
Non c'è mai un momento preciso in cui capisci che stai andando verso il baratro. La vita ti scivola addosso, un errore alla volta e tu pensi sempre di avere tempo per rimediare. Io lo pensavo ogni giorno. Fuori c'era la mia famiglia, i miei amici, i piccoli gesti di normalità che oggi mi mancano come l'aria. Ma allora non li vedevo davvero. Vivevo di fretta, accecato da scelte sbagliate e dall'illusione che nulla potesse toccarmi. Mi sentivo furbo, libero, intoccabile. In realtà, stavo solo costruendo la mia gabbia. Ogni menzogna, ogni compromesso, ogni occasione persa di fermarmi a riflettere, era una sbarra invisibile che aggiungevo da solo. Poi all'improvviso, la libertà che davo per scontato, svanì. Il rumore delle sirene, lo sguardo della gente, il gelo che ti entra nelle ossa quando capisci che non puoi più scappare: fu allora che vidi, per la prima volta, il cancello della mia nuova vita. Un cancello che si è chiuso alle mie spalle. E con lui, anche tutto ciò che ero stato fino a quel momento. C'è sempre una prima volta nella vita. Una vita fatto di scelte che sembravano piccole, di strade percorse con leggerezza, come se nulla potesse mai deviare davvero il tuo corso. Eppure ogni passo lascia un segno, ogni deviazione apre una crepa e col tempo quelle crepe diventano voragini. Prima del cancello ero libero, almeno così credevo. La libertà, però, non è solo poter camminare per strada o respirare l'aria della notte, ma è anche saper dormire senza fantasmi, guardarsi allo specchio senza abbassare gli occhi. Io, quella libertà, l'avevo persa molto prima che le sbarre si chiudessero alle mie spalle. Gli errori non arrivarono tutti insieme. Si insinuarono piano: la compagnia sbagliata, le serate troppo lunghe, le parole dette per vantarsi, gli affari facili che sembravano innocui. All'inizio era un gioco: soldi facili, un senso di potere che non avevo mai provato. Bastava chiudere un occhio sulla coscienza e il resto veniva da sé. Ero convinto di saper controllare tutto. Di poter dire basta quando volevo. Non mi accorgevo che il limite l'avevo già superato da tempo. La famiglia mi parlava, gli amici veri mi guardavano con preoccupazione, ma io li zittivo con un sorriso arrogante: «Sto bene, lasciatemi vivere» continuavo a ripetere. Poi arrivarono i debiti, le bugie, le notti senza pace. Ogni passo falso mi spingeva più a fondo e invece di fermarmi correvo più veloce. Non c'è un solo istante che io possa indicare come “l'inizio della fine”. E' stata una somma di dettagli, un mosaico di errori che, tassello dopo tassello, ha costruito la mia prigione, molto prima che i secondini mi chiudessero dentro. E così, alla vigilia del mio arresto, io ero già un uomo con le mani legate. Non dalle manette, ma dalle mie stesse scelte. Tutto iniziò in una notte di bravata. Il rumore delle moto era l'unica colonna sonora delle mie notti. Ci trovavamo sempre allo stesso bar di periferia, un locale con le serrande mezze arrugginite e il neon che lampeggiava. Lì, tra birre calde e sigarette consumate troppo in fretta, si prendevano decisioni che, all'apparenza, sembravano semplici. «E' solo un lavoretto, niente di che» mi disse Marco una sera, battendo il pugno sul tavolo appiccicoso. Io annuì, anche se non avevo capito bene cosa intendesse. Non servivano tante spiegazioni: bastava seguire il gruppo, non restare indietro. La mia vita, prima del cancello, era fatta di scelte dettate dall'istinto e dall'orgoglio. Un lavoro regolare l'avevo avuto, certo, ma non bastava mai. Troppo faticoso, troppo poco. Bastava guardare le tasche gonfie degli altri, per capire che c'era una strada più veloce, anche se più sporca. Ricordo ancora le parole di mia madre, quella sera che rientrai all'alba. Mi parlò con franchezza, aspettandomi per tutta la notte. «Non sei più tu...» mi disse, guardandomi con occhi che non riuscivo a sostenere. «Mamma smettila. Sto bene, non ti