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Autore: Alessio Monni e Stefania Prati
Le Fiabe Horror di Corvelius: Raperonzolo
Fiaba Horror
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Le Fiabe Horror di Corvelius: Raperonzolo

Raperonzolo si addentrò nella cittadina.
Le strade erano deserte. Ma chi, come me, guarda bene può scorgere – sotto la luce fredda della luna – le impronte: strisciate marroni, grumi rappresi, schizzi come dita tremanti lungo i muri.
Un filo di fumo si levava oltre i tetti, lento e denso.
Lontano.
Odorava di legna bruciata e di qualcosa di più dolciastro.
Raperonzolo avanzò, i piedi scalzi sfioravano i ciottoli impolverati.
Io la seguivo, perdendomi nella sua ombra.
Si fermò davanti all'insegna penzolante della locanda.
Una flebile luce si accese nel suo sguardo e la fame si fece più intensa.
La sua, ma anche la mia.
Varcò la soglia e io con lei.

Dentro, la puzza la investì come uno schiaffo. Non odore di chiuso, ma di qualcosa che marcisce lentamente. Non c'era alcuna traccia degli avventori.
I tavoli erano apparecchiati, ma i piatti traboccavano di un'altra vita: nugoli di mosche nere, pance lucide, zampe che guadavano pezzi di carne grigiastra, croste di pane sudicio, chiazze d'olio iridescente.
Raperonzolo serrò le labbra e si coprì il naso con la manica, ma non bastava. Il tanfo si infilava ovunque, nella bocca, nella gola, sotto la pelle.
I capelli, lunghi e pesanti, si trascinavano dietro di lei come un'ombra. Si incastravano tra le gambe dei tavoli, si annodavano alle sedie, la trattenevano con strattoni improvvisi che le facevano perdere l'equilibrio.
Inveì a denti stretti, finché non scorse una corda abbandonata su un tavolo. La afferrò e, con movimenti nervosi, si legò i capelli. Erano troppi comunque: la massa scendeva oltre i fianchi, pesante e viva come un animale che non voleva farsi domare.
Più libera nei movimenti, continuò l'esplorazione della locanda. Gli occhi grigi della fanciulla si muovevano rapidi da una parte all'altra, inquieti, come se cercassero disperatamente qualcosa che potesse placare la morsa della fame e l'arsura della sete.
Ogni ombra, ogni movimento sembrava promettere sollievo, finché non scorse, in fondo al corridoio, la porta socchiusa della cucina.
Appena varcata la soglia, fu investita da un odore stantio e acre: l'aria lì dentro era persino peggiore.
Caraffe scoperte, formaggi molli, sacchi squarciati. L'odore era denso, pesante, come se qualcosa fosse morto nell'aria stessa.
Trovò una brocca d'acqua. Il vetro era appannato, l'interno incrostato.
Eppure bevve.
L'acqua era tiepida, stagnante, con un retrogusto ferroso e muffito. Tossì, sputò. Ma le sue labbra erano screpolate e la gola bruciava.
Ne bevve ancora.
Poi lo vide: un pezzo di formaggio appena più solido, meno avvizzito. Le dita tremavano mentre lo spezzava. Il morso fu un errore: la muffa scoppiò sulla lingua, acre, pungente.
Sputò, tossendo, mentre le lacrime le rigavano il viso.
Fu allora che sentì il rumore.
Un passo? Uno scricchiolio?
Si raddrizzò di scatto, la bocca sporca, il cuore che galoppava.
Guardò verso la scala: saliva nel buio, come la lingua d'un serpente pronto a ingoiarla.
Ma il suono era reale. Un sussurro? Un movimento sopra?
Qualcuno.
Qualcuno era vivo.

Salì le scale quasi correndo. Il corridoio era immerso nell'ombra, le finestre scoperte lasciavano filtrare la luna – e più lontano, le fiamme. L'incendio divampava contro la notte, un bagliore tremolante che disegnava ombre danzanti sui muri.
Un altro rumore. Più vicino.
Si mosse a passi rapidi, il fiato corto, le mani serrate.
La porta era socchiusa.
Raperonzolo entrò.
Di spalle, vicino alla finestra, c'era un uomo. Alto, immobile.
Il cuore di lei si rilassò, come un tamburo che cambia ritmo.
Finalmente.
«Signore?» mormorò.
La figura si mosse. Lentamente. Troppo lentamente. Le spalle si girarono con un suono umido, innaturale. Il collo si inclinò in modo errato, come se le vertebre fossero allentate. Le vesti lacerate lasciavano intravedere le costole nude.
Poi il volto.
O quello che ne restava.
La pelle pendeva a brandelli, uno zigomo era scoperto, le labbra strappate lasciavano intravedere i denti marci.
Gli occhi – vitrei, lattiginosi – non la guardavano. La attraversavano. Eppure sembrò rendersi conto della sua presenza.
E allora il mostro urlò.
Ma non come un uomo.
Il grido fu un lamento stridulo, affilato, simile al metallo graffiato. Vibrava nelle ossa, nei denti.
Lei fece un passo indietro, poi un altro.
Poi corse, giù per le scale, cieca, inseguita da quel grido che sembrava moltiplicarsi.
Non sapeva che quel suono non era solo un urlo.
Era un richiamo.


