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Il Richiamo del Vuoto.
Vyrn palpita come un cuore ferito nel cristallo fluido dell'esistenza, i Fili Primordiali ridotti a vene di luce che svaniscono in sussurri evanescenti. Una Tessitrice, impressa da un sigillo ardente sulla pelle, si staglia contro il Vuoto con grazia inesorabile. Ombre liquide si innalzano, mosse da un Custode che mormora rovina in echi dimenticati. Un canto lunare lacera il silenzio, mentre un Filo nero si snoda verso orizzonti avvolti nel mistero. Il conflitto si accende in armonie cosmiche, e il destino oscilla su un intreccio fragile, invitando l'anima a esplorare abissi di enigma e rivelazione.
Sotto un cielo infuocato da nubi dorate e violacee, dove la luce del tramonto si piegava come una lama incandescente sul confine del mondo, Vyrn si risvegliava dal torpore della sua sofferenza. Le montagne all'orizzonte, ridotte a sagome distorte, vibravano nel riverbero delle braci sospese nell'aria, mentre il vento portava con sé l'eco di città perdute e nomi svaniti nella polvere del tempo. Un Filo nero, sottile come un capello d'ombra, si dipanava dalle vette agli abissi, pulsando con un bagliore viscoso, simile al sangue che scorre ancora in un corpo al confine della morte. Ogni pulsazione di quella vena cosmica sembrava scuotere la terra, come se il mondo stesso si ribellasse al proprio cuore infranto. Il terreno, frantumato e arido, esalava respiri carichi di zolfo e memoria; il suolo, incrinato in scaglie di vetro fumante, rifletteva il suono di un dolore antico, un lamento che emergeva dalle profondità della materia. Nell'immensità di quel silenzio rotto solo da sibili e crepitii distanti, l'eco di una vittoria incompiuta aleggiava come un incantesimo fragile e imperfetto. Le armate che avevano marciato sotto stendardi di luce ora erano solo ombre svanite, e il mondo intero sembrava sospendere il respiro, in attesa del prossimo colpo del destino. Non vi era trionfo, ma una fragile tregua: un interludio incandescente tra ciò che era stato distrutto e ciò che ancora doveva bruciare. Sul pianoro di ossa cristallizzate avanzava una figura solitaria, la sua ombra lunga e frastagliata che si spezzava sulle crepe del suolo. Ogni passo generava un tintinnio leggero, un rintocco che si mescolava al respiro inquieto della terra. La giovane sfoggiava sul volto la calma di chi ha superato la paura, ma nei suoi occhi bruciava un fuoco inquieto, una domanda che nessun maestro aveva mai saputo acquietare. I frammenti di luce riflessi sulle ossa le disegnavano intorno un alone spettrale, come se camminasse tra i resti di un tempio sacro ormai profanato. Il marchio sulla sua pelle, inciso in forme mutevoli come creature vive, vibrava con un ritmo irregolare e pulsante. Ogni vibrazione era un richiamo, un mormorio che non apparteneva al linguaggio degli uomini. Quel simbolo, il Cerchio intrecciato dei Tessitori, la vincolava a una forza ancestrale, un'intelligenza che superava la carne e la memoria. Le vene lungo il braccio sembravano rispondere a quella chiamata, irrorandosi di luce scura, quasi a suggerire che il suo sangue stesso non le appartenesse più. Nel vuoto che la avvolgeva, la giovane avvertì un sussurro. Non giungeva dall'esterno, ma da una profondità priva di confini. Era la voce del Primordiale, colui che aveva tessuto la prima trama e che ora la scrutava, invisibile, attraverso le pieghe del tempo. —Sono la Tessitrice, o solo un filo nella sua trama?— pensò, e quel pensiero la trafisse come una lama di luce. Il monile che pendeva al suo collo, una piccola reliquia di metallo antico e pietra azzurra, le accarezzava la pelle con un calore vivo e pulsante. Era il dono di Sylve, la madre che aveva camminato tra i venti del Nord e che le aveva insegnato a distinguere il suono dei fili del mondo. Quel ciondolo vibrava ora di una propria coscienza, come se contenesse ancora l'ultimo respiro di chi lo aveva forgiato. Sotto il tocco delle sue dita, la superficie del monile si fece rovente, irradiando un calore che le scorreva lungo le braccia, dissipando per un istante il gelo che le stringeva il cuore. Intorno a lei, il vento mutò direzione, trascinando un canto basso e rotto, simile a un lamento di pietra. Le nubi si squarciarono per un istante, lasciando filtrare un bagliore dorato che le sfiorò il volto, accendendo le linee del marchio e le iridi di bronzo. Per un attimo, il mondo parve trattenere il fiato insieme a lei. Poi, il cielo richiuse le proprie ferite, e la tenebra