preoccupare» tagliai corto, infilandole in mano qualche banconota come se potessi comprare il suo silenzio. Ma dentro casa non c'erano soltanto le sue paure. C'era anche mio padre, con la sua voce dura e gli occhi stanchi di chi aveva passato una vita a sporcarsi le mani per pochi soldi. «Lavoro onesto, figlio mio, è l'unica cosa che ti tiene dritto, senza problemi» continuava a ripetermi ogni volta. Io lo guardavo scuotendo la testa, convinto che non capisse. Le serate continuavano tutte uguali: corse in macchina, giochi d'azzardo, promesse di guadagni facili. E ogni volta un passo più vicino a quel punto di rottura che non vedevo arrivare. Gli amici, quelli di sempre, non li frequentavo più: troppo tranquilli, troppo puliti. Io cercavo adrenalina, cercavo quella scossa che ti fa sentire vivo. Non ci fu un colpo grosso, un errore eclatante. Fu un insieme di piccoli inciampi, un pacco consegnato a chi non doveva, una notte in cui non seppi dire di no, un debito contratto con la persona sbagliata. Ogni scelta, ogni bugia, mi portava sempre più vicino a un cancello che ancora non immaginavo, ma che già stava aspettando di chiudersi dietro di me. La notte dell'arresto fu come le altre, all'inizio. Stesso bar, stessi volti. Uscimmo tardi, ridendo senza motivo e il rumore dei motori delle nostre moto, riempiva l'aria. Ma quando svoltai l'angolo, vidi i lampeggianti blu tagliare il buio. In un attimo, le risate si spensero. «Fermi! Polizia!» le parole risuonarono come uno schiaffo. Mani che mi afferravano, voci concitate, il metallo delle manette che stringeva i polsi. Il cuore mi batteva forte, ma non era più l'adrenalina di prima: era paura, pura e fredda. Le luci si riflettevano sull'asfalto bagnato e io capii che quel momento segnava la fine. Non di una notte, ma di una vita intera. Tutto quello che avevo fatto, mi aveva portato lì, davanti a quel cancello invisibile che, di li a poco, si sarebbe trasformato in ferro e chiavi. Quella notte la passò in commissariato per le formalità. Non fu dentro una cella vera, ma in una stanza fredda, con il pavimento che odorava di disinfettante e le pareti nude. Una sedia di metallo, un tavolo graffiato e due occhi fissi su di me dall'altra parte. L'ispettore non alzò mai la voce: non ce n'era bisogno. Ogni suo silenzio pesava più delle domande stesse. «Sai bene perché sei qui» disse infine. Abbassai lo sguardo. Sapevo, ma non volevo ammetterlo. Dopo gli interrogatori arrivò l'attesa. Ore infinite in una cella di sicurezza, il neon sempre acceso, il brusio degli altri fermati. Alcuni bestemmiavano, altri piangevano, qualcuno rideva come se fosse tutto un gioco. Marco mi chiamava da una cella più distante. Io non rispondevo, non parlavo. Contavo i secondi, aspettavo che qualcuno venisse a dirmi che era tutto un equivoco. Ma nessuno arrivò. La mattina successiva fui portato in tribunale. Il corridoio odorava di legno vecchio e carta. Indossavo ancora gli stessi vestiti della notte dell'arresto: stropicciati, impregnati di fumo e paura. Entrai in aula con i polsi segnati dalle manette e sentii su di me decine di sguardi. Alcuni curiosi, altri indignati, qualcuno persino divertito. L'aria in quell'aula era un velo pesante, pregno di un silenzio innaturale, quasi fosse un tessuto stesso a trattenere il respiro. Non era il silenzio contemplativo di una biblioteca, né quello rispettoso di un luogo sacro. Era un silenzio denso, carico di aspettativa, un vuoto rumoroso che preannunciava la tempesta. Le luci al neon, fredde e implacabili, faticavano a dissipare le ombre che si annidavano negli angoli più remoti, disegnando contorni distorti sui volti dei presenti. Ogni fascio di luce sembrava inciampare sulla polvere sospesa nell'aria, trasformandola in particelle danzanti, testimoni silenziose di un momento cruciale. Era fredda ma non di temperatura. Mi sentivo stranamente distante da tutto. Il mio corpo era