Writer Officina - Biblioteca

Autore: Rocco Luccisano
Il cunicolo dei morti
Thriller psicologico
Lettori 131 2 2
Il cunicolo dei morti

Il suono dei guantoni.

San Mauro, hinterland napoletano, 8 novembre 2013, ore 3:10

Il suono dei guantoni che colpivano la mascella dell'avversario riecheggiava in tutta la guardiola. Sulla piccola televisione a tubo catodico, volume al massimo, due pugili nel mezzo del ring si menavano di santa ragione in un incontro tra pesi massimi, sotto lo sguardo attento di due dei tre custodi del deposito della SE-CURTRUST VIGILANZA & VALORI, in servizio quella notte.
Salvatore, quello col pancione, addentava il panino con la provola che si era appena preparato, seduto su uno scomodo sedile in cui il sedere mezzo scoperto entrava a forza tra i due braccioli.
Beppe, sbracato sulla poltroncina un metro più in-dietro, un occhio sul piccolo schermo e l'altro sulla disgustosa piega dei glutei del collega, non smetteva di alzare il gomito. Si stava scolando la terza Moretti della scorta che aveva fatto quella sera e aveva in mente di continuare così fino a fine turno, alle otto del mattino. Il pastore tedesco sonnecchiava col muso a terra, accostato alla cassa di birre.
La terza guardia, Max, poco più che ventenne, se ne stava invece per i fatti suoi. Vagava avanti e indietro, con le cuffiette alle orecchie, davanti ai mezzi portavoli parcheggiati nel piazzale del deposito che quella notte custodiva un patrimonio di quasi quaranta milioni tra contanti e oro. Sorrideva mentre mandava sticker su WhatsApp alla fidanzata in videochiamata, lontano dall'ufficietto dove gli altri due si azzuffavano a parole.
«Ma va'! Non dire cazzate, Salva! Guarda come ci dà, l'algerino.»
«Ecco, smerdato! Visto che sinistro, Gamboa? Scommetti venti euro che l'algerino finisce al tappeto al prossimo round?» azzardò il pancione dopo aver az-zannato il panino.
«E io ti dico che regge. Quello c'ha la mandibola di cemento, lo chiamano 'o Pilastro al suo Paese e...» Beppe s'interruppe e si guardò attorno, e poi verso l'esterno.
«Naaa... che dici, Peppì? Non te ne capisci nu cazz', u cubbano è imbattibile.»
«Ehi, Peppì! M'ascolti?» Salvatore si era appena accorto che Beppe non seguiva più il match, ma osservava attraverso la finestrella. «Che c'è, Peppì? Cerchi u guaglio' nnamurratu?»
«Non hai sentito qualcosa?» Il tono gli si era fatto serio.
«Cosa?»
«Ho sentito tremare.»
«Sarà una delle solite scosse dai Campi Flegrei. Non ti sei ancora abituato?»
In quel momento anche la sedia e la pancia di Salva-tore presero a tremare. Distolse lo sguardo dalla TV e fissò per un attimo il pavimento.
«Hai sentito anche tu un rumore, Salvato'?»
«Sarà il tubo del riscaldamento che vibra.»
Si rimisero a seguire l'incontro di pugilato.
Dopo una manciata di secondi, un tonfo sordo, pro-fondo, sembrò provenire dalle viscere della Terra, come se questa avesse tossito. Le sedie sobbalzarono. La TV sfarfallò per qualche istante, poi perse il segnale e il mobiletto su cui era poggiata iniziò a vibrare.
Max cadde al suolo mentre correva verso di loro.
Beppe balzò in piedi e poggiò la bottiglia sul pavimento, mentre la televisione aveva perso il segnale e vibrava.
«Ma che cazzo...?» Salvatore, ancora con mezzo pa-nino in mano, sentì il culo sollevarsi. La birra di Beppe rotolò. Il gabbiotto si riempì di una nuvola di gas e fumo che tolse il respiro ai due malcapitati. Fumogeni e lacrimogeni.
Infine, un boato ancora più forte li assordò. Il pavimento sotto i loro piedi iniziò a sollevarsi e la corrente elettrica s'interruppe. Tutt'attorno si fece buio. Poco dopo, le tre guardie persero conoscenza.

