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Lampedusa, 30 settembre 1949.
Era ricurvo e se ne stava a filo d'acqua sulla schiena. Il mare, trasparente e trafitto da raggi lunari, era di un blu cobalto. Una piattaforma scogliosa, interrotta da piccole oasi di sabbia biancastra, era il fondo su cui, da almeno un paio d'ore, poggiavano due grandi piedi pelosi adorni di spesse unghie ingiallite. Circa una quarantina di centimetri più su, in mezzo a grosse ginocchia nodose, la fiacca marea aveva portato quel piccolo essere. Uno scarto della natura. A tutti gli effetti pareva proprio morto. Era un'alaccia, per destino infausto, solitaria, attardatasi o forse abbandonata dalle altre migliaia di sorelle ancora vive e guizzanti. Rosario, distratto dai suoi profondi pensieri, ne fu incuriosito e si sentì d'istinto solidale con quell'animaletto reietto dal mondo, lasciato tutto solo a vagare per il grande mare. Proprio lui, che un tempo aveva nuotato in mezzo agli altri del banco, fino ad allora protetto da tutto quello scintillare, quel muoversi all'unisono. Il gioioso tassello di un corpo più grande, dispensato per questo dal pensare, privo di responsabilità, scagionato dal timore di sbagliare. Un pesciolino confuso tra altri milioni di pesciolini. Il banco, di poco distante, si stava esibendo in coreografie acquatiche, creando forme fantasiose e sospese sulle profondità marine, sculture argentee e lunari, delicate, inafferrabili. Quei mandala fluidi deflagravano dal centro verso le periferie, come dopo un'esplosione improvvisa. Ognuna di quelle creature, senza alcun preavviso, si era trasformata in un proiettile impazzito, un piccolo siluro sparato dentro l'acqua, andando a scinderne le molecole. Poi, per una sorta di magnetismo ancestrale, era stata risucchiata indietro verso le sue compagne, si era ricongiunta alle altre, tornando a danzare tra le onde. Rosario ne aveva visti tanti di quegli animaletti fare quelle coreografie ipnotiche. Le aveva fissate per ore da quando si trovava su quell'isola. Un vago ondeggiare richiamò la sua attenzione. Lo sguardo corse di nuovo verso lo sfortunato esserino. Era ancora fermo. Immaginò che forse, anche quella fragile creatura, aveva osato alzare la testolina sognando un nuovo futuro, una vita diversa dagli altri. Quel giorno si doveva essere reso conto che non era poi tanto felice a essere uno qualunque. Si era voltato e aveva iniziato a nuotare in direzione contraria al suo destino naturale. Dalla parte sbagliata. Era stata una scelta fatale. Una pessima, esiziale, decisione. Rosario sospirò. Gli si era di nuovo indurito il cuore. Il mare blandiva le grassocce gambe immerse nell'acqua provocandogli delle lievi increspature sulla pelle mentre il fluttuare dei folti peli, muovendosi da una parte all'altra e in armonia con la corrente, faceva affiorare dei brividi lungo gli stinchi. Poteva sembrare una carezza ma non lo era, gli parve piuttosto solo un, poco convinto e compassionevole, gesto di pietà nei suoi confronti. Anche quell'acqua salmastra lo giudicava un tapino, ne era sicuro. A settembre da quelle parti faceva ancora molto caldo ma la sera, in quegli ultimi giorni, era passato il levante a rinfrescare ed era servito il lenzuolo in un paio di occasioni. La notte, non sapendo che fare, Rosario si alzava dal misero letto della stanza affittata alla Gna Giuditta e in punta di piedi usciva sulla strada sterrata del piccolo paesino di Lampedusa. Vagava a tentoni nel buio pesto tra vicoli polverulenti. Poi, una volta individuatala oltre i pochi tetti delle case, seguiva la fievole luce della luna. Si stringeva nelle spalle, sprofondava le mani nelle tasche dei pantaloni e