Il legno marcio della porta della locanda gemette sotto le sue mani sottili, e l'odore di rancido e fumo spento si mescolò a quello, più acre, che filtrava da fuori.
L'aria le colpì il volto come uno straccio intriso di cenere, letame e carne lasciata a marcire; l'odore le strisciò nelle narici e le si aggrappò in gola. L'incendio divorava l'orizzonte: lingue di fuoco, rosse e vive, serpeggiavano nel cielo plumbeo, cercando la luna come un predatore che afferra la preda.
Mi appollaiai sopra di lei, tra le travi nere del portico, e vidi come stringeva le braccia al petto, quasi a trattenere il cuore che le scalpitava in gabbia.
Fuori, vide ciò che prima le era sfuggito: il selciato era un mosaico di fango, sangue rappreso e bucce di rapa schiacciate dagli zoccoli. Dai canali di scolo colava acqua sporca, trascinando con sé una poltiglia marrone-rossastra che gorgogliava nei tombini.
Le strade, deserte e silenziose al suo arrivo alla locanda, ora rigurgitavano corpi che si muovevano. Alcuni piegati, trascinando le gambe come sacchi umidi, con piedi gonfi e violacei. Altri scattanti, con denti scoperti e occhi vuoti come noci forate dai topi. Il loro lamento si levò e ricadde in onde stonate: dai brontolii gutturali e profondi, cavernosi e animaleschi, scivolava fino a un suono acuto, troppo simile al pianto di un neonato.
Una donna senza labbra passò davanti alla taverna, stringendo al petto una bambola d'ossa; il suo cranio era una cupola lucida, coperta da brandelli di pelle. Dietro, un vecchio dal ventre squarciato lasciava cadere viscere come fili di corda che pestava coi piedi senza accorgersene.

Raperonzolo arretrò d'istinto, ma un braccio spezzato, che pendeva ancora da una spalla slabbrata, le piombò addosso, artigliandole la manica con dita nodose.
Gridò. Io strillai con lei, spalancando le ali. Fuggì, e io la seguii, gettandomi in picchiata tra i tetti.
Corse tra le case di legno annerito, il fiato le usciva in sbuffi bianchi come vapore da una pentola, mentre il rumore dei suoi passi nel fango batté come il tamburo di una processione funebre.
Dietro, il coro di denti che battevano e unghie che raschiavano le pareti, strappando schegge di legno, cresceva di passo in passo.
Superò un mercante riverso su un banco di mele marce: alzò il capo di scatto, rivelando occhi pieni di larve lattescenti.
Dalla finestra di una bottega, un bambino dagli arti piegati in angoli impossibili si lasciò cadere in strada, contorcendosi come una marionetta rotta.
Un cane senza coda le attraversò la strada, la pelle lacerata che lasciava scoperte strisce di carne rossa.
La fanciulla svoltò in un vicolo; lì, l'ombra si fece più spessa, l'aria più stretta e umida.
Ma non bastò.
Due figure strisciarono da un angolo, le unghie come uncini. Un'altra si lasciò cadere da una finestra, il collo storto come un ramo spezzato, la mandibola che penzolava.
Lei si bloccò – ed è allora che qualcun altro si intromise prepotente a cambiare il corso della nostra storia.
Un giovane, alto, col mantello che gli tagliava le spalle in diagonale, il viso pulito come un ritratto appena dipinto, gli occhi fermi come acqua di pozzo.
Le afferrò il polso con una stretta ferma, ma non violenta, e la trascinò verso un portone basso, di quercia, inchiodato di ferro.
Lo aprì con un colpo secco: il legno gemette, rivelando una bocca scura e umida che soffiò aria fredda.
Li inghiottì.

Le scale di pietra grezza scendevano in curve strette, bagnate, col muschio che le macchiava di verde scuro. L'odore di muffa e acqua stagnante si fece sempre più forte, fino a bruciare la gola.
Il rumore sopra di loro si trasformò in un ruggito soffocato: unghie, ossa, porte che cedevano, e voci che si trasformavano in gorgoglii.
Scivolarono più giù, fino a quando l'aria non odorò solo di muffa, ma di cloaca: ferro arrugginito, rifiuti, liquame putrido.
Là sotto, l'acqua scorreva lenta, nera, in un canale largo quanto il corridoio di un castello, con topi grassi come gatti che scomparivano nei buchi del muro.
La volta bassa era di pietra umida, da cui pendevano stalattiti di calcare e vecchie ragnatele.
Continuai a seguirli, tenendomi lontano da quei putridi ristagni in cui l'acqua rifletteva ombre deformi. Avanzarono ancora, finché i rumori del mondo di sopra si dissolsero. Restarono sospesi in un silenzio denso, impregnato di