Quella sera non era

Periferia di Napoli, 7 novembre 2013, cinque ore prima

Quella sera non era stata scelta a caso, ma non per il fatto che la luna fosse invisibile. Quello era solo un vantaggio collaterale.
Tra le lamiere e i muri del decrepito capannone abbandonato, il vento picchiava e ululava con una tale violenza come non si vedeva da anni. Un'unica navata di quaranta metri per quindici, col tetto, ricoperto di muschio, alto più di dodici. Le poche grondaie arrugginite che avevano resistito alle intemperie si erano trasformate in fioriere piene di erbacce. Pertinenza della contigua caserma, si trattava di un sito militare smantellato dopo la Seconda guerra mondiale e di cui non restavano che mura fatiscenti. Un'area demaniale affi-data al Comune che invece di riqualificarla, l'aveva ridotta definitivamente in malora. Dimenticata da decenni da quest'ultimo, dallo Stato, da tutti. O quasi.
Al suo interno, diciannove occhi risplendevano come coltelli tra fuliggine, caligine e fumo di sigari. Occhi appartenenti a dieci uomini armati di pistole e coltelli. Volti seminascosti dalla penombra o tagliati da ombre create dall'unica fonte di luce, una lampada elettrica posta al centro del tavolone su cui erano poggiate mappe, carte geografiche e la planimetria di un deposito segnata da frecce rosse e cerchi neri.
Attorno a esso, chi se ne stava seduto su casse di legno, chi era chino, con i gomiti appoggiati sulle carte. Uno stava addossato a un pilastro, le braccia conserte. Qualcuno indossava guanti da meccanico, altri in lattice, altri con il berretto calcato sulla fronte e un paio fumavano facendo attenzione a non gettare cicche per terra. Tutti vestiti rigorosamente di nero, pantaloni cargo, giubbotti tattici e anfibi. Solo uno parlava, il leader, meglio conosciuto come l'Architetto. Così soprannominato per la sua capacità di progettare tutto nei minimi dettagli e perché si diceva che andasse sempre con appresso una piantina di cui studiare i punti deboli per il colpo successivo. Lo stesso che all'epoca della sua interrotta carriera militare era nominato il Serpente, o Snake head, all'estero. Per i suoi occhi troppo distanti uno dall'altro che, insieme alla conformazione a punta del cranio, ricordavano la testa di un rettile.
Gli altri ascoltavano in silenzio. Un silenzio disturbato a tratti dal gracchiare intermittente di una radio scanner usata per intercettare le comunicazioni delle forze dell'ordine. In sottofondo, il sordo e ritmato rumore dei colpi di un pezzo di grondaia penzolante che sbatteva contro una finestra mezza sfondata, a oltre otto metri d'altezza. Un tamburo che scandiva l'attesa. L'aria che sapeva di muffa e tensione.
La voce del capo, ex militare veterano dell'esercito italiano, era perentoria ma il volume basso come se l'istinto gli dicesse di fare attenzione a non farsi sentire dall'esterno. Sebbene, fuori, due sentinelle, anch'esse armate fino ai denti, erano appostate sui lati corti della struttura. Era l'unico della banda che per questioni anagrafiche, e non solo, aveva avuto “l'onore” di varcare il perimetro di quelle stesse caserme quando ancora erano in attività. Italiano come metà della squadra; per il resto si trattava di albanesi e ceceni. Trovarsi lì in quel momento, calpestare con gli anfibi vecchi ricordi e rancori di un tempo lontano ma intenso, gli iniettava un'energia che lo ringiovaniva di altri dieci anni. Spa-droneggiava in piedi in tutto il suo metro e novanta di discreta salute, la postura ferma che tradiva un addestramento militare. Gesticolava con in mano un machete che usava a mo' di bacchetta per indicare sulle carte, intento a spiegare gli ultimi dettagli dell'operazione che avrebbe avuto inizio nella notte, cinque ore più tardi. Stava scandendo con misurata lentezza le ultime parole, quando un frastuono a pochi metri da loro lo interruppe.
Nessuno si mosse e nessuno fiatò, finché non compresero di cosa si trattasse. Una raffica più forte delle altre aveva appena fatto cadere a terra da una finestra uno dei pochi frammenti di una lastra di vetro sopravvissuta a decenni di incuria e abbandono.
«Come stabilito, il colpo si farà alle 3:10.» Lanciò un'occhiata al polso aiutandosi con il barlume di luce della lampada. «Sono le 22:50. Mancano quattro ore e venti minuti all'inizio delle operazioni.» Fece una pausa passando tutte le facce in rassegna. Si fissò sull'ultima. «I due furgoni sono già parcheggiati dove stabilito?»
«Affermativo, capo» fu la risposta dell'interpellato, il più robusto della squadra, centoventi chili di massa muscolare. «Anche il camion con la ruspa.»