tornò a regnare, col suo battito cupo e inesorabile. Lirien continuò a camminare, sola, ma dentro di sé sentiva la vibrazione di migliaia di voci che attendevano di essere chiamate. E mentre il Filo nero palpitava all'orizzonte come un serpente cosmico, la consapevolezza s'insinuò in lei: la guerra non era finita, e il suo ruolo non era ancora stato scelto. Il gruppo avanzava attraverso la distesa arsa con l'unità di un unico essere, una creatura forgiata da respiri multipli e destini intrecciati. Ogni figura era una cellula viva di un corpo nato dalla sofferenza e temprato dall'acciaio; ogni movimento, ogni sguardo, ogni respiro si armonizzava in un ritmo che aveva la cadenza della sopravvivenza. I segni della vittoria recente– se ancora poteva definirsi tale– pesavano su di loro come un velo di fumo opprimente: non vi era esultanza, ma un silenzio carico di presagi, il sentore che quel trionfo non fosse che l'apertura di un varco verso prove ancora più oscure. La terra, ancora fumante, sembrava pulsare sotto i loro piedi, come se ne riconoscesse il passo, come se i guerrieri che la attraversavano fossero parte del suo stesso cuore ferito. In testa al gruppo avanzava colui che sosteneva il peso del ferro e dell'onore. Le sue mani, ruvide e screpolate, afferravano l'elsa della lama con un'intensità che superava la forza fisica – come se in quell'arma fluisse il residuo della sua anima. Ogni cicatrice che gli solcava la pelle era un frammento di storia, una testimonianza di battaglie che avevano divorato compagni e speranze. Il volto, scolpito dal vento e dalle notti insonni, rivelava un vigore che non derivava dalla giovinezza, ma dall'ostinata abitudine di resistere. Dietro la maschera della disciplina si scorgeva però la sottile incrinatura della stanchezza, una fessura invisibile che rischiava di cedere sotto il peso dei ricordi. I suoi occhi, grigi come l'acciaio lucido delle armi dimenticate sul campo, cercavano tra le figure quella che portava il segno del destino. Quando la trovavano, il suo sguardo si addolciva, come se la vista di quella giovane fosse per lui la promessa di un equilibrio che la guerra non aveva saputo distruggere. Lirien – la Tessitrice che camminava con la grazia di chi appartiene a più mondi – era per lui più di un punto di riferimento: era l'asse invisibile attorno a cui ruotava la loro sopravvivenza. Il guerriero non avrebbe mai ammesso a voce alta la paura che lo accompagnava, ma nel suo silenzio risuonava il battito di un voto antico. “Non lasceremo che ci spezzi,” mormorò infine, con una voce che pareva fendere l'aria stessa. Era un giuramento e insieme un avvertimento, un filo di volontà intrecciato a quella del gruppo, come se le sue parole potessero tenere insieme ciò che il mondo tentava di disgregare. Accanto a lui camminava la Custode, una figura di luce tremante che sembrava scolpita nel chiarore delle fiamme residue. Le ali, che un tempo irradiavano un fulgore incorruttibile, ora scintillavano di una luminescenza attenuata, come torce che sfidano il vento della notte. Eppure, in quella fragilità risiedeva una nuova forza, la consapevolezza di chi ha perso la purezza ma non la fede. Il suo passo era fermo, i movimenti precisi, ma gli occhi – due pozze di ambra liquida – tradivano un'inquietudine diversa dal timore della battaglia. Era un tremore più intimo, un'ombra che non nasceva dal pericolo esterno ma dal contatto con qualcosa di umano, di vivo, d'inaspettato. Ogni volta che il suo sguardo incrociava quello del guerriero, un lampo invisibile li congiungeva, come se il mondo, per un istante, sospendesse il respiro. Non servivano parole, né gesti: bastava la consapevolezza reciproca di appartenersi in un modo che sfidava il tempo e la rovina. —La guerra ci ha forgiati, ma questo legame è più forte,— pensò, mentre il suo sguardo si posava sul profilo del compagno, sulla linea tesa del suo collo, sull'ombra che gli scendeva sul volto come un sigillo. Un cenno, quasi impercettibile, passò tra loro. E in quel gesto muto si raccolse un intero linguaggio: la promessa di proteggersi senza chiedere, di combattere senza esitazione, di riconoscersi anche quando tutto intorno si sarebbe dissolto. Il vento passò tra di loro portando odore di ferro e di pioggia, e le loro ombre si fusero per un attimo in una sola, come se anche il mondo, in quel momento fragile, volesse ricordare che l'unione delle loro volontà era ciò che ancora lo teneva in vita.
Antonio Rispoli
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