seduto su una panca di legno duro, ma la mia mente era in un limbo, sospesa tra un passato che si sgretolava e un futuro ancora da definire, che avvertivo con terrificante certezza sarebbe stato irrevocabilmente e diverso. Osservavo i volti dei giudici, figure austere incorniciate dalle toghe scure, le cui espressioni erano maschere impenetrabili. Nessun guizzo negli occhi, nessun movimento involontario delle labbra che potesse tradire un pensiero, un'emozione, un qualsiasi barlume di umanità. Erano statue di marmo, scolpite nella pietra della legge, e io ero l'argilla plasmata dal loro volere, in attesa di essere cotto e indurito per sempre. Ogni dettaglio dell'ambiente sembrava amplificare la mia crescente inquietudine. Il legno scuro dei banchi, segnato da innumerevoli graffi e incisioni, parlava di vite passate, di speranze infrante e di destini segnati. Le alte finestre gotiche, attraverso le quali filtrava una luce grigia e indifferente, parevano sbarre di una prigione invisibile, che delimitavano il perimetro della mia esistenza. Il pavimento di linoleum consumato assorbiva ogni suono, ogni passo incerto, contribuendo a creare quell'atmosfera ovattata e opprimente. Percepivo un odore acre, misto di polvere antica, carta invecchiata e un sottile sentore di sudore, il profumo della paura umana. Il mio sguardo vagava senza meta, soffermandosi sui dettagli quasi insignificanti: le trame ruvide della giacca degli avvocati, le nervature del legno del banco davanti a me, la penna che un impiegato teneva stretta tra le dita, come se potesse scappare da un momento all'altro. Mi chiedevo se anche gli altri in quell'aula provassero quella stessa sensazione di irrealtà, quella disconnessione dal mondo esterno che mi avvolgeva come una nebbia gelida. Immaginavo mia madre, seduta da qualche parte tra la folla, il suo volto pallido e il cuore che le batteva all'impazzata, e un'ondata di tenerezza mista a terrore lo travolse. Ora si trovava lì, in attesa di un verdetto che avrebbe distrutto tutto. Una sottile lama di sudore mi imperlava la fronte. Cercavo di controllarmi, di respirare regolarmente, di non dare a vedere la tempesta che infuriava dentro di me. Ma ogni tentativo era vano. Il mio corpo tradiva la mia mente: le mie mani stringevano il tessuto dei pantaloni con troppa forza, i piedi tamburellavano un ritmo irregolare sul pavimento, i pensieri si rincorrevano frenetici, un groviglio di ipotesi e scenari catastrofici. Mi aggrappavo a un filo di speranza residua, un'illusione ostinata che qualcosa potesse ancora andare storto per l'accusa, che una falla nel sistema potesse aprirsi e lasciarmi libero. Ricordavo le parole del mio avvocato, le rassicurazioni, i dettagli tecnici che avrebbero dovuto garantirmi l'innocenza. Ma ora, in quell'aula silenziosa, quelle parole suonavano fragili, quasi insignificanti di fronte alla gravità del momento. Il giudice parlava con voce ferma, quasi impersonale. Gli avvocati si muovevano come attori consumati, ognuno recitando la propria parte. Io ero solo lo spettatore della mia rovina. Le prove lì, chiare, e le mie giustificazioni cadevano come carte bagnate. Il giudice, una figura imponente con folti capelli grigi e uno sguardo severo, si schiarì la voce. Quel semplice gesto fu come un segnale, una scossa elettrica che percorse l'intera sala. Tutti gli occhi si puntarono su di lui, sull'oggetto della sua attenzione. Sentii il proprio cuore accelerare, un battito impazzito che rimbombava nelle mie orecchie. Il terrore, prima una sensazione lontana, ora si faceva più concreto, più tangibile, avvolgendolo in un abbraccio gelido. Era giunto il momento. Le parole che stavano per essere pronunciate avrebbero squarciato il velo del silenzio, sancendo la fine di una vita e l'inizio di un incubo. Mi preparai al peggio, chiudendo gli occhi per un istante, cercando di raccogliere le ultime briciole di forza