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Autore: Luisa Damore
Dentro di Me Deluxe
Erotico sentimentale
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Dentro di Me Deluxe

La mia prima volta libera.

Non era la mia prima volta.
Ma era la prima in cui il mio corpo non doveva chiedere il permesso a nessuno.
Nemmeno alla mia testa.
Avevo ventisette anni e una relazione finita da poco. Avevo passato troppo tempo a fare l'amore senza desiderarlo davvero. A concedermi per quieto vivere. A fingere che il piacere fosse un dettaglio.
Quella sera no.
Quella sera era solo mia.
Andrea lo conobbi per caso, in un bar, durante un aperitivo con un'amica. Non era bellissimo. Ma mi guardava come si guarda una porta aperta. E io avevo una voglia furiosa di attraversarmi.
Gli scrissi la sera stessa. Nessuna frase costruita. Solo un invito.
“Stasera. Vieni.”
Rispose con un punto interrogativo.
Io con l'indirizzo di casa.
Quando arrivò, indossavo solo una vestaglia nera, annodata morbida. Il mio corpo sapeva dove stava andando, ma non aveva fretta.
Lo feci entrare in silenzio. Chiusi la porta dietro di lui. Nessun saluto.
Ci fissammo per un secondo. Poi si avvicinò.
Mi baciò come se lo stesse aspettando da giorni.
E io risposi. Con la bocca. Con il ventre. Con le cosce che già vibravano.
La vestaglia cadde con un gesto, e restai nuda davanti a lui. Non distolsi lo sguardo.
Non volevo essere guardata.
Volevo essere presa.
Con fame. Con rispetto. Con urgenza.
Mi spinse sul divano, le mani sulle cosce, la lingua già tra le mie pieghe calde.
Mi aprii senza timore. Senza trattenere nulla. I gemiti mi uscivano pieni, sfrontati, e non chiesi scusa.
Mi toccò come si tocca una cosa sacra. Mi fece godere con la bocca, con le dita, con gli occhi.
Poi mi sollevò e mi portò in camera. Mi prese da dietro, con le mani strette sui fianchi, il fiato caldo sul collo.
“Così mi piace,” gli sussurrai. “Forte. Dentro. Adesso.”
E lui obbedì.
Mi venne dentro mentre venivo anch'io, con un grido che mi spezzò in due.
E in quella frattura, mi trovai.
Non era la notte perfetta.
Ma era mia.
Il corpo non era un mezzo. Era un fine.
E io avevo scelto ogni attimo. Ogni goccia di piacere.
Dopo, restammo in silenzio. Nudi, un po' sudati, con il cuore che batteva ancora forte.
Lui mi accarezzava piano la schiena. Io lo lasciavo fare.
Non pensavo a cosa sarebbe successo dopo.
Non mi serviva un seguito.
Quella notte non mi innamorai.
Mi ricordai chi ero.
Una donna che gode.
Che sceglie.
Che sa dire sì.
E che, finalmente, non si vergogna più.

Il silenzio dopo il sì

Non ci sono sempre parole, dopo.
A volte il vero erotismo inizia quando le voci tacciono e resta solo il respiro.
Lui non era speciale. Ero io a esserlo, quella notte.
Ero io che avevo detto sì, non solo a lui, ma a me stessa.
Avevo scelto di andare fino in fondo, senza difese, senza maschere, senza sceneggiature.
Aveva mani grandi, occhi gentili e un modo di toccarmi che non chiedeva: prendeva con rispetto.
Mi spogliò con lentezza.
Non cercava il sesso come un bottino.
Lo cercava come una lingua da imparare.
Mi accarezzava l'interno coscia con le dita aperte.
Sfiorava.
Non invadeva.
Era uno studio. Un'indagine silenziosa.
Quando entrò in me, non mi perse di vista nemmeno per un istante.
Non gemeva. Non parlava.
Solo il suo respiro addosso al mio, e il suono umido dei nostri corpi.
Mi venne da dentro, un orgasmo che non avvisò, non esplose, trasudò da ogni mia parte.
E lui rimase lì, fermo dentro di me, ad ascoltare.
Senza parlare.
Senza pretendere di sapere cosa avevo sentito.
Solo dopo, stesi l'uno sull'altro, restammo immobili.
Nessuno dei due disse nulla.
Ma quel silenzio era pieno. Denso. Vivo.
E capii una cosa che avrei ricordato in tutte le notti successive:
che il sesso migliore non è quello rumoroso.
È quello che ti svuota anche la mente.
Che ti lascia muta.
Perché finalmente, non hai più bisogno di spiegarti.