si avviava. In poche notti, aveva imparato la strada e l'affrontava ormai con più disinvoltura. Seguiva ogni volta lo stesso percorso, in mezzo alle sterpaglie e i cespugli di spine della steppa. Era in tutto mezz'ora di cammino e di bestemmie indirizzate a quella natura, se possibile, anche più inospitale di Palermo da cui era stato cacciato. Ma Rosario, pur con le caviglie graffiate e ‘a guallera abbuffata, non rinunciava almeno al sollievo che quella piccola fuga gli dava. A volte piangeva a dirotto e accelerava il passo verso la meta: lo scuogliu. Il piccolo pezzo di roccia a filo d'acqua era l'unico luogo in quella sputazzata di terra dove trovava un minimo conforto alle sue pene. Una volta arrivato alla cala di Sciatu Persu, si toglieva i calzoni, li ripiegava con cura per riporli in un punto asciutto, toglieva scarpe e calzini, con attenzione immergeva i piedi in mare e si sedeva a guardare quel liquido nero, fosco come la sua anima. Quella sera, il suo scranno affiorava solo di pochi centimetri dalla superficie dell'acqua ma abbastanza da non bagnargli le larghe mutande. Sciatu Persu era stata una scoperta che aveva fatto appena arrivato, il nome di quella spiaggetta glielo aveva svelato per caso proprio la Gna Giuditta uno dei primi giorni. Gli era parsa una coincidenza troppo strana, un ferale messaggio del cosmo indirizzato proprio a lui. Sciatu Persu, un'inutile boccata d'aria, un'espirazione persa nel nulla. In poche parole, una vita sprecata. Era fiato perso, il suo o lui stesso? Lo avevano mandato su quell'isola, un fazzoletto di terra emersa, aveva tentato di non lasciarsi abbattere da quella punizione, e nemmeno da quei misteriosi segni beffardi. Nonostante fosse disperato, sentiva ancora un briciolo di dignità affacciarsi di tanto in tanto. Era un singulto di ribellione alla sua sorte, perché di fatto non riusciva a farsene una ragione. Perché lui no? Perché non aveva potuto ambire a qualcosa di più? La risposta gli saliva dal fosso nero che era diventata la sua anima angosciata: perché ci sono individui che sono creati per stare nella moltitudine, nascosti e indifferenziati, e altri invece sono nati per spiccare. Ecco perché. Il responso l'aveva lì, davanti ai suoi occhi. Era quella bestiolina morta. Questo pensiero gli fece davvero troppo male. Cercò di ripetersi nella mente che lui, Rosario Granata ex ispettore capo di Palermo, aveva avuto l'occasione di salire la ripida e faticosa scala sociale, di riscattarsi e dimostrare al mondo intero chi fosse. La verità era che non ci aveva ricavato nulla. Certo, perché non era avvezzo alle logiche di potere, perché aveva scelto l'integrità alla furbizia. Era stato questo a indirizzare il suo destino, non l'indole di un inetto, di un incapace. Visti i risultati ormai non aveva più importanza, ma gli pareva preferibile una spiegazione fastidiosa a una troppo amara. Eppure, quella maledetta alaccia galleggiante era ancora lì. Nun puteve essere nu caso! Era un messaggio, quale scelta! La prova che, per il mondo, anche lui, era una semplice alaccia. Un'alaccia ‘e mmerd. L'animaletto, in quell'istante, fu portato dalla corrente ancora più prossimo a lui, giusto per fugare ogni dubbio. Allora era proprio così? Rosario era un niente! Non un tonno, non uno squalo, non un capodoglio, come aveva creduto di essere solo poche settimane prima. No, era proprio uno strunz qualunque! Teneva gli occhi sul pesciolino mentre quelle considerazioni lo percuotevano come frustate laceranti. Sale sulle ferite. Di lì a poco, il dolore eruppe traducendosi sul suo faccione da primate in una smorfia preparatoria. Le labbra carnose erano scese fin giù, agli angoli del mento, le folte