«Le bande chiodate?» domandò rivolgendosi a quello appoggiato al pilastro, che staccò il sigaro infilato fra i denti.
«Aspettano solo il momento esatto per essere posate.»
«Bene. Ti avviserò io stesso quando il camion starà per passare.»
L'altro fece segno di okay col pollice e poi sputò per terra.
«Che cazzo fai?» s'inalberò il capo rivolgendo il ma-chete verso di lui. «Non dobbiamo lasciare nessuna cazzo di traccia e tu fai il lama, coglione.»
Senza fiatare, l'incolpato si limitò a fissare la punta scintillante dell'arma finché il leader non l'abbassò e a passare la suola sul pavimento ormai terroso, già contaminato da escrementi di topi, lucertole e residui organici di ogni tipo.
Il leader riprese con la stessa fermezza di poco prima: «I turni della vigilanza sono confermati. Nessun cambio pattuglia, solo tre uomini e un pastore tedesco più decrepito di loro. Ricordate sempre quello che vi ho insegnato... non è da temere un esercito di leoni guidato da una pecora, bensì un esercito di pecore guidato da un leone.»
Dopo aver terminato parafrasando le parole di Alessandro Magno, fece un cenno verso l'unico tracagnotto del team, una mano e un occhio in meno degli altri. Tra tutti, quello che più si addiceva a un personaggio uscito da un fumetto.
«Mister Dinamite... tutto pronto?»
L'uomo si tolse il berretto, mostrando un cranio pelato coperto di sudore e fuliggine. «I crateri li faccio io. Due cariche primarie e una di eventuale contenimento. La ruspa troverà la strada spianata alle 3 e 20 minuti. Se vi sbrigate, saremo dentro in meno di due minuti.» L'accento dell'est era più marcato rispetto agli altri. «Vero, Rubapreti? O preferisci essere chiamato col tuo nome?» Si girò verso il suo aiutante, il più giovane di tutti, Mirko Salvato, soprannominato fin da bambino a quel modo a causa dei suoi primi furtarelli, a inizio “carriera”, all'interno dei luoghi di culto. Un biondino ossigenato anonimo sui ventitré anni o giù di lì, dai capelli senza forma non più lunghi di cinque centimetri e occhi cerulei. Il ragazzo, con lo zaino pieno di detonatori e un marsupio contenente il telecomando che continuava a carezzare nervoso, annuì con gli occhi bassi come se avesse paura di incrociare quelli sbagliati.
«Be'» intervenne uno di quelli seduti sulla cassa di legno, la guancia sinistra attraversata da una vistosa cicatrice in diagonale e una bandana con la bandiera dei pirati in testa. «Se non ci riesce Mister Dinamite possiamo sempre usare il mio bazooka.» Seguì la sua risata secca.
«Non scherzare, pivellino» osò, pur temendo le mani giganti del compagno. «Il sottoscritto è conosciuto come il re dell'esplosivo.»
Il capo banda li ignorò senza neppure una smorfia, e tornò a osservare ancora una volta tutti, a uno a uno.
«Non c'è margine d'errore. Conoscete l'entità del bottino che ci aspetta. Ce n'è abbastanza per farci campare tutti come nababbi per il resto dei nostri giorni. Abbiamo i furgoni, camion, ruspa, ragno, escavatore, bande chiodate, i passaggi per l'autostrada, il piano di fuga, l'esplosivo e tutte le armi d'assalto che ci servono... e perfino un bazooka.» Fece una pausa. «Se tutto va come deve andare, domani mattina saremo tutti ricchi.» Un'altra interruzione. «Ma se anche uno solo fa casino, finiremo a pezzi su un marciapiede.»
Un altro colpo di vento. Qualcosa vibrò sul tetto come se stesse per cedere. Un topo attraversò il pavimento dietro una fila di taniche. Una nuova raffica. Si-lenzio.
«È la mia ultima operazione, non ho mai fallito e non voglio fallire proprio ora, per colpa vostra.»
Una pausa. Ancora silenzio, solo scambi di occhiate finché non fece irruzione uno dei due di guardia all'esterno. Senza fiato.
«Che succede, Freddy?» si precipitò a interrogarlo il leader mentre segatura e schegge di legno caddero sulla planimetria.
I suoi occhi neri erano spiritati, non proferiva parola, limitandosi a puntare l'indice verso l'alto. Tutti alzarono gli sguardi verso la trave che Freddy stava indicando e da cui si erano staccati i frammenti di legno. Su di essa notarono una famiglia di topi correre come se fuggissero. Al loro passaggio e sotto il loro peso la trave iniziò a cedere. Chi con un balzo all'indietro, chi di lato, riuscirono tutti a schivare appena in tempo l'asse che piombò prima sul bancone e poi ai piedi del leader, investito dalla nuvola di polvere e ceneri.
Mentre all'interno la caserma stava implodendo, Napoli e il suo hinterland dormivano vegliati dal Vesuvio, ignari che la notte stava per esplodere.

