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Storie d'amore e solitudine.
Avevo un disperato bisogno di lavorare. Era una necessità che mi si era insinuata dentro fin da bambina, da quando avevo avuto piena percezione della costante condizione di precarietà in cui vivevamo io e mia madre. La parola "famiglia" per me aveva sempre avuto un suono monco, incompleto. Eravamo soltanto noi due, un minuscolo nucleo tenuto insieme dalla caparbietà silenziosa di mia madre. Mio padre era qualcosa di lontano, un volto sbiadito in una vecchia fotografia. Ci aveva abbandonate quando avevo appena tre anni, un'età in cui i ricordi sono molto fragili. Non conservavo che vaghe immagini di una figura alta che si chinava a baciarmi sulla fronte, un profumo acre di dopobarba e la sensazione di mani ruvide che mi sollevavano in aria. Dopo, il vuoto. Era partito per l'estero, per lavorare, dicevano i sussurri sommessi di mia madre con le vicine, e non era più tornato. Si era costruito un'altra vita, un universo parallelo nel quale per noi non c'era più posto. Dove noi, per lui, non esistevamo. Nessuna lettera, nessuna telefonata, nessun aiuto economico. Eravamo state recise di netto. Mia madre si era rimboccata le maniche, la sua schiena si era fatta sempre più curva sotto il peso di mille lavoretti saltuari. Badava ad anziani soli, stirava montagne di bucato per famiglie benestanti, puliva case che non erano la nostra. A quella ci pensavo io, al nostro modesto appartamento, dove l'odore di cera e di detersivo contrastava con il sentore di umido e di stantio che aleggiava sempre nell'aria. I guadagni di mia madre erano una magra coperta che a stento ci riparava dal freddo della miseria. Anch'io, appena l'età me lo aveva consentito, avevo cercato di contribuire. Cameriera in un bar sempre affollato, dove i turni erano massacranti e le mance scarse, baby sitter per bambini viziati che mi lanciavano i giocattoli e strillavano fino a stordirmi. Lavori occasionali, senza alcuna prospettiva, che mi lasciavano addosso soltanto stanchezza fisica e un senso di frustrazione che cresceva sempre di più. Sapevo che quel mio impegno non era abbastanza, che non avremmo mai potuto permetterci un futuro rimanendo aggrappate a quelle briciole. Poi era arrivata quella che sembrava una luce in fondo al tunnel, un'opportunità inaspettata: il concorso pubblico. Avevo visto l'annuncio quasi per caso, appeso alla bacheca dell'ufficio postale. Non ci avevo creduto subito, mi sembrava qualcosa di troppo grande per me. Ma mia madre mi aveva spronato. "Tentare non nuoce" diceva con quella sua saggezza popolare. Mi ero chiusa in casa per mesi, sacrificando molte ore di sonno e tutti i momenti di svago, che già prima erano rari, impegnata sui libri con grande determinazione. Alla fine ce l'avevo fatta! Il mio nome era comparso in quella lista di vincitori, nero su bianco, una promessa concreta di stabilità, di un futuro finalmente più sereno. La mia gioia era stata immensa. Avevo iniziato quel nuovo lavoro con un entusiasmo che mi sembrava quasi infantile, un'euforia contagiosa che contrastava un po' con il grigiore semplice del nostro quotidiano. Avevo immaginato un ufficio dinamico, colleghi interessanti, un ambiente in cui poter crescere professionalmente. La realtà, come spesso accade, aveva invece sfumature diverse. Eravamo un manipolo di nuovi assunti, catapultati in uno stanzone ampio e anonimo dove l'odore di carta vecchia era l'aroma dominante. Due figure spiccavano in quel mare di volti freschi: il capo e un altro collega, molto più anziano di noi. Il capo era una specie di fossile del genere maschile che si comportava come un accanito seduttore. I suoi completi stazzonati e la cravatta allentata e a volte pure macchiata non facevano che accentuare l'aria trasandata. Le sue battute, sempre le stesse, erano cariche di un sottile veleno di allusione e di doppi sensi. I suoi maldestri apprezzamenti nei miei confronti mi facevano arrossire