
Ennio, 13 aprile 2020.
La moka del mattino non era solo abitudine. Era disciplina. Un rito che Ennio rispettava come una legge non scritta. Acqua fino alla valvola, mai oltre. Il cucchiaino lungo e sottile per pressare la polvere. Fiamma al minimo, manico a destra. Come sempre. Come quando la vita sembrava avere un ordine, almeno apparente. Attendeva il caffè senza muoversi. In piedi, in cucina, con la schiena leggermente curva e le mani in tasca. Un tempo si lavava i denti di corsa, infilava i jeans, caricava la lavatrice. Ora no. Ora aspettava. Si avvicinò alla finestra. Trieste era sferzata. La città che di solito brontolava sottovoce, quella mattina gridava. La bora scuoteva le tapparelle, fischiava nelle fessure, sbatteva le imposte come pugni su una porta chiusa. Anche il mare — che dalla finestra si intuiva più che vedere — sembrava impazzito. Una distesa livida, tagliata da strisce di schiuma bianca, che si infrangeva sulle banchine. Il lockdown aveva cancellato i rumori di fondo, ma non poteva nulla contro la bora. E forse era meglio così. Almeno il silenzio non faceva troppo rumore. Si sentiva, nitido, il lamento metallico di una grondaia. Qualcosa cadeva da un balcone: un vaso, forse. E sopra tutto, il vento, continuo, rabbioso. Poi, finalmente, il suono caldo della moka che borbottava in cucina. Ennio si versò il caffè. Un sorso amaro. Forte. Come piaceva a lui. Aprì il portatile. Le notizie erano sempre le stesse: contagi, chiusure, statistiche. Poi i volti sempre uguali dei virologi, e gli allarmi sugli ospedali al collasso. Ma Ennio aveva altro per la testa: le pillole erano finite. Le aveva razionate finché aveva potuto. Mezza al giorno, poi un quarto. Poi basta. E adesso dormiva male. Si svegliava di notte con il cuore che batteva a vuoto. I pensieri erano solo un ronzio costante, come una radio sintonizzata sul nulla. Johnny aveva promesso. Lui sapeva sempre dove trovare le pastiglie, anche durante il lockdown. Bastava tempo. E denaro. L'ultima dose l'aveva presa tre giorni prima. Dopo, solo mal di testa, insonnia e un'ansia che non gli lasciava tregua. La pelle tirava, il respiro diventava corto. A volte gli tremavano le mani senza motivo. Lavori? Pochi. Quasi nulla. L'ultimo incarico serio risaliva a febbraio: un marito sospettoso convinto che la moglie lo tradisse in palestra. Poi era arrivato il virus, il decreto, le autocertificazioni. Le palestre avevano chiuso, i tradimenti pure. Ora gli scrivevano solo paranoici: uno sospettava che la moglie fosse una spia del Partito Comunista Cinese, un altro credeva che il cuoco del sushi diffondesse il virus col pesce. Ennio li ascoltava per cortesia, ma poi lasciava perdere. Non era ancora ridotto a lavorare per i complottisti. La pensione da poliziotto bastava appena. E solo se non considerava le pillole. Ma Ennio non era tipo da piagnistei. Se la sarebbe cavata. In un modo o nell'altro. Lo aveva sempre fatto. Tornò in cucina, appoggiò la tazzina nel lavello e guardò il calendario. Un quadratino rosso segnava la giornata: 13 aprile. Il giorno in cui tutto era cambiato, ormai erano passati 4 anni. Ma il corpo, certe cose, non le dimentica. Soffiò piano sul vetro della finestra appannata e tracciò con l'indice un punto, poi una linea. Una croce. Era un segno che faceva da ragazzo, ogni volta che sentiva che stava per succedere qualcosa. Lo faceva anche prima di un arresto, o di un interrogatorio difficile. Solo che adesso, a far paura, non erano più i criminali. Era
Sara, 14 aprile 2020
— Mamma, non si connette! È tutto bloccato! — Nicola, pensaci tu per favore... sono distrutta. Devo dormire. — Un attimo, sono in call... e ho anche Elena in braccio. — Vi muovete o arrivo tardi! Già non si capisce niente di quello che spiega la De Carli! — Tommaso, non si parla così ai tuoi genitori. — Va bene, va bene, vado io... In ogni caso, Sara non avrebbe dormito. E non per i rumori della casa: i passi di Tommaso, le notifiche di Nicola, il pianto di Elena. Quei suoni, anzi, la radicavano in qualcosa di vivo e tangibile. Si alzò lentamente dal letto. Lo sguardo cadde sulla fotografia sul comodino. Un compleanno: sorrisi rigidi, torta alla panna. Prima era lì solo per dovere; la cornice d'argento, regalo della madre, non le era mai piaciuta. Adesso quella foto era un magnete. Un'ossessione. Si chiese se sua madre avrebbe mai rivisto quella cornice. Se sarebbe uscita viva da quella stanza d'ospedale. Eppure, Sara lo sapeva: non era la madre la vera ragione per cui non riusciva a staccare gli occhi da quella foto. Era Marta. Marta che non compariva quasi mai perché stava sempre dietro l'obiettivo. Ma anche quando non c'era, si sentiva. Come