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Il bambino osserva la maschera, appesa al muro sopra il letto, dove dovrebbe esserci una croce o alme-no qualcosa di sacro. Ma non c'è nulla di tutto ciò, solo silenzio, odore di disinfettante e il ticchettio di un orologio che non segna mai l'ora giusta. La maschera ha il volto di una donna che ride, ma non è una risata vera. È scolpita, fissa, immobile. Una risata che non cambia mai, che non risponde, che non ascolta. Ogni sera, prima di dormire, il bambino la guarda. E ogni volta, quella risata gli sembra più larga, più pro-fonda, più viva. Come se lo stesse aspettando. Una voce gli ha detto che quella maschera è sua, che gli appartiene. Ma lui non ricorda. Ricorda solo il buio, il freddo e le mani che lo hanno portato via, mani senza volto, mani fredde e decise. Una volta ha provato a toccarla. Si è alzato in punta di piedi, ha steso le dita e ha sfiorato la superficie. Era fredda ma morbida. Come pelle finta, come qualcosa che aspetta un volto per essere indossata, per nascondere, per trasformare. Da quel giorno non l'ha più toccata. Ha aspettato, perché la voce ha detto che un giorno sarà lui a indossarla. Quando lo farà, tutti gli altri smetteranno di ridere.
"Ogni scena ha bisogno di silenzio. Il silenzio è un sipario invisibile, quello che cade tra ciò che si vede e ciò che è vero." Il teatro respira. Non dovrebbe, ma lo fa. È un respi-ro lento e profondo, che si insinua tra le travi e le tende impolverate. L'aria è densa, satura di umidità e ricordi; odora di legno vecchio, di velluto bagnato, di qualcosa rimasto chiuso troppo a lungo. Qualcosa che non vuole essere risvegliato. Le pareti sono screpolate, il soffitto annerito dal tempo. Le poltrone, un tempo rosso vivo, ora sono grigie di polvere. Alcune sono sfondate, altre conservano ancora la forma di chi vi ha pianto, riso, trema-to. Ma stanotte, il teatro si risveglia. La luna filtra da una vetrata rotta, proiettando un cono di luce lattiginosa sul centro del palco. Lì, immobile, giace il corpo di una giovane donna, distesa con le braccia aperte, come crocifissa. Indossa un abito bianco, semplice, ora intriso di sangue. Sul volto, una maschera teatrale, quella della tragedia. I lineamenti sono contratti, la bocca e gli occhi spalancati in un'espressione di dolore e tristezza eterni. Il sangue arriva da lì, la maschera non è solo appoggiata al volto, è stata inchiodata. Due chiodi nelle tempie, uno sul mento. Il sangue ha tracciato una linea lungo il collo, scendendo fino al bordo del palco. Alcune gocce hanno raggiunto il sipario, macchiandolo come lacrime. Sul petto della donna, incisa con un bisturi affilato, c'è una frase: "Ognuno di noi ha un ruolo." Le lettere sono nette, precise, scolpite con mano ferma. Non è solo una messinscena, è un messaggio preciso. L'autore della scena osserva la sua opera. Respira piano, non ha fretta né paura. Ogni dettaglio è stato preparato con cura, ogni elemento ha un significato, ogni simbolo una funzione. Non c'è caos in ciò che fa, solo ordine. Un ordine oscuro, ma perfetto. Si muove, cammina tra le file vuote del teatro, sfiora le poltrone con le dita. Ogni passo è una battuta, ogni respiro una pausa, ogni gesto un frammento di co-reografia invisibile. Si sofferma davanti a uno specchio incrinato, appeso nel corridoio dietro le quinte. Si guarda, ma non vede il suo riflesso, vede il personaggio. La maschera che indossa non è come quella della vittima, è