La sede di Napoli


Ore 3:00

La sede di Napoli e il deposito della SECURTRUST VIGILANZA & VALORI si trovavano in un'area periferica che con gli anni era stata trasformata in zona semi-industriale. A testimonianza che un tempo si trattava di un centro abitato piuttosto animato, un vecchio borgo pluricentenario dell'hinterland napoletano, era rimasto uno sparuto gruppo di case, alcune raccolte e altre un po' più discoste, di inizio e metà Novecento. Soprattutto l'oratorio di San Giovanni Bosco, a duecento metri, e il pertinenziale istituto scolastico gestito dalle suore salesiane Figlie di Maria Ausiliatrice, attiguo alla chiesa e dichiarato inagibile da anni.
Alle 3:11 il muro di cinta e la recinzione sul retro del deposito vibrarono sotto la potenza del braccio meccanico dell'escavatore e poi cedettero sgretolandosi e accartocciandosi l'uno sull'altra.
Dall'altra parte dello stabile, le tre guardie private si erano rese conto troppo tardi di essere sotto attacco, investite da una nuvola di fumogeni e lacrimogeni e sbatacchiate dal ragno meccanico che aveva sollevato la guardiola come un giocattolo. Scaraventati a terra, le sedie rovesciate, la parete dietro di loro che si apriva con un'esplosione secca e feroce. Salvatore sbatté con la tempia contro lo spigolo del mobiletto, Beppe picchiò con il mento contro il pavimento mezzo sgretolato spaccandosi i due incisivi.
Il cane abbaiò una sola volta. Poi tacque, colpito da un dardo sonnifero sparato da un uomo vestito di nero, col viso coperto da passamontagna, alla stregua di come era successo secondi prima a Max. Un istante dopo, stessa sorte toccò a Salvatore e Beppe.
Presi alla sprovvista, i vigilantes non avevano avuto riflessi e tempo di premere il pulsante di allarme collegato con la centrale di Polizia, per avvisare dell'assalto in corso.
Nel frattempo, un escavatore con pinze meccaniche, sceso dal camion, ampliò una breccia nella parete aperta dall'esplosivo fatto detonare da Mister Dinamite, il quale era subito corso verso la porta blindata del caveau per farla saltare in aria.
Il commando si stava muovendo come una sola creatura a più teste, ognuno dei dodici altamente addestrato, con uno o più ruoli precisi e temporizzati. Visori notturni, fucili d'assalto con puntatori laser, auricola-ri, occhi che brillavano sotto i passamontagna. Tre erano cecchini con il compito di narcotizzare le tre guardie e il cane e coprire le spalle agli altri. C'era chi aveva il compito di guidare i furgoni e i camion per trasportare i mezzi da lavoro e successivamente bloc-care gli accessi stradali al magazzino. Chi di condurre ruspa, escavatore e ragno. Chi di stendervi le bande chiodate, incendiare i bidoni dei rifiuti limitrofi, i camion e i mezzi usati per l'irruzione, al fine di ostacolare l'intervento delle forze dell'ordine.
«Abbiamo cinque minuti» avvisò in radio il capo commando.
Terminato di piazzare le mine a scoppio ritardato at-torno al perimetro, Mirko, detto anche Rubapreti, assi-stente di Mister Dinamite, raggiunse quest'ultimo, in-ginocchiato davanti alla porta blindata interna.
Sotto le mani del veterano di guerra tremava la carica primaria già posizionata, mentre il suo assistente controllava il cronometro.