un riflesso sul vetro, un'ombra che riempiva lo sfondo. — Tommy, tesoro, devi selezionare la rete Wi-Fi corretta. Ricordatelo la prossima volta. In quell'istante, Elena ricominciò a piangere. Un pianto acuto, spezzato: fame, non capriccio. Sara guardò l'orologio: 8:32. Prevedibile. Il biberon non si sarebbe preparato da solo. Passando accanto al terrazzo, sollevò un lembo della tenda. Fuori, Trieste sembrava addormentata. La luce obliqua sui palazzi spenti, il cielo lattiginoso. Sulla collina, San Giusto immobile. In attesa. Sara si muoveva in uno stato di sospensione: città vuota, lockdown, la madre in ospedale. Soprattutto quel peso silenzioso che la schiacciava. Nicola entrò in cucina con la piccola in braccio, ormai smaniosa. Le porse il latte con un sorriso stanco. — Vuoi che faccia io? — No, tranquillo. Fammi almeno sentire utile in questa casa. Nicola abbozzò un sorriso. Era esausto quanto lei, eppure teneva insieme tutto. Sara gliene era grata. Forse non glielo diceva abbastanza. Il giorno prima era rimasto con lei quando avevano ricevuto la telefonata. Una di quelle che ti tolgono l'aria. Sara era rimasta immobile per ore, lo sguardo nel vuoto. Nicola non aveva fatto domande. Aveva preso in mano i bambini, la casa, la cena. Le aveva lasciato silenzio e spazio. Ogni gesto diceva: ci penso io. Tu respira. Tommaso tornò in cucina col tablet. — Funziona. Grazie, mamma. Sara lo baciò sulla fronte. Con appena un'ora di sonno nelle ultime ventiquattro, due certezze riuscivano a farsi strada: - Il lockdown da genitori era un incubo. - Doveva scoprire la verità su sua sorella. Il Wi-Fi si aggiustava. Il biberon si scaldava. Ma quell'angoscia, no. Quella non se ne sarebbe andata. Non finché Marta non avesse avuto giustizia.
I Radovich, Un mese prima: marzo 2020
— Marta, finalmente! Hai fatto tardi anche stasera. — Per favore Sergio, non ricominciare, lo so. È stato un turno complicato. — Sempre complicato, eh. — Una signora albanese, si chiama Ardita, era al primo figlio. Ha cominciato a piangere nel corridoio, pensava che la bambina stesse morendo. Ci abbiamo messo tre persone per calmarla. — Mh. Guarda caso, ogni volta che fai tardi è successo qualcosa di eccezionale. — E tu fai sempre la stessa battuta. Senti, davvero, non ce la faccio. È tutto rallentato: i tamponi, le visite, la sanificazione. Non abbiamo più margine, nemmeno per respirare. — Be', adesso avete la scusa perfetta. Il pacchetto completo. Emergenza, pandemia, burocrazia. — Non è una scusa, Sergio. È la realtà. Siamo dentro una roba che nessuno capisce. Ogni giorno cambiano le regole. Arrivano pazienti senza mascherina, partorienti che si rifiutano di fare il tampone... e noi lì, a spiegare, a calmarle. — Ok, ok. Ho capito. Ora ti riposi? — Sì, mi sdraio un attimo. Non ho ancora tolto nemmeno le scarpe. Ho dormito due ore, forse tre. — Pensavo che stasera si cenava insieme, magari. Solo per cambiare. — Non ho la testa, scusami. E poi c'è anche mia madre. — Ancora? — L'hanno ricoverata oggi. Positiva. Saturazione bassa. È finita in terapia sub-intensiva. — Ah. — Ho provato ad avvicinarmi al reparto. Speravo di vederla almeno da lontano. Ma non ci fanno entrare. — Nemmeno voi, infermiere? — Ostetriche. E comunque no. È tutto blindato, porte sigillate, visiere... sembrava irreale. — Eh. Che bella gratitudine. Fate i turni massacranti, rischiate ogni giorno... e non potete nemmeno salutare vostra madre. — Era sola. Non aveva nemmeno la coperta da casa. Non potevo fare niente. — E invece scommetto che qualcuna delle tue colleghe più furbe riesce a far passare qualcosa... ma tu, ligia al dovere... — È una questione di sicurezza. Ci sono neonati, donne fragili. — Sì sì, certo. C'è sempre un buon motivo per tutto. Però, giusto per dire: il marito di Silvia la settimana scorsa ha saltato tutta la fila per una risonanza. — Silvia ha i suoi giri. — E io non riesco neanche ad avere una tachipirina senza fare la coda. — Scusa, che dovrei fare? Chiedere un tappeto rosso per Sergio Radovich? — Uno zerbino mi basterebbe. — Sei serio? — Non del tutto. — Meno male. Perché oggi non ho nemmeno la forza di litigare. (pausa) — Senti... ti ricordi che domani ho il doppio turno? Chiara è in quarantena. Devo coprire anche la notte. — Non me l'hai mai detto. Con me non parli. Forse l'hai detto a Nicola. — (sottovoce) Eh... forse perché Nicola ascolta. — Cosa? — Niente. — No, hai detto qualcosa. — Lascia perdere. Non è importante. (si alza) — Vado a riposare. Solo mezz'ora, giuro. — Ti sveglio io per la cena. (pausa) — Prova almeno a svegliarti col sorriso, se riesci. — Provo anche quello.
I. F. Riva
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