un'altra. Diversa. Più antica, più vera. "Sipario. Atto primo. La tragedia è servita." Sul muro, appesa a un chiodo arrugginito, c'è la prossima maschera: quella della commedia. Sorriso beffardo e occhi sgranati. La prende e la osserva. Non è ancora il momento. Ogni atto ha bisogno del suo tempo, ogni attore deve entrare in scena quando il copione lo prevede. Torna sul palco. Si china accanto al corpo, sfiora la maschera. Il sangue è ancora caldo. Chiude gli occhi e, per un istante, sente gli applausi. Non reali, non presenti, ma dentro di sé: un pubblico invisibile che lo acclama. Perché lo spettacolo è appena iniziato. Nel seminterrato del teatro, una porta cigola. Oltre quel locale, scendendo altre scale, c'è un'altra stanza, che non compare in nessuna planimetria. Una parete piena di maschere, una sedia, un tavolo, una lampada a stelo. Su quel tavolo, ordinati come spartiti, ci sono dei fascicoli: fotografie in bianco e nero, indirizzi di teatri, liste di possibili partecipanti. Ogni documento è numerato. Ogni numero, una vittima. Sfoglia le pagine con lentezza, come se stesse leggendo un copione. Si sofferma su una foto: una donna, capelli scuri, sorriso spento. Sul retro, una frase scritta a mano: "Atto secondo." Solleva la maschera della commedia e ride. Non è una risata vera, è scolpita, fissa, immobile, come quella della maschera. Una risata che non cambia, perché non è mai stata vera. "Ogni maschera ha un volto. Ma non ogni volto ha una maschera." Spegne la lampada, porta con sé ciò che non deve re-stare lì, chiude la porta a chiave e scompare nel buio.
Il cellulare squilla alle 6:52 del mattino. Leonardo Braghi è già sveglio, da anni il sonno è diventato un lusso che non può permettersi. Accanto a lui, sua moglie dorme ancora. Si alza piano, cammina scalzo sul parquet freddo, attraversando la casa in silenzio come se non volesse disturbare nemmeno i muri. La casa non è tanto grande, ordinata, con scaffali pieni di libri e vecchie fotografie in bianco e nero. Un pianoforte chiuso da anni, una finestra che dà verso il fiume. Risponde al terzo squillo. «Braghi?» «Sono Eva Sarnel, ispettore capo della sezione crimi-ni violenti, centrale di Firenze. Abbiamo bisogno di lei. È molto importante.» Leo resta in silenzio. Il nome non gli dice nulla, è qualche anno che non mette più piede in centrale. La voce è ferma, diretta, senza esitazioni. «C'è stato un omicidio, con chiari riferimenti a un vecchio caso. Uno che lei conosce bene.» Leo si appoggia al muro. Il cuore non accelera, non può, è troppo stanco per battere più forte. «È tornato.» aggiunge Eva. Chiude gli occhi e fa un respiro profondo. «Mandatemi il fascicolo.» «Lo troverà nella sua mail entro trenta secondi. La scientifica è già sul posto. Ci vediamo qui tra un'ora.» non risponde. Non serve. Il sipario si è riaperto. Va al computer, apre la mail. La cartella è lì. Ogni immagine è una lama: il teatro, il corpo, la maschera, la frase incisa sul petto. "Ognuno di noi ha un ruolo." La legge tre volte poi apre un cassetto. Dentro, un fascicolo ingiallito, il caso del "Regista". Sette anni fa. Stessa maschera, stessa frase, stesso dramma. Si siede. Le mani tremano, non per paura ma per rabbia. Fa una doccia veloce e poi va verso l'armadio. Non ha mai cambiato abitudini: giacca scura, camicia bianca, scarpe consumate ma lucide. Un abito che non è eleganza, ma disciplina. Si veste con gesti lenti, precisi, come se ogni bottone fosse un rituale. Prima di uscire, torna dalla