
Dopo la battaglia.
Roma, 295 a C.
Quinto Fabio Rulliano osservava la porta Carmentalis. Aveva gli occhi pieni di lacrime mentre immaginava i suoi avi che la attraversavano per andare a combattere gli Etruschi nella battaglia del Cremera1. Lungo quel fiume i nemici di Veio avevano teso un'imboscata e più di trecento appartenenti alla sua stirpe furono massacrati. Da allora, la porta a Roma fu rinominata Scellerata, in ricordo del funesto giorno in cui la viltà ebbe la meglio sugli eroi. Rulliano volse lo sguardo intorno a sé: dall'altura del Campidoglio riusciva a scorgere i festeggiamenti in città, le folle avevano intasato le strade, i devoti avevano riempito i templi, i sacerdoti offrivano sacrifici agli dèi per ringraziarli di aver concesso ai Romani la vittoria sui nemici. Ma lui preferì starsene in disparte: non riusciva a gioire per il trionfo di Sentino2, in cuor suo qualcosa lo turbava e intristiva il suo animo. Il pensiero andò all'altro console, Publio Decio Mure, caduto valorosamente sul campo della battaglia dopo aver invocato la devotio. La tristezza che gli procurava il ricordo di quel valoroso soldato era almeno pari alla rabbia cieca che emergeva in lui quando pensava che gli Etruschi l'avevano fatta franca. La loro strategia di allontanarli dal campo attaccando Clavis3 si era rivelata vincente, le legioni dovettero fronteggiare solo Celti, Sanniti e Umbri e l'aver sottratto forze importanti all'alleanza nemica gli aveva permesso di sbaragliare via le forze residue. Solo allora, a battaglia terminata, stava realizzando che avrebbe preferito di gran lunga che gli odiati nemici fossero presenti. Avrebbe anche barattato la vittoria e messo in pericolo il futuro di Roma, avrebbe sacrificato la sua stessa vita come aveva fatto Mure pur di avere l'onore e il piacere di massacrare il maggior numero possibile di Etruschi con le sue stesse mani prima di perire. Mentre formulava questo pensiero vide le schiere dei suoi antenati che si voltavano verso di lui e lo guardavano con aria di rimprovero. “Che ci fai ancora tra i vivi?” sembravano dirgli gli occhi dei morti, “perché non sei con noi a muovere verso l'Averno?” “Perdonatemi” pianse Rulliano, “non sono degno del nome che porto. Ho segnato il mio destino con l'infamia. Sono tornato a casa vivo, ho salvato la città. Ma a quale prezzo?” Si interruppe, cadde in ginocchio. “A quale prezzo?” ripeté, mentre affondava le mani nella folta barba bianca e la tirava, come se volesse strapparsela. Il vento diffondeva nell'aria i canti di giubilo dei festanti che a Rulliano parvero severe e dure come orazioni funebri. Il sole lambiva la sommità dei colli, iniziando a togliere un po' di luce su Roma e sul mondo. Da lontano gli giunse all'orecchio il rumore di cavalli al trotto. Vide una schiera di cavalieri che risaliva l'altura. Quando lo raggiunse si fermò in maniera ordinata di fronte a lui mentre Rulliano si rimetteva in piedi e riacquistava la sua compostezza. Salutò uno dei cavalieri e attese. “Gloria a Roma” urlarono mentre scendevano dai loro destrieri. “Un atteggiamento così schivo non si addice a un vittorioso, Rulliano” lo ammonì il più anziano del reparto. “In città tutti chiedono di te.” “La vittoria è di Mure. Che rimanga a lui tutta la gloria”, ribatté Rulliano. “La vittoria è di Roma. E dei due valorosi consoli che hanno condotto le legioni con saggezza, coraggio e forza, fino a sgominare i nemici.” Il cavaliere indicò con la mano una fila di uomini che scendeva dal Quirinale e costeggiava il Campidoglio. I prigionieri erano incatenati e si trascinavano a fatica lungo la strada che conduceva alle carceri. Nonostante la lontananza Rulliano poteva scorgere lo sconforto, la disperazione e la rabbia dei vinti, guerrieri fatti prigionieri al termine della battaglia che aveva visto il trionfo di Roma. I legionari che li scortavano ogni tanto percuotevano alcuni prigionieri con verghe e bastoni, costringendoli ad inginocchiarsi o a ruzzolare nella polvere. Le insegne nemiche erano ben visibili sul carro che apriva la fila, su cui i Romani avevano raccolto il bottino di guerra. Insegne sannite, celtiche... ed etrusche. Rulliano trasalì. Strizzò gli occhi per lo stupore poi socchiuse le palpebre per rendere più acuta la vista. In un angolo del carro vi era un'asta di legno con in cima un drappo e ancora più in alto la statua di un leopardo. Spostò lo sguardo sui prigionieri e notò, tra gruppi di uomini biondi, alti e robusti, e un altro nutrito gruppo di prigionieri barbuti con la pelle arsa dal sole, una minuscola schiera di uomini dai capelli ricci; la