interiore. Poi, riaprì gli occhi, fissando il vuoto davanti a me, pronto ad affrontare qualunque cosa stesse per accadere. Il silenzio tornò a regnare, più denso e opprimente di prima, in attesa che le parole definitive lacerassero quel fragile equilibrio. Il Presidente del collegio giudicante, un uomo dalla voce profonda e risonante, aprì un fascicolo rilegato in cuoio scuro. Il fruscio della carta ruvida che veniva sfogliata fu l'unico suono a rompere il silenzio teso dell'aula. Ogni cigolio del leggio, ogni leggero movimento delle sue mani sembrava amplificato, caricato di un significato immenso. Trattenni il respiro, i muscoli contratti in una tensione quasi dolorosa. Sentivo gli sguardi su di me, curiosi, giudicanti, compassionevoli o forse indifferenti. Erano gli sguardi del mondo esterno, che stava per essere chiuso a chiave fuori dalla mia vita. Qualcuno mi prendeva a parole come se fossi stato un super delinquente. Le luci al neon continuavano a brillare con la loro luce fredda e artificiale, creando un ambiente spoglio, privo di calore umano. Non c'era nulla che potesse mitigare la cruda realtà del momento. Le pareti grigie, il soffitto basso, l'assenza di qualsiasi decorazione o elemento distruttivo contribuivano a creare un'atmosfera di totale spersonalizzazione. Era un luogo progettato per annullare l'individuo, per ridurlo a una funzione, a un mero imputato in attesa di sentenza. Mi sentivo come un insetto sotto un microscopio, ogni mia fibra, ogni mio pensiero scrutato e analizzato. La mia mente correva all'impazzata, cercando un appiglio, una via di fuga, un errore che potesse capovolgere la situazione. Ricordavo dettagli insignificanti del dibattimento, frammenti di conversazioni, volti di testimoni, parole dell'accusa che ora gli sembravano distorte, ingiuste, menzognere. Come era possibile che tutto ciò che avevo vissuto, tutto ciò che sapevo essere vero, venisse così facilmente ignorato, così brutalmente negato? Il pensiero della mia famiglia, era un dolore lancinante. Come avrebbero affrontato questo? Come avrebbero potuto sopportare il peso di un tale marchio? Immaginavo il loro dolore, il loro sgomento, e un senso di impotenza mi attanagliava. Io era lì, protagonista di quella tragedia, ma loro erano spettatori innocenti, destinati a subire le conseguenze delle mie presunte azioni. E la mia incapacità di proteggerli, di difenderli da questo scempio, era un fardello quasi insopportabile quanto la prospettiva della mia stessa condanna. Le ombre proiettate dalle luci al neon sembravano allungarsi e contorcersi sui muri, come spettri danzanti di un passato che mi tormentava. Ogni angolo buio, ogni fessura nel legno, sembrava nascondere un segreto, una verità che non riuscivo a raggiungere. L'aria stessa sembrava farsi più densa, più pesante, rendendo la respirazione un atto faticoso. Il silenzio non era più solo assenza di suono, ma una presenza opprimente, un vuoto che urlava la propria ineluttabilità. Sentii un nodo alla gola, un senso di soffocamento che aumentava di minuto in minuto. Cercavo di concentrarmi sulle parole del giudice, di decifrare il significato celato dietro quella facciata di compostezza. Ma la mia mente era un turbine di emozioni contrastanti: la speranza residua che si scontrava con la paura crescente, il desiderio di giustizia che lottava contro la consapevolezza della sconfitta imminente. Mi chiesi se fosse ancora possibile appellarsi, se ci fosse un modo per far sentire la propria voce, per sfuggire a questo destino segnato. Ma ogni tentativo di pensiero razionale veniva soffocato dall'ondata di panico che mi stava travolgendo. Era come essere trascinato dalla corrente di un fiume impetuoso, senza poter opporre alcuna resistenza, destinato a essere inghiottito dal gorgo. Le mani mi tremavano visibilmente. Strinsi i pugni, cercando di controllare quel tremore, ma era inutile. Era il corpo che parlava, che