moglie, che dorme ancora profondamente. Le sfiora la mano, appena, senza svegliarla. Un saluto silenzioso. In cucina, prende un foglio e una penna. Scrive poche righe, con grafia lenta e ordinata: "Devo andare in centrale. È importante. Torno più tardi. Non preoccuparti." Lascia il biglietto accanto alla tazza del caffè, come ha fatto per anni, ogni volta che il lavoro lo chiama-va. Un gesto semplice, antico. Alle 8:00, Eva lo aspetta davanti alla stazione di poli-zia. Quando lo vede, lo saluta senza sorrisi. «Grazie per essere venuto. Eva.» gli stringe la mano. «Leo. Piacere.» Camminano lungo il corridoio. Il passo di Eva è rapido, deciso, quello di Leo più lento, misurato. Le pareti sono spoglie, illuminate da una luce fredda che rende ogni ombra più netta. Attraversano l'atrio, salgono una rampa di scale, fino alla sala conferenze. Sul tavolo, le foto stampate, disposte come tessere di un puzzle. Eva ha trentasei anni. Occhi chiari, taglio netto e corto, postura da schermidore. Non ama molto par-lare, quando lo fa ogni parola è selezionata. Indossa jeans, un maglione largo, scarpe da ginnastica. Sul polso sinistro una cicatrice sottile, che non nasconde, incidente di tanti anni fa. È razionale, ma sa quando l'intuito vale più di mille parole. Mentre dispone le foto, le mani si muovono con precisione, come se stesse provando a ricomporre i pezzi. Ogni immagine è posata con calma, ma lo sguardo resta vigile, rapido, pronto a cogliere un dettaglio. Quando alza gli occhi verso Leo, non cerca conferme, vuole risposte. «La vittima si chiama Chiara Belari. Ventitré anni. Attrice dilettante. Nessun parente in vita, viveva so-la. Nessun segno di violenza sessuale.» Leo la esamina. «La maschera sembra autentica, fine Ottocento. Non sembra una replica.» «Da cosa lo intuisce?» «Perché ne ho vista una identica. Sette anni fa.» «Crede che sia lo stesso assassino?» Non risponde. Va alla lavagna e scrive una parola: "Copione." «Non è solo un omicidio. È un atto. Un ritorno in scena.» poi si volta. «Diamoci del tu, sarà tutto più semplice.» Dopo mezz'ora arrivano sulla scena del crimine. Il Teatro Drappo è chiuso da molti anni. Leo si sofferma un attimo fuori, cammina intorno all'edificio, osserva le crepe, le finestre rotte, le scritte sbiadite. Poi varca la soglia. L'odore è lo stesso di altri teatri chiusi da tempo: muffa, polvere, aria ferma. Qui, però, se ne aggiunge un altro, quello del sangue. Attraversa la platea, in silenzio. I fari della scientifica illuminano il palco come in una prova generale. Eva è lì, in piedi accanto al corpo, circondata dai colleghi. La donna è ancora distesa, ora coperta da un telo bianco. «Stessa scena. Stessa firma.» Si volta, sale le scale laterali e raggiunge il corridoio dietro le quinte. Lo specchio incrinato è lì. Si specchia, ma non vede sé stesso. Vede l'uomo che ha fallito, vede il detective che non ha fermato l'assassino, sette anni fa. «Perché ora?» Mormora. «Perché tornare dopo tutto questo tempo?» Un rumore lontano lo distrae. Un colpo secco, come un respiro trattenuto che si spezza. Proviene dal basso. Leo si dirige verso la porta che conduce al seminterrato. La spinge, cigola, si apre lentamente. La stanza è vuota, ma lui sente qualcosa, un'eco, un re-spiro. Si avvicina al muro, lo tocca. Una parte è più fredda, batte con le nocche. Vuoto. «Qui dietro c'è qualcosa, un'altra stanza, un locale!» urla ai colleghi al piano di sopra. Ma non lo sentono. Cerca con lo sguardo una