carnagione olivastra e gli occhi affusolati tipici delle popolazioni dell'Oriente erano un tratto inconfondibile: si trattava senz'altro di Etruschi. “Ammira, Rulliano, i prigionieri delle popolazioni sottomesse a Roma” il cavaliere allargò le braccia come se volesse lambire con le dita gli uomini che si dimenavano in lontananza verso il loro triste destino, “davanti ai tuoi occhi stanno sfilando i popoli che hanno avuto l'arroganza di sfidarci: Sanniti, Celti, Umbri ed Etruschi...” “Gli Etruschi non hanno preso parte alla battaglia, da dove provengono questi prigionieri?” chiese Rulliano mentre continuava a strabuzzare gli occhi. Il cavaliere rise e scosse la testa, divertito. “Non ci crederai... a battaglia terminata, un piccolo gruppo composto da un paio di dozzine di guerrieri si è lanciato all'attacco del fianco sinistro del nostro esercito. Due dozzine contro diecimila! Follia!” “Impavidità” lo corresse Rulliano. Il tono pacato della sua voce restituiva il senso di ammirazione che quel racconto gli aveva procurato. “Chiunque preferisca la morte ad una sconfitta ignominiosa merita il mio rispetto” fece una pausa, digrignò i denti. “Anche se si tratta degli Etruschi.” Il cavaliere scrollò le spalle. “Potrai riportare la tua ammirazione al loro capo durante un interrogatorio, se vuoi. Tra di loro pare che ci sia anche il comandante supremo dell'armata etrusca. Come lo chiamano? Zilath mexl Rasnal? Non conosco bene la loro lingua...” “Capisco” annuì Rulliano. Dentro di sé sorrise. Gli occhi gli fiammeggiavano e un ghigno crudele gli deformò il volto. Gli déi gli erano favorevoli, avevano ascoltato il suo dolore e gli stavano dando la possibilità di placare la sua sete di vendetta. “Non è cortese fare attendere a lungo una simile autorità. Andiamo a fargli visita, allora. Come hai detto che si chiama il comandante?” “Non l'ho detto. Se non ricordo male, il suo nome è Aker. Aker Perkna.”
Il peso della sconfitta
La notte si era fusa col giorno. Ebbri per la vittoria, i Romani avevano atteso l'alba tra banchetti, giochi, canti e balli. Alle prime luci dell'alba un silenzio irreale piombò sulla città come se i raggi del sole si fossero abbattuti su quella porzione di mondo con la forza di una pesante scure. Una luce rosso sangue coprì le terre bagnate dalle lacrime dei vincitori e da quelle degli sconfitti che per motivi diversi avevano perso il ritegno nell'esprimere le proprie emozioni. In maniera ordinata piccoli gruppi cominciarono ad affluire davanti al tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Quando lo spiazzo fu pieno cominciarono ad affluire dalle carceri i prigionieri. La folla si diradò al loro passaggio disponendosi in due file ordinate. Gli uomini incatenati, feriti, sudici, annientati nel corpo e nell'anima passarono nel mezzo tra le file e divennero oggetto di scherno ad opera dei cittadini romani che si accanirono principalmente sui Sanniti: il fato beffardo in quell'occasione aveva sovvertito le sorti, concedendo la rivalsa ai Romani per l'umiliazione subita dai Sanniti alle Forche Caudine. Calci, sputi, insulti, bastonate accompagnarono la macabra cerimonia di reietti che risalivano il Campidoglio. Giunti davanti al frontone del tempio i prigionieri arrestarono la marcia, alcuni caddero in ginocchio stremati, qualcuno implorava di avere un sorso d'acqua, altri, sopraffatti dal disonore per la sconfitta o temendo per la loro sorte, si fracassarono il cranio con le pesanti catene che gli bloccavano i polsi rovinando al suolo e ricoprendo le proprie membra con il loro stesso sangue. L'aria era piena di rumori tra urla, risate, lamenti e imprecazioni quando il silenzio tornò a regnare, accompagnato da una leggera brezza che portò via i suoni e sollevò i lembi della tunica e del mantello della figura che fuoriusciva dall'antro del tempio. “Gloria a Roma” urlò Rulliano mentre attraversava le colonne e scendeva i gradini, “gli dèi ci hanno concesso la vittoria. Romani! Siate fieri! I nostri avi ci guardano, i nostri fratelli morti sul campo di battaglia annuiscono e sono partecipi della nostra gioia nel vedere che la città è salva; è prospera; è forte.” Un pianto collettivo scosse la folla radunata, lacrime solcarono i visi di legionari, donne, vecchi e infanti. Rulliano annuì e cercò lo sguardo complice dei suoi uomini che, alle spalle dei prigionieri, lo guardavano ammirati. “Ecco davanti a voi i nemici sconfitti” Rulliano gettò uno sguardo feroce in direzione dei prigionieri “coloro che hanno osato sfidare Roma si rotolano ora nella polvere, vinti dalla loro stessa superbia che gli ha fatto