«Quaranta secondi alla detonazione.»
«Troppi, porca puttana!» imprecò Mister Dinamite.
«Sbrigati!» gli gridò il leader, a dieci passi da lui, insieme ad altri due, oltre Mirko. «Sono le 3:20. Entro cinque minuti dobbiamo andare.»
«Ci avanza tempo» rispose spocchioso e sicuro di sé l'ex artificiere.
Tutti loro e l'intera operazione dipendevano da lui.
Nel frattempo le radio gracchiarono, si sentivano sirene in lontananza.
«Dall'antenna del tetto non partirà nessun segnale radio, nemmeno criptato» confermò una voce in radio.
«Ottimo.» Il leader esultò con una moderata stretta del pugno.
«Auto civile in avvicinamento» comunicò la sentinel-la più esterna.
«In ogni caso sarebbe stato troppo tardi per tornare indietro» troncò la comunicazione, il capo.
Benché al limite, erano nei tempi programmati. E per lui, il piano, oltre che fattibile, era stato calcolato alla perfezione. E con altrettanta perfezione era stato eseguito durante le ripetute esercitazioni preparatorie.
Ore 3:21. La porta blindata cedette sotto l'esplosione e il caveau tremò come un castello di carte. Ci volle solamente un minuto per rimuovere gli ostacoli di metallo e penetrare nel caveau.
Ore 3:23. Le porte delle casseforti esplosero in una nuvola di fumo e metallo. Bancali di contanti e lingotti d'oro ordinatamente impilati saltarono fuori come vi-scere di una bestia squartata.
Tutto secondo i piani.
Il bottino era talmente ingente che, al solo vederlo, un brivido scosse anche il più esperto e veterano del gruppo. Nel consultare il cronometro si accorse di sudare sotto i guanti e il passamontagna.
«Abbiamo solo due minuti e mezzo per caricare la merce» tuonò rivolgendosi ai due vicini a lui e a Mirko, che avevano il compito di caricare i sacchi di propilene, riempiti di denaro e oro, sulla ruspa che a sua volta li avrebbe trasportati fino ai due furgoni blindati, pronti per la fuga.
«Ancora un minuto!» avvisò mentre terminavano di caricare sul secondo mezzo l'ultimo sacco della milionaria refurtiva.
Il lavoro di squadra stava procedendo secondo i piani, alla perfezione. Non si sentivano sirene né si vedevano lampeggianti e ciò dimostrava l'ottima esecuzione, oltre alla solita dose di auspicata fortuna.
Il primo furgone, con sei uomini a bordo, era già carico e pronto a iniziare la sua fuga a fari spenti nella notte.
«Ci siete tutti? Aquila 1, Aquila 2, Falco 1, Falco 2, Falco 3, Gazza 1...»
Il capo continuò nel celere appello in codice a cui tutti risposero, mentre chiudeva il portellone del secondo furgone rubato, decretando la fine delle operazioni in loco.
Coordinamento perfetto. Fino a quel momento.
Ora rimaneva la parte più delicata, il trasferimento e la fuga per cinque chilometri verso lo sterrato della masseria che fungeva da loro campo base.
Partirono a fari spenti, lasciandosi dietro una scia di subbuglio che pareva il teatro di una violenta sommossa: cassonetti rovesciati in mezzo alla strada e incendiati insieme ai mezzi di lavoro. Per non dire della guardiola di prefabbricato ribaltata, delle recinzioni divelte, dei muri sfondati, delle porte abbattute e delle casse-forti esplose.
Di fronte a loro stava giungendo una moto da cross, la quale, per evitare uno dei due furgoni che le stava tagliando la strada, andò a sbattere contro il pilastro del cancello di una casa a bordo strada.