di imbarazzo e di rabbia repressa. "Signorina, oggi la trovo molto in forma" diceva con un sorriso viscido e gli occhi spenti. Sapevo che beveva, lo sentivo dal fetore acre che gli aleggiava intorno già a metà mattina, e l'alcool annebbiava ancora di più il suo già scarso senso del decoro. Dopo, puntuali, arrivavano le scuse. Giustificazioni biascicate con voce incerta ed espressione contrita, con occhi acquosi di un pentimento soltanto passeggero, promesse di cambiamento che si dissolvevano nel nulla il giorno seguente. Era comunque il capo. La sua autorità, per quanto discutibile, era un dato di fatto. E io ero l'ultima arrivata, ancora appesa al filo sottile del periodo di prova. Non potevo permettermi di farmi nemica quella persona, di compromettere quella che doveva essere la mia ancora di salvezza. Sopportavo, stringevo i denti e tentavo di innalzare una barriera invisibile tra me e i suoi squallidi approcci. L'altro veterano dell'ufficio era l'antitesi del capo. Era un uomo grigio come il suo completo di flanella, come i suoi capelli radi e pieni di forfora, come il suo sguardo spento. Non si era mai sposato, viveva in un mondo tutto suo, fatto di silenzi e di piccole meschine economie. Ogni sua parola era dosata, ogni spiegazione sul lavoro un fastidioso obbligo. La sua avarizia si estendeva anche alla conoscenza, come se il sapere fosse un bene finito da custodire con grande cura. "Se spiego troppo voi giovani mi rubate il lavoro" ripeteva con una serietà che rasentava il ridicolo. "Ho impiegato più di vent'anni per conquistare un posto accanto alla finestra, dove c'è più luce. Voi invece volete tutto subito" aggiungeva cupo, prima di tacere per ore intere. Poi c'erano loro tre, i miei coetanei, gli altri naufraghi approdati in quell'ufficio grazie al concorso. Bruno, Ignazio ed Emilio. Tre maschi in un ambiente che, per me, aveva assunto subito i contorni di un'isola deserta al femminile. Bruno era l'incarnazione della sicurezza ostentata, un pavone che amava specchiarsi nella propria immagine riflessa. Alto, con un sorriso smagliante e modi affettati, dispensava battute a voce alta e si atteggiava a leader del gruppo. Ignazio era diverso, più alla mano, con quel suo fisico robusto e il naso aquilino che gli dava un'aria da condottiero rinascimentale. Era il più socievole, quello che cercava di stemperare la tensione con una battuta o un sorriso. Emilio, il più giovane, mi incuriosiva più degli altri. Magrolino, con quegli occhiali che gli davano un'aria da intellettuale un po' miope, parlava poco, quasi mormorava, ma nei suoi occhi scuri percepivo una scintilla di intelligenza acuta. Era il più misterioso, prigioniero di una timidezza che, per paradosso, lo rendeva ancora più interessante ai miei occhi. Fino a quel momento, la mia vita sentimentale era stata un vero disastro. Qualche uscita sporadica con le poche amiche, una pizza mangiata in fretta tra gli impegni di lavoro e di studio, un cinema diviso con un ragazzo scostante. Episodi isolati, senza un seguito. La mia energia era stata assorbita dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, dalla necessità di essere un sostegno per mia madre. Non c'era mai stato spazio, né tempo, per coltivare i sentimenti, per abbandonarmi alla leggerezza dell'amore. Bruno, Ignazio ed Emilio formavano un trio affiatato in ufficio. Li vedevo spesso confabulare durante le tante pause caffè, le loro risate maschili che rompevano la monotonia della giornata. Sembravano condividere un codice non scritto, un'intesa che andava oltre le semplici dinamiche lavorative. Tutti e tre si dichiaravano non impegnati con ragazze, ma c'era qualcosa nei loro sguardi complici, nei loro cenni di intesa, che mi faceva nutrire qualche dubbio. Forse era soltanto la mia diffidenza, la mia abitudine a non dare nulla per scontato. Un giorno, mentre stavamo sistemando delle scartoffie nell'archivio polveroso, Bruno si era avvicinato con il suo solito sorriso