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Autore: Mauro Pergolini
Tre racconti horror
Horror
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Tre racconti horror

La cosa strana della cantina.

Il buio era sceso, e le voci delle madri echeggiavano nel richiamare i figli per cena. Ciononostante, Alessio e Michele procedevano in via contraria, pronti a ogni evenienza pur di sfogare certe mire derisorie.
Quasi a ogni evenienza.
Insieme, raggiunsero l'isolata casa bianca in stile cottage americano, vecchia e a ridosso della foresta, che in paese guardavano con sospetto. Lì viveva infatti, senza mai lasciarla, l'arcano figuro di cui erano in cerca, sulla bocca di tutti malgrado nessuno lo conoscesse davvero.
Se non per il soprannome che gli avevano affibbiato: “La Cosa Strana della Cantina”.
Erano stati alcuni come loro, in passato, a ribattezzarlo in quel modo: due ragazzini altrettanto inopportuni e ingenui da equivocarne lo scantinato per una cantina, mentre lo spiavano, tra un conato di vomito e l'altro, dalla finestra a bilico orizzontale ora non più presente. Si diceva fosse stato proprio lui a farla rimuovere, scongiurando i genitori affinché la murassero all'esterno.
Due ragazzini che, poco tempo dopo, svanirono senza lasciare traccia...
Appena supportati dalle luci soffuse dei pochi lampioni ai lati della carreggiata, gli avventurieri di un'umida domenica di marzo scavalcarono, guardinghi, i malandati pannelli bianchi delimitanti la proprietà. Subito dopo, dovettero farsi largo tra l'incuria del terreno, in buona parte invaso da rovi, rampicanti e quant'altro.
«Che cazzo di schifo...» commentò Alessio, cercando di scrollarsi di dosso la robaccia derivante da quell'incuria.
«È vero», concordò Michele, costretto a fare lo stesso. «Sembra come se ‘sta casa sia abbandonata.»
«Non lo è.»
Accovacciati, percorsero un breve tratto all'interno di quella piccola giungla. Finché non arrivarono alla porta rossa d'ingresso lungo il suolo cementato.
«Oh, ma... hai visto?!» Michele segnalò.
«Sì, cazzo...»
Spiazzati dal trovarla con entrambe le ante spalancate, ragionarono se non fosse una semplice dimenticanza.
O se l'Essere fosse lì ad attenderli...
Questa l'ipotesi più accreditata da Michele, il quale, colto improvvisamente dal dubbio, chiese all'amico: «Sei sicuro?»
«Ovvio! Se te ne vuoi andare, vattene, no?»
«No, no...»
«E allo'? Che problema c'è?»
«Niente, c'hai ragione. Ma facciamo subito, che sennò i miei s'incazzano.»
«Eh, mica dipende da me, dipende da ‘sto stronzo», precisò Alessio inginocchiandosi, al fine di esporre la testa per esaminare la particolare entrata da cui nulla però giungeva rispetto a un silenzio e un'oscurità perfino maggiori di quelli che avevano intorno.
Poco più dietro e a lato, Michele s'inginocchiò anche lui, ponendo i pantaloni della tuta gialla prima e le mani poi sul terreno confinante, ancora in parte fangoso a causa della fitta pioggia caduta la mattina. «Mia madre mi schiatta, mo' che torno...»
«Ma la smetti?!»
Scusandosi, Michele si salvò giusto all'ultimo dal passarsi una mano attraverso la folta chioma castana. «Meno male... Che si vede?»
«Le scale. Cinque o sei, mi pare.»
«E basta?»
«E basta. Ma è difficile, è tutto... aspe', mica mi puoi dare il tuo cellulare, che uso la torcia? Il mio è quasi scarico.»
«Pure il mio...»
«Porca Eva...» mugugnò Alessio, il quale, infastidito, si accarezzò – lui sì – la testa lungo il lato sinistro rasato come il destro; dopodiché, sempre in cerca di una soluzione al problema, si sistemò i ricci neri centrali e il cappuccio della felpa rosso vino.
«Dove starà?»
Alessio rivolse per un attimo lo sguardo all'amico. «Là dentro, dove vuo' stare? Non esce mai!»
«Siamo sicuri?»
«Questo dicono. Pure i miei me l'hanno detto.»
«‘Ngulo, se penso a tutte le...» sfiorato dalla suggestione, Michele, anche impegnato a rimuovere la terra perlomeno dai palmi, compì una breve pausa involontaria, «a tutte le storie che girano sul suo conto...»
«Tipo i bambini scomparsi?»
Colpito a freddo, Michele si limitò ad annuire.
«O tipo che la gente si spaventa quando lo vede?»
«Ma tu l'hai mai visto?»
«No.»
«Manco io. Scusa, e allo' come lo riconosciamo?»
«Tranquillo...» assicurò Alessio con un sogghigno, sottintendendo fosse la faccia la caratteristica che gli avrebbe consentito di farlo. «Non ci sbagliamo di sicuro.»
Pulite alla bene e meglio le mani, Michele dedusse: «Allora dobbiamo andare sott—»
«Fermo», lo interruppe Alessio, tornando tutto d'un tratto serio e allargando il braccio fin quasi a colpirlo involontariamente sul naso.
«Che c'è?! Hai visto qualcosa?!»
Atteso qualche istante, il tempo che valutò necessario a comprendere gli sviluppi della situazione, Alessio segnalò: «Una luce...» Poco dopo, sussurrò all'amico: «Abbassa la voce!»
Michele si adeguò. «Posso vede' anch'io?»
«No, non c'entriamo.»
«P-Pensi che sia lui?»
«Shh!»