Una donna, uno specchio

Con lei non c'erano ruoli. Solo riflessi.
Le sue mani sul mio ventre, la sua bocca lenta.
E uno specchio accanto al letto che ci restituiva nude, vere, quasi feroci nel nostro desiderio.
Era la prima volta che stavo con una donna.
E non mi sentivo sbagliata.
Mi sentivo viva. Spogliata di tutte le aspettative.
Liberata.
Lei era più grande. Quarantacinque anni.
Io ventisette.
Non mi spiegò nulla. Non mi prese per mano.
Mi guardò. E basta.
“Vieni da me,” mi aveva detto. “E sii tutta.”
Mi svestì con pazienza.
Non per scoprire il corpo, ma per disinnescare le mie paure.
Toccava poco. Guardava tanto.
E mi parlava con gli occhi.
Mi fece sdraiare.
La pelle contro le lenzuola era già un piacere.
Ma quando la sua bocca sfiorò i miei capezzoli, capii che il vero godimento non era l'intensità.
Era la lentezza.
Era lo stare.
Il rimanere su di me.
Mi baciò tra le cosce con la lingua umida e lenta.
Le sue dita giocavano con il mio respiro, non con la mia carne.
Mi apriva senza forzare.
Mi leccava come si bacia un'amica.
Con verità.
Venni con una dolcezza nuova.
Non fu uno scoppio. Fu uno scioglimento.
La mia schiena tremava, ma il cuore era fermo. Calmo. Presente.
Quando mi guardai allo specchio, vidi una donna che non avevo mai visto.
Io.
Nuda. Non impaurita.
Sporca solo del mio piacere.
Poi venne il mio turno.
Le baciai i seni.
Le baciai le cicatrici.
Le dissi che era bella.
E lei mi aprì come si aprono le cose sacre: con un sì.
Farla venire fu un onore.
E capii che tra donne non c'è lotta.
C'è eco.
Riflessione.
Riconoscimento.
Quella notte lo specchio non serviva più.
Avevo imparato a guardarmi da dentro.

Tradire per sentirmi viva

Avevo un compagno.
Una casa in affitto insieme, una lista della spesa sul frigorifero, due spazzolini nello stesso bicchiere.
Avevamo tutto, tranne il desiderio.
Non era colpa sua.
Non era colpa mia.
Era il tempo. Era la routine.
Era quel silenzio che si stendeva tra di noi ogni notte, quando spegnevamo la luce e nessuno dei due osava avvicinarsi.
Poi arrivò Luca.
Lavorava in un'altra sede. Ci incrociavamo solo in rare riunioni.
Occhi ironici, voce profonda.
Mi faceva ridere.
Mi faceva pensare.
E poi mi fece tremare.
Mi baciò un giorno in ascensore.
Non fu un bacio casto.
Fu un bacio sporco.
Un bacio affamato, pieno di tutto quello che non ricevevo da mesi.
Il giorno dopo, andai da lui.
Vestita bene, truccata appena.
Mi aprì la porta e non ci fu neanche un saluto.
Mi spogliò nel corridoio.
Mi sollevò, mi portò a letto, mi prese.
Forte.
Dentro.
Senza chiedere se poteva.
Lo faceva perché lo volevo.
Lo faceva perché il mio corpo gli stava dicendo sì in ogni gemito.
Venni quasi subito.
Un orgasmo lungo, rabbioso.
Una valvola che cedeva dopo mesi di pressione.
E mentre lui mi leccava il collo, mi domandai:
“Questo è tradimento? O è sopravvivenza?”

Ma Luca non fu l'unico.
Dopo di lui ci furono altri.
Alcuni cercati. Altri trovati.
Un uomo sposato in una trasferta.
Un ragazzo più giovane in palestra.
Un ex che tornava solo per portarmi a letto.
Non era dipendenza.
Era fame.
Mi sentivo viva solo mentre venivo.
Il momento in cui il corpo prende il sopravvento sulla mente.
Quando non pensi a chi sei, ma solo a cosa senti.
A volte mi facevano venire con la lingua.
Altre volte mi piegavano con le mani legate al letto.
Una volta, in macchina, uno mi prese mentre pioveva forte.
Il rumore della pioggia copriva i nostri sospiri.
E io mi sentivo pulita, anche nel fango.
Non mi giustifico.
Ma neanche mi vergogno.
Ogni volta tornavo a casa, mi lavavo via l'odore.
Ma non il senso.
Mi guardavo allo specchio.
Mi dicevo: “Stai cercando qualcosa.”
E non era solo sesso.
Era ascolto.
Era verità.
Era uno spazio in cui non dovevo fingere.
Finché un giorno, guardandolo dormire accanto a me — il mio compagno di sempre — capii che non lo stavo tradendo.
Mi stavo tradendo stando con lui.
E allora lo lasciai.
Non per un altro.
Ma per me.
Perché il piacere può mentire.
Ma il desiderio no.