sfrontato. "Ehi, collega" aveva detto, appoggiandosi allo scaffale e incrociando le braccia. "Sabato sera andremo al cinema. Ti piacerebbe venire con noi?" Ignazio ed Emilio, che erano nei pressi, avevano annuito in segno di approvazione. La proposta mi aveva un po' spiazzato. Uscire con tutti e tre? Mi ero sentita all'improvviso sotto i riflettori, l'unica figura femminile in un ambiente del tutto maschile. Un vago senso di disagio si era insinuato in me. "Oh, non lo so..." avevo risposto, cercando di guadagnare tempo. "Devo verificare se ho degli impegni". Li avevo lasciati in sospeso, avevo percepito i loro sguardi interrogativi. Tornata a casa, ne avevo parlato con mia madre mentre preparavamo una cena frugale. Lei, con il suo solito buon senso, aveva minimizzato le mie perplessità. "Ma certo che ci devi andare" mi aveva detto, mentre mescolava il sugo nella pentola. "Hai bisogno di un po' di svago, di uscire qualche volta. E poi, che cosa c'è di male? Si tratta di colleghi". Le sue parole, semplici e dirette, avevano sciolto un po' della mia iniziale riluttanza. In fondo, non avevo niente di meglio da fare, e la prospettiva di trascorrere una serata diversa non mi dispiaceva per nulla. Alla fine, avevo mandato un messaggio a Bruno, accettando il loro invito. Sabato sera, Ignazio era arrivato puntuale a bordo della sua auto nuova, una vettura elegante di un colore blu metallizzato che brillava sotto la luce dei lampioni. L'abitacolo profumava di cuoio, un odore che per me era sempre stato associato a un mondo lontano, fatto di agi e di possibilità che a me e a mia madre erano preclusi. Emilio, con la sua consueta aria un po' sfuggente, era seduto sul sedile anteriore, a fianco di Ignazio. Io mi ero accomodata dietro, accanto a Bruno. Mentre ci allontanavamo dal mio quartiere, le luci della città scorrevano veloci oltre i finestrini, e creavano un'atmosfera quasi cinematografica. Stavamo chiacchierando del più e del meno, commentando in maniera distratta la settimana lavorativa appena trascorsa, quando Bruno si era di colpo girato verso di me, avvicinandosi in modo un po' troppo invadente. Il suo alito, un misto di gomma alla menta e di qualcosa di vagamente alcolico, mi aveva sfiorato l'orecchio mentre bisbigliava qualcosa di incomprensibile. "Scusa, non ho sentito" avevo detto, inclinando leggermente la testa. Lui si era avvicinato ancora, e questa volta la sua voce era risuonata chiara e brutale nell'abitacolo. "Mi faresti un pompino?" Nel dirlo, aveva appoggiato la mano sulla patta dei pantaloni. Un'ondata di gelo mi aveva investito. Le sue parole, così dirette e volgari, mi avevano lasciato senza fiato. Avevo sentito le risate soffocate di Ignazio ed Emilio davanti, un suono che mi era parso del tutto fuori luogo, quasi crudele. Il mio viso doveva essersi irrigidito in un'espressione di autentico sgomento. Bruno, notando la mia reazione, aveva assunto un'aria dispiaciuta, i suoi occhi all'improvviso dolciastri. "Su, dai" aveva detto con un tono che cercava di sdrammatizzare. "Non te la sarai mica presa? Stavo scherzando". Aveva poi iniziato a scusarsi con un'insistenza quasi melodrammatica, spiegando la sua natura goliardica, la sua passione per le burle che a volte potevano sembrare un po' pesanti ma che, giurava, non avevano mai secondi fini. Ignazio ed Emilio avevano annuito in segno di assenso, quasi fossero stati preparati a quell'eventualità. "Ormai abbiamo imparato a conoscerlo" aveva detto Ignazio con un mezzo sorriso, guardandomi dallo specchietto retrovisore. "È fatto così, un po' sopra le righe". Emilio era rimasto in silenzio, il suo sguardo fisso sulla strada, come se in quel momento si volesse dissociare da quella scena imbarazzante. "E poi tu sopporti cose ben peggiori dal capo, e lui fa sul serio" aveva aggiunto Ignazio. Quelle parole, pur nella loro sgradevole verità, non avevano fatto che aumentare il mio senso di disagio.
Enzo Sopegno
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