto, che trattieni sul petto quel libro che tieni stretto, consegnalo a me. Saprò io cosa farne».
«Mai lo avrete signor barone, così come non avrete il mio cuore, la mia paura, il mio sangue» ribattè il viaggiatore allontanandosi di qualche passo e tenendo ancora più stretto il libro sotto il mantello.
Thomas alzò la croce di ferro, e la fiamma della lanterna crepitò più alta. Ma il vampiro non indietreggiò questa volta. Fece un passo avanti e il bagliore si spense per un attimo, come inghiottito.
«Un giorno, la tua fede vacillerà. Una notte poserai la croce, anche solo per stanchezza. E allora sarai mio. Non per forza, ma per scelta. E tu, viaggatore sarai sotto il mio mantello con il tuo libro che sarà mio...» disse il vampiro.
Thomas non rispose. Le parole lo colpirono più delle minacce. Perché nel suo cuore, per un istante, sentì la verità di quella tentazione. Guardava il viaggiatore che si era allontanato.
Poi, come la prima volta, il vampiro svanì nella bruma, lasciando il custode con un dubbio che bruciava più della paura stessa. Era davvero un guardiano o stava diventando prigioniero della stessa oscurità che voleva respingere?

Francesco Marino

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