I due mezzi rubati proseguirono a tutta velocità. Procedevano uno dietro l'altro, sempre più lontani dal campo di battaglia, quando comparvero i primi lam-peggianti.
Due auto di pattuglia. Poi tre. Poi una quarta. Volanti della Polizia e gazzelle dei Carabinieri neutralizzate dalle bande chiodate e bloccate dal camion di traverso, anch'esso in fiamme. Le sirene si erano fatte più vicine, finché il loro suono prese a ridursi a mano a mano che i due furgoni si allontanavano dal luogo del furto.
Percorso lo sterrato che portava alla base e una volta introdottisi coi furgoni nei magazzini della masseria, ogni rumore e sentore di minaccia scomparvero. Fi-nalmente si sentirono tutti al sicuro. Scesero dai fuorgoni euforici, fra abbracci e pacche sulle spalle, al riparo del capanno, come ragazzi dopo la vittoria di una partita.
Il momento di festeggiamenti e di giubilo, però, durò poco. Un ruggito inatteso e un fascio di luce sopra le loro teste squarciarono il cielo: un elicottero ronzava in un raggio d'azione il cui centro partiva dal deposito della SECURTRUST VIGILANZA & VALORI fino a lambire gli estesi terreni della cascina.
Il capo alzò le mani. «Silenzio! State zitti!» Si guardò intorno e passò in rivista i suoi uomini a uno a uno, come suo solito, muovendo le labbra in maniera quasi impercettibile. «Dieci più io» farfugliò incredulo. Lì osservò di nuovo, la mascella contratta, i pugni serrati.
«Dov'è Rubapreti?»
Si rivolse verso Mister Dinamite: «Dove cazzo è il tuo uomo?»
Quello sollevò le spalle come unica risposta.
Freddy alzò una mano, timido. «Io, nel furgone, non ricordo di averlo visto salire.»
Il capo fulminò con lo sguardo l'ex artificiere scaricando la responsabilità su di lui.
«Eppure ha risposto all'appello.»
Era chiaro a tutti che non avrebbe ammesso colpe da parte propria, quale coordinatore delle operazioni. «Nessuno l'ha visto, quel bamboccio?»
Nessuno fiatò. Solamente cenni di no col capo e sguardi preoccupati.
«Fanculo!» Si girò di scatto verso il furgone più vicino e tirò un pugno secco contro la fiancata.
Calò di nuovo il silenzio, finché non si fece avanti uno dei due autisti. «La sua radio?»
Il leader si schiarì voce e mente. «Cercatela!»
«Che cosa facciamo, capo? Non possiamo rischiare.»
«Certo che no, tantomeno per un coglione come quello. Trovate la sua radio, intanto.»
«Qui non c'è» annunciò scendendo dal furgone il più alto di tutti.
«Voglio sapere dove cazzo è finito!» Scandì le parole a colpi di rabbia. «Se lo beccano ci manda a puttane tutto e incula pure noi.»
«Cosa facciamo, capo?» ripeté lo stesso di prima.
«Passiamo al piano B. Dobbiamo evacuare.»
Con uno scatto si avvicinò al primo furgone. Entrò e contò i sacchi con dentro il bottino, osservato dagli altri. Poi salì sul secondo e contò i restanti. Sapeva perfettamente quanti dovevano essere perché li avevano utilizzati tutti.
Scese con la faccia infuriata, gli occhi ridotti a una fessura. «Ne manca uno. Fottuto figlio di una cagna!»

Rocco Luccisano

Biblioteca
Acquista
Preferenze
Recensione
Contatto
Votazione per
WriterGoldOfficina
Magazine
Articoli
Scrittori si nasce Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
Lettori OnLine