Le onde del mare

Il mare, quella primavera, era mosso.
Non impetuoso, ma vivo.
Come me.
Tornavo in quella casa al mare ogni anno, e anche lui. Malik.
Un amico dell'università.
Un uomo che aveva sempre mantenuto una distanza rispettosa, e uno sguardo che parlava.
Ci eravamo desiderati senza mai dirlo.
Anni di silenzi, battute svelte, sguardi che si fermavano un secondo in più.
Quella sera, il cielo era velato.
Le onde erano inquiete, ma lente.
Ci sedemmo vicini sulla sabbia, il vino in mano, il vento addosso.
“Ti ricordi quando leggevamo Rimbaud sotto le scale?”
“Mi ricordo che guardavo le tue gambe più della poesia,” disse.
Sorrisi.
E poi non dissi nulla.
Perché qualcosa stava cambiando.
Ci baciammo senza urgenza.
Come chi ha già baciato l'altro mille volte nella testa.
Mi toccò il viso, poi le spalle, poi le cosce.
Ci spogliammo in silenzio, come si spogliano i dubbi.
Ogni pezzo che cadeva, un segreto rivelato.
Mi leccò tra le gambe senza fretta.
Ogni sua lingua era come un'onda.
Si avvicinava. Si ritraeva. Tornava.
Mi venne un orgasmo profondo, uno di quelli che non urlano, ma lasciano il corpo inondato.
Poi mi salì sopra.
Entrò piano, affondando dentro come fa la marea.
Ci muovevamo insieme, lenti, continui, dolci.
Non volevamo finire.
Volevamo restare.
In quell'abbraccio umido, salato, vero.
Quando venne, lo fece con un rantolo soffocato nel mio collo.
E mi tenne stretta, come chi non vuole tornare a riva.
Dormimmo nudi, con la sabbia che ci pizzicava la pelle.
E al mattino ci salutammo con un bacio, senza dire cosa fosse stato.
Non era amore.
Era qualcosa di più puro.
Era riconoscersi senza doversi tenere.
Quella notte il mare era dentro di me.
E non avrebbe mai più fatto silenzio.

Il gioco del dado

Il gioco del dado non ammetteva incertezze.
Ogni lancio era un ordine, ogni numero una promessa, e per la prossima mezz'ora i ruoli non esistevano: solo la sorte e la pelle.
“Sei,” sussurrò lui, con gli occhi che brillavano nella penombra.
Il piccolo dado di metallo rotolò sul tavolo di vetro, fermandosi sul numero che conoscevo fin troppo bene.
Sospirai, portando le mani dietro la schiena.
“Sei significa... una rimozione lenta e non assistita di un capo d'abbigliamento a tua scelta.”
La sua bocca si incurvò in un sorriso che non chiedeva: pretendeva.
Indicò la mia maglia di cashmere color ambra, quella che avevo scelto apposta, già sapendo.
Iniziai.
Non con fretta, ma con la consapevolezza che ogni millimetro di stoffa che si staccava era una prova di resistenza.
Sbottonai il primo bottone sotto il mento, poi il secondo, e il clic del metallo sembrò un suono osceno nella quiete.
Lo guardai mentre il suo respiro si faceva più pesante.
Quando il tessuto scivolò dalle spalle, lo lasciai indugiare.
Una spalla nuda, la linea pulita della clavicola, la manica ancora aggrappata al gomito.
Ero metà vestita, metà rivelata.
E in quel confine, mi sentii potente.
Lui si mordeva il labbro.
Sapeva che stavo rispettando la regola.
Era la sua punizione: godere a distanza, mentre la mia pelle emergeva piano dal cashmere arrendevole.
“Adesso tocca a te,” dissi, la voce un filo di seta, l'unica cosa che mi copriva davvero.
Non rispose.
Afferrò il dado, lo strinse finché le nocche non sbiancarono, poi lo scagliò.
Il tonfo sul tappeto fu un colpo al cuore.
Non guardò il numero.
Alzò lo sguardo su di me, e in quegli occhi lessi la resa.
“Non c'è bisogno di aspettare il lancio,” sussurrò.
E in quel momento, il gioco finì.
Restammo solo noi, e la regola più antica di tutte: la necessità.

Luisa Damore

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