urlava la mia disperazione, la mia innocenza, la mia paura. Mi sentivo esposto, nudo, vulnerabile, come se la mia anima fosse stata messa a nudo sotto quelle luci spietate. Poi, il giudice alzò lo sguardo, fissandomi direttamente. In quello sguardo intenso, c'era un peso che il tempo non aveva potuto attenuare, una gravità che preannunciava il verdetto. Sentii un brivido gelido corrermi lungo la schiena. Era come se tutto il resto dell'aula fosse scomparso, come se esistesse solo io e quell'uomo, il depositario del suo destino. Il silenzio in quell'istante divenne ancora più profondo, più carico di significato. Era il silenzio che precede la sentenza, il silenzio che precede la caduta, il silenzio che precede la fine. E in quel silenzio assordante, capì che non c'era più speranza. Le parole che stavano per essere pronunciate avrebbero sigillato la mia sorte, trasformando il presente in un incubo dal quale sarebbe stato difficile, se non impossibile, svegliarsi. L'atmosfera si fece quasi palpabile, carica di un'attesa che logorava i nervi, un preludio inevitabile a ciò che stava per accadere. La mia vita, come la conoscevo, stava per cessare di esistere, inghiottita dalle ombre di quell'aula silenziosa. Il Presidente del collegio giudicante abbassò lo sguardo sul foglio che teneva tra le mani. Il silenzio era così denso che si potevano quasi sentire i battiti dei cuori all'unisono, in un'attesa palpabile, carica di una tensione quasi insopportabile. Sentii il sangue gelarsi nelle vene. Ogni fibra del mio essere era tesa, in attesa della parola che avrebbe cambiato per sempre il corso della mia esistenza. Il verdetto finale della mia condanna e della mia libertà. "La Corte," iniziò il giudice, la sua voce ferma e priva di inflessioni, quasi robotica, "dopo aver ascoltato le parti, esaminato le prove e considerato le argomentazioni presentate..." Fece una pausa, un momento che si dilatò in un'eternità, durante il quale sentii il mondo esterno dissolversi, lasciandomi solo con il battito martellante del mio cuore e il peso schiacciante del momento. "Ha deliberato e dichiara all'unanimità..." Le parole che seguirono furono un colpo secco, brutale, che squarciò il velo di speranza che ancora si aggrappava disperatamente alla mia mente. Erano parole precise, taglienti, prive di qualsiasi esitazione. "Colpevole." La parola risuonò nell'aula come una sentenza di morte. Sentii le gambe cedere, come se l'intero edificio stesse crollando intorno a me. Quelle parole mi trafissero. Non fu la condanna in sé, ma il suono della sentenza: definitivo, irrecuperabile. Il martello batté sul legno e io sentii come se avessero chiuso una porta dentro di me. Il mio avvocato era al mio fianco, la giacca sgualcita e lo sguardo stanco. Mi sussurrò: «Stai tranquillo! Faremo ricorso in appello. Appena avrò letto le motivazioni della condanna. Farò il possibile». Il processo non fu un lampo. Durò giorni, ognuno uguale e diverso dall'altro. C'erano stati i testimoni: qualcuno parlava con rabbia, qualcuno abbassava lo sguardo, qualcuno cercava di essere imparziale, ma sapevo che la verità non si poteva cancellare. Ogni parola era stata una pietra messa sulle mie spalle. I pubblici ministeri, che raccontarono la mia storia, come se fossi il protagonista di un film criminale. Il mio avvocato che aveva tentato di raddrizzare la trama, parlando di errori di gioventù, di un ragazzo confuso, di possibilità di riscatto. Io l'avevo ascoltato con attenzione e mi chiesi che stesse descrivendo: non mi riconoscevo più né nell'accusa né nella difesa. Nell'aula i giorni sembrarono sospesi. Guardavo fuori dalla finestra e vedevo la città che continuava a vivere indifferente. La gente camminava, le macchine correvano, il sole tramontava. Io invece ero fermo lì, imprigionato già ancor prima di entrare in carcere.
Francesco Marino
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