fessura, un'apertura. Trova una linea sottile, verticale, nascosta tra le crepe. Prova a spingere ma non si muove niente. Prova a tirare, ancora niente. Il meccanismo è bloccato o troppo vecchio. Si inginocchia, esamina meglio. C'è una micro serratura ma non è una serratura normale: un'incisione minuscola, simile a una maschera tragica. Non una serratura comune, un simbolo. Leo si alza. «Serve la chiave.». Risale le scale lentamente. I gradini scricchiolano sotto il suo peso, come se il teatro protestasse. Quando raggiunge il palco, Eva è ancora lì, in silenzio, mentre la scientifica fotografa ogni dettaglio. «C'è una stanza nascosta nel seminterrato, dietro un muro. Ho trovato una serratura, ma non è normale. Ha la forma di una maschera.» «Serve una chiave?» «Sì, ma non una qualunque.» conferma Leo. «Cerchiamo il proprietario, il custode, o chiunque abbia avuto accesso al teatro negli ultimi anni. Se non troviamo nessuno, la sfondiamo.» conclude Eva, poi si volta verso uno dei colleghi. «Fai controllare i registri comunali. Dobbiamo trovare chiunque abbia accesso a questo teatro. Poi manda una squadra a interrogar-li e fatti consegnare le chiavi di ogni porta. Quando avete finito con la raccolta delle prove, blindate le porte esterne e organizzate una pattuglia. Nessuno deve entrare senza autorizzazione.» La scientifica continua il lavoro fino a mezzogiorno. Eva e Leo tornano in centrale per analizzare i primi dati. Nel primo pomeriggio, un agente li avvisa «Abbiamo trovato il custode, ha le chiavi, vi aspetta al teatro.» Tornano di corsa a teatro. Il sole filtra obliquo dalle finestre alte quando rientrano nel seminterrato. La porta è lì, immobile, con la serratura incisa a forma di maschera tragica. Il custode porge un mazzo di chiavi. Leo prova una, poi un'altra. Infine, un clic secco rompe il silenzio. La serratura cede. «Ora vediamo cosa si nasconde dietro questa porta.»
La porta si apre con un lungo gemito. Dietro, una stanza buia. L'odore è pungente, muffa, legno marcio, ma anche metallo e sangue. Eva punta la torcia. Il fascio di luce rivela una parete interamente coperta di maschere. Decine, forse più di cento, appese in fila, ordinate come soldati all'appello. Alcune sono crepate, altre rovinate dal tempo. Una però, al centro, è diversa, bianca, perfetta, con una lacrima rossa dipinta sotto l'occhio sinistro, la bocca chiusa in un'espressione neutra. «Questa non è come le altre, è nuova. Qualcuno l'ha lasciata qui apposta, forse per noi.» afferma Eva, avvicinandosi. Leo la raccoglie con attenzione e con i guanti, nel ca-so ci fossero impronte. Analizza la superficie liscia e innaturalmente candida. La lacrima rossa, incisa sotto l'occhio sinistro, sembra ancora fresca, come se il dolore avesse appena preso forma. Eva si avvicina, il volto teso. «Non è solo un simbolo, è un messaggio.» «Il bianco è innocenza, ma questa lacrima è sangue, il dolore che non si può dire.» Si blocca, come se stesse ricordando qualcosa. «È un'accusa.» Eva stringe la torcia. «Sta parlando con noi. Sta dicendo che siamo già dentro la sua scena.» Leo gira lentamente la maschera. «E che il prossimo atto è già iniziato.» Dietro c'è un foglio piegato. Lo apre con le mani che tremano. "Chi recita non sa di essere osservato." «Non sta recitando, sta dirigendo. E noi siamo già nel suo copione. Sta riprendendo da dove ha inter-rotto anni fa.» Eva ispeziona il resto, punta la torcia verso il soffitto. In fondo, pende una corda legata a un gancio. Sotto, una