sopracciglia si erano inclinate come due panche che avessero perso all'improvviso un appoggio ai lati esterni. Una diffusa colata lavica dei lineamenti, lo aveva trasformato in un mastino napoletano dalla faccia flaccida e avvilita. Era diventato ancora una volta un clown triste. Un Pierrot grassoccio e scimmiesco seduto in mutande sul bordo di uno scoglio piatto. Lo sguardo acquoso si distolse dal cadavere del suo omologo per perdersi verso l'orizzonte, in un punto lontano dove il mare andava a carezzare le coste africane. E mentre il peso del recente passato gli gravava addosso, alle sue spalle se ne stava in agguato una placida e sardonica Lampedusa, molto più indietro l'odiata Sicilia che lo aveva umiliato e tanti chilometri più lontano, oltre lo Stretto, sul continente, la sua amata casa: Scafati. Il groppo in gola si fece d'un tratto più grosso. Era un apolide, un naufrago sputato su quell'isoletta in mezzo a chello sfascimm ‘e Mediterraneo. La pressione ormai era diventata insostenibile, come un lupo mannaro nella steppa, eruttò un ululato di tormento che produsse un'eco nello spazio circostante. Tracimarono lave di autocommiserazione ed esplosero zampilli di singhiozzi. Rosario si prese la testa tra le tozze mani lasciando che le lacrime precipitassero nel vuoto perdendosi nel grande mare ormai turchese. Una di esse cadde sul corpo esamine del pesciolino, l'andò a infastidire e lo ridestò, riportandolo alla vita. Granata se ne accorse. La piccola bestiola argentea si voltò di scatto e si bloccò, di nuovo immobile. Stavolta Rosario ebbe l'impressione che lo stesse guardando dritto negli occhi e gli parve anche che avesse uno sguardo di rimprovero per averlo svegliato dal suo pisolino. Poi, lasciando il povero Rosario interdetto, in un guizzo abbandonò la sua posizione andandosi a ricongiungere, un metro più in là, alle sue sorelle già in formazione e sospese nell'acqua, ormai del tutto illuminata dai primi raggi di sole. Pure quel derelitto di pesce mezzo morto lo aveva schifato. Lo sconforto si trasformò in un batter d'occhio in una rabbia inconsulta. Il campano si alzò di scatto sullo scoglio e agitando corpo e braccia iniziò a urlare: «All'aneme e chitestramuort! Chillu strunz e patet e chella granda zompapereta e mammeta! Tutt' ‘e ddoje song duje mmerde sicch. E tu, tu, si pegg' ‘e lloro, pisce cornut...» La furia lo aveva colto come spesso accadeva quando si sentiva rifiutato e in difficoltà. Insieme alla tristezza era l'emozione che provava più di frequente. Un'inopinata folata di vento riportò indietro gli insulti appena sputati nel vuoto. Lo travolse una risacca di schiaffi sulle note della sua stessa voce, quasi che il pesce in tutta risposta gli avesse restituito i precedenti improperi su procura. «Cu cu ci l'hai?» La domanda, dal tono acuto e sottile, si era incuneata tra gli accordi gravi del suo sfogo irato. Rosario sussultò per lo spavento tanto che a momenti stava per perdere l'equilibrio e finire in mare. A parlare era stato un bambino di circa sei anni. Gli si era materializzato a fianco. Aveva dei calzoncini corti sdruciti, una maglia lurida che un tempo doveva essere stata bianca, i capelli erano scarmigliati e incrostati di salsedine. La pelle era ambrata. Lo guardava con due grandi occhi castano chiaro contornati da folte e lunghe ciglia nere. Erano vivaci e ricchi di vita. Gli stava sorridendo con una boccuccia color ciliegia dalle labbra carnose mostrandogli una chiostra di grandi denti bianchi dove nel mezzo si trovavano un paio di larghe finestre. Era un bel bambino dai lineamenti regolari. Se ne stava lì con il pancino buttato in avanti, a piedi nudi. Le gambette erano diventate