credere di poter sopraffare il nostro popolo.” Quelle parole parvero aizzare la folla che rumoreggiò sempre più forte e tentò di scagliarsi sui prigionieri per farne scempio. “Per Ercole! Cittadini di Roma, fermi! Non è questa la giustizia di cui ci possiamo dir fieri. Lasciate che la mano dei sacerdoti renda sacri questi corpi, immolandoli a Giove per ringraziarlo della vittoria concessa.” Alle spalle di Rulliano comparvero le candide figure dei sacerdoti del tempio. Composti e impassibili come statue, attendevano il corso degli eventi. “Le nostre truppe hanno fatto ben ottomila prigionieri tra i nemici. Di fronte a voi ce n'è solo una minima parte, dunque. Abbiamo scelto cavalieri, comandanti e guerrieri di prim'ordine da immolare sul sacro altare. Tutti gli altri verranno rispediti nelle loro terre in cambio di un riscatto o ceduti come schiavi.” Gli occhi di Rulliano caddero sul gruppo di Etruschi prigionieri. Il suo sguardo si fermò a lungo su uno di loro, parve studiarlo con un misto di ostilità e curiosità. Avanzò verso l'uomo che, in ginocchio, ansimava tenendo il mento poggiato al petto. Gli afferrò la folta chioma riccioluta e sollevò la sua testa. Il viso era una maschera di sangue che gli colava sul collo e imbrattava le lacere vesti che a stento ricoprivano il suo corpo martoriato. “Salute a te Aker Perkna, zilath mexl rasnal delle armate etrusche.” Le pupille di Aker brillarono di una ritrovata vitalità. “Parli la mia lingua?” chiese quando realizzò che Rulliano gli aveva parlato in etrusco. “Appartengo ai Fabii. Ti dice niente questo nome?” “Tu...tu sei... Quinto Fabio Rulliano.” Aker ansimò e parve svenire per lo sforzo. “Se sai chi sono, hai anche capito che a breve rimpiangerai di non essere morto sul campo di battaglia.” La ferocia nei suoi occhi fece tremare il cuore dell'Etrusco. Aker l'intrepido, Aker il fermo, Aker l'impavido non riuscì a rimanere impassibile davanti a tale esplosione di odio. Le braci infuocate che parevano pupille si rivolsero nuovamente verso la folla. “Costui è il comandante delle truppe etrusche! In quanto tale non è degno di rappresentare un'offerta agli dèi, le sue membra marce e il suo sangue impuro verrebbero visti come un'offesa. E non merita nemmeno di tornare tra la sua gente, dove potrebbe riorganizzare un esercito e tornare a minacciare Roma. Per questo motivo ho deciso di prenderlo come schiavo senza possibilità di affrancamento. Egli terminerà i suoi giorni servendo me, Quinto Fabio Rulliano, console di Roma, vittorioso con Publio Decio Mure su Galli, Sanniti, Umbri ed Etruschi. Qualcuno ha da obiettare contro questa mia decisione?” Un prigioniero etrusco, divincolatosi, strisciò velocemente verso Rulliano ed Aker. “Prendi anche me come schiavo, console. Non mi separerò dal mio padrone.” “Vel, smett...!” lo redarguì Aker. Le sue parole vennero mozzate dall'intervento dei littori che bastonarono Vel con veemenza. Una mazzata colpì in pieno viso l'uomo, il rosso del sangue gorgogliò dalla sua bocca insieme al candido dei denti che andò a confondersi con i ciottoli riversi lungo la strada. “Rulliano, ti supplico, fermali! Fermali o lo ammazzeranno!” Aker osservava terrorizzato la scena dei littori che insistevano sul corpo inerme di Vel con le loro pesanti verghe. Il rumore delle percosse si univa a quello delle ossa spezzate e alle urla d'incitazione dei cittadini che osservavano divertiti la scena. “Dunque quest'uomo ti è caro. Cosa sei disposto a darmi in cambio se gli salvo la vita?” chiese Rulliano, sibilino. Aker deglutì. “Se è la mia vita che vuoi, prendila pure. In cambio, risparmia la sua. Mandalo a casa in cambio di un riscatto poi potrai fare di me ciò che vuoi. Immolami su un altare, seppelliscimi vivo in una buca, non mi importa...” Aker trattenne a stento le lacrime poi abbassò la testa, rassegnato e arreso. “Non m'importa” ripeté, stavolta con voce più ferma. “Mi stai offrendo qualcosa che già possiedo, Aker Perkna. La tua vita è già nelle mie mani, potrei schiacciarti come un insetto in qualunque momento. Cosa puoi darmi di più rispetto a ciò che già ho?” “In questo momento non ho altro che la mia stessa vita da offrire. Rimandami nelle mie terre e potrò darti denaro, armi, libagioni... tutto ciò che chiedi ti sarà dato.” Rulliano rise sprezzante. “Bel tentativo, Aker Perkna. Non credere di poter comprare la tua libertà.” Sollevò un braccio per arrestare la furia dei littori che intanto avevano massacrato il povero Vel. Poi si portò una mano al mento e osservò Aker, pensieroso. “Forse c'è qualcosa che puoi fare, in effetti.”
Arsenio Siani
|