Un bagliore bianco e vago, dalla forma circolare, si andò a insinuare nei meandri di quel buio sotterraneo.
Malgrado non ancora chiaritane la fonte, ad Alessio fu sufficiente osservare quel bagliore incrementare perché un sorriso sadico si delineasse sul suo volto.
Il tesoro sembrava vicino.
Giratosi a metà, comandò: «Dammi la cosa.»
«Questa?!» Michele tirò fuori la fionda in legno dalla tasca dei pantaloni.
«Dai!!!» si alterò Alessio pur senza gridare, strappandogliela dalle mani. «Che altro, sennò?! L'abbiamo comprata apposta!»
«Hai ragione, è che—»
«Zitto. Guardati mo' che faccio.»
Nel frattempo, la luce proveniente dal basso andò sempre più incrementando. Assieme a lei, anche i primi passi vennero uditi.
Alessio si voltò di nuovo, per condividere la malignità di un sorriso con Michele che, come rinfrancato, ne restituì uno in tutto e per tutto identico.
Entrambi furono dunque pronti a godersi la scena del sasso che centrava in pieno l'obiettivo. L'aveva raccolto Alessio poco prima, attratto dalla dimensione pari a quella di un'arancia. E chissenefrega se l'impatto gli avrebbe lasciato il segno. L'ennesimo.
All'improvviso, però, la luce svanì, e il buio tornò a dominare su quell'entrata che, unitamente al sottofondo dei lenti e cavernosi passi ancora presenti, i quali sembravano frantumare minuscoli ciottoli, assunse più le sembianze di un bieco anfratto.
«Che-Che succede...?» balbettò Michele.
Già quasi caricata per intero la cordicella, un Alessio ora turbato allentò la presa e abbassò la fionda. «Non lo so...»
Poco dopo, i passi cessarono, e l'ambiente ripiombò in un silenzio rotto soltanto dal volo di una cornacchia, il cui gracchiare fece sobbalzare i due.
«Ma-Madonna santa...!» Michele, mano sul cuore, stava per chiedere all'amico di rinunciare.
Ma un altro verso ben più insolito, simile a un urlo inibito, li raggiunse dalle profondità dell'anfratto, facendone tremare le viscere.
«Hai sentito...?» domandò Alessio, la cui baldanza sembrò un ricordo. Spontaneo, era perfino indietreggiato di qualche centimetro, portando anche Michele a farlo.
Ma una forza sinistra, ossessionata dal desiderio per un divertimento insano, lo spinse a non desistere da quanto programmato.
Preso dal panico, Michele, visto l'amico fermarsi, obiettò ad alta voce: «No! Andiamocene!»
Tuttavia, l'ostinato Alessio dinegò con il capo, preferendo continuare a sfidare sia il buonsenso che la sorte. Ricaricata in fretta e furia la fionda, fu dunque in procinto di utilizzarla, quando l'ennesimo rumore lo costrinse a interrompersi di nuovo.
Un rumore più prossimo del precedente, ma non ascrivibile a nulla di umano, bensì al verso rauco di... un animale?
I due impietrirono.
Da quell'entrata irruppe poi una mano. Il suo proprietario era stato fulmineo a salire le scale, anche approfittando del turbamento dei due undicenni.
Alessio era riuscito a notarla solo all'ultimo, e ora se la ritrovava attorno al collo. E stringeva, stringeva dannatamente.
Sollevato da terra, il giovane perse la fionda.
Alessio cercò di scrollarsi l'arto peloso di dosso, ma la pressione immessa fu tale che la sua faccia diventò presto paonazza, e le sclere vennero invase da mille diramazioni di capillari zigzaganti come fulmini; anche il fiato gli mancò, ragion per cui non poté gridare aiuto.
Michele, frattanto, scosso dall'inaspettato attacco, nonché da simile dimostrazione di potenza, era indietreggiato ulteriormente – a quattro zampe come un cane. Non era però riuscito ad andare oltre che di un misero metro, poi cadendo nel fango nel tentativo di tornare in piedi. La paura si era impadronita di lui, bloccandone la fuga e accelerandone i battiti del cuore su cui aveva tenuto la mano, che quasi gli sembrò scoppiare.
Ancor più dal momento in cui, favorito dalla luce della lanterna nel pugno dell'aggressore, si focalizzò sull'unica parte ben visibile del suo corpo: quella mano molesta, ovvero, che distinse ricolma di picchi verdoni dalla forma e spaziatura che gli venne di paragonare ai calanchi di Atri di recente visitati con la famiglia, constatando invece trattarsi delle sue vene.
Sgomento, provò a riflettere se non fossero la conseguenza di quanto stesse facendo, o di una condizione per lui perpetua.
Lo avrebbe scoperto entro breve, quando quel pazzo mollò la presa dall'amico, lasciandolo precipitare incurante.
Poté così scorgere le tante linee di sangue caldo spiovere dal collo di Alessio, similmente alle gocce di sudore imperlanti la propria fronte.
Di conseguenza, Michele tornò rivolgere l'attenzione verso la mano responsabile del fatto; verso le unghie, nello specifico, più lunghe rispetto all'ordinario.
Chiunque si celasse nell'oscurità se ne stava lì fermo senza proferire parola o movimento, rendendo impossibile non solo per lui, ma per chiunque riconoscerlo.
Eppure, Michele credeva di aver capito di chi si trattasse, oltre alla certezza lo stesse osservando. Per questo si sentì mancare, fino a svenire poco più tardi.

Mauro Pergolini

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