sedia rovesciata. Accanto, un altro foglio. "La maschera non cade. Si spezza." La corda è nuova e qualcuno potrebbe averla usata da poco. «È una messinscena.» osserva Eva. «Ma per chi?» Leo non risponde. I suoi occhi sono fissi su una parete laterale. Un tendaggio rosso, pesante, copre una seconda porta. Sposta il tendaggio. La porta è chiusa, ma non bloccata. La apre. Dietro, una scala in pietra scende nel buio. «Scendiamo?» chiede Eva. Leo non risponde, fa il primo passo. I gradini scricchiolano sotto il peso del tempo. L'aria diventa più fredda, più umida. In fondo, una stanza circolare, piccola. Il pavimento è segnato da cerchi concentrici, come se fosse stato usato per prove o riti. Al centro, un piedistallo, con appoggiata una maschera spezzata in due e, accanto, un registratore. Eva lo accende. «Atto terzo, il sipario si chiude, ma chi ha scritto il copione non è mai salito sul palco.» «Sta scrivendo in tempo reale.» «No. Sta svelando il copione, atto dopo atto. Uno che conosce da anni, che ha preparato con cura.» Chiude gli occhi. Il passato è tornato, ma stavolta non è solo un ricordo, è un invito. Eva si guarda in-torno, le pareti sono coperte di scritte, frasi incise nel muro, alcune in latino, altre in italiano. Una in particolare attira la sua attenzione. "Memini ergo sum." «Ricordo, dunque sono.» traduce, fermandosi un istante. «Una variante del cogito di Cartesio, ma qui il pensiero non basta, è la memoria a definire chi siamo.» Leo ha lo sguardo fisso sulla scritta. «È un messaggio, per me.» «Perché proprio tu?» «Perché io ho cercato di dimenticare, lui no.» «Chi è, Leo?» Leo abbassa lo sguardo. «Non lo so, ma lui sa tutto di me e vuole che io ricordi.» Un rumore li interrompe. Un tonfo, sopra di loro, poi passi, lenti e precisi. Eva spegne la torcia. Resta-no immobili, trattenendo il respiro. Poi, un suono metallico, come una chiave che gira in una serratura. Leo si muove verso la scala. Sale piano, ogni musco-lo teso. Quando arriva in cima, la porta è chiusa ma non a chiave. Eva lo raggiunge. Sul battente, appesa con un filo rosso, c'è una maschera bianca. L'espressione è di stupore, bocca aperta, occhi spalancati. Sulla fronte, incisi con precisione chirurgica, ci sono due nomi: LEO - EVA. Leo la sfiora. Sul retro, una frase scritta a mano. "Il pubblico vedrà il gran finale." Eva sente un brivido lungo la schiena. «Era qui. Adesso.» «È un messaggio personale.» Sul retro della maschera, un'altra frase. "Il volto che cerchi è il tuo." Leo si volta di scatto, sale le successive scale seguito da Eva. Corrono verso il centro del teatro, dove gli agenti stanno ancora perlustrando la platea e i corridoi. «Fermate tutti!» urla Eva. «Controllate i volti, i documenti. C'è qualcuno che non dovrebbe essere qui.» Gli agenti si bloccano, alcuni si guardano tra loro. «Chi cerchiamo?» chiede uno. Leo stringe i denti. «L'assassino! Potrebbe essere ancora qui, probabilmente travestito da poliziotto.» Controllano. Nessuno manca all'appello, nessuno ha visto entrare sconosciuti, nessuno ha notato nulla di strano. Eva si ferma davanti alla porta principale. Un foglio è inchiodato al legno con un chiodo sottile. Sopra, una frase scritta in rosso. "Il trucco è semplice. Basta indossare la divisa giusta." «Era qui, in mezzo a noi, travestito. Nessuno se n'è accorto.» Eva stringe il foglio. «Ha già scritto il prossimo atto. E noi siamo ancora dietro le quinte.»
Mandy Esse
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