bianche per il pulviscolo della strada. Le unghie, cerchiate di nero, completavano la figura di uno che non si lavava davvero da tanto tempo. «Cu cu ci l'hai?» ripeté il bambino visto che Rosario non gli aveva ancora risposto. «E a te che te ne fotte?» gli rispose il burbero Granata ripresosi dalla sorpresa, dopo avere alzato uno dei suoi folti sopraccigli. Non voleva essere scocciato, soprattutto quando si trovava in quelle condizioni. «U pisci nun era mortu, ruormiva, dormiva... invece, chiddu grassu, il ciccione, è mortu pi davvero!» «Che vai ricenn?» grugnì Rosario insofferente. Alle sue spalle arrivò da lontano un'altra voce che urlava il suo nome. Rosario si voltò cercando di identificarla. Era il postino del paese che stava scapicollandosi sulle rocce per raggiungerlo. Agitava le mani in aria cercando di attirare la sua attenzione, gridando per superare lo sciabordio del mare. Rosario si rigirò verso il bambino che nel frattempo aveva iniziato a correre a sua volta ma nella direzione opposta a quella del postino. «Ma che cacchiu succer?» si chiese tra sé e sé. D'un tratto si accorse di essere in mutande e che i suoi pantaloni non erano nel punto dove li aveva riposti. Si mosse per acciuffare il piccolo ladro ma era scalzo e le punte degli scogli glielo impedirono ferendolo in più punti e facendolo balzellare, nel frattempo il postino del paese si era avvicinato di qualche metro. Ansimante con le mani puntate sulle ginocchia, si era piegato accartocciandosi a causa del fiato spezzato dalla corsa. Il signor Angelo Palmisano era un uomo minuto e magro, di mezza età. Era rosso di capelli e per questo lo chiamavano tutti ‘U Puvirieddu, perché gli era capitata la malasorte di nascere malu pilu pur avendo un carattere molto docile e remissivo. Indossava la sua divisa che pareva fosse di almeno due taglie più grossa di lui e sulla testa il cappello gli pendeva di lato. Il volto era spigoloso e tempestato di lentiggini, gli occhi erano azzurri e trasparenti come la sua anima devota e pulita. Dopo avere scatarrato a terra un paio di volte l'enorme fatica appena fatta, si riebbe, deglutì e riferì a Rosario la novità della giornata appena iniziata: «Attruvarono uno dei gemelli del circu. Il clown del circo. Chiddu pacchiuni, quello grasso, accantu a la Cala Guitgia...». Finito di sfiatare il suo messaggio, il postino riprese a tossire. «Eh...» lo incalzò Rosario. «È mortu!» «Comme muort? È annegato?» «No, fu sbagghiatu, sgozzato, ammazzatu fu...» L'anima di Rosario cominciò a rischiararsi come se una notte cupa e minacciosa avesse lasciato il passo a un'alba luminosa e foriera di belle novità. Sul volto germogliò un iniziale timido sorriso che fece sollevare le pesanti sopracciglia fino a svelare due grandi occhi sgranati. Il naso scimmiesco si appiattì verso le guance di nuovo gonfie di gaudio. «Mi dissero di avvisare a vossia in mancanza d'autri rapprisintanti dâ liggi...» Rosario non lo stava più ascoltando, ormai concentrato sulla sua rivalsa. Era un'occasione di riscatto che gli si era presentata e che non poteva farsi scappare per nulla al mondo. Con un balzo, saltellò dallo scoglio sulla strada, lasciandosi dietro un paio di improperi, infilò alla meglio calzini e scarpe e si incamminò celere verso il paese, non curante delle pudenda quasi all'aria. Dopo pochi passi si fermò, come avesse dimenticato qualcosa, tornò indietro e fece il gesto dell'ombrello all'ignaro pesciolino ormai distratto e confuso tra gli altri in mezzo al mare. Fregò le mani e cominciò a correre tirandosi dietro ‘U Puvirieddu, l'affannato postino dai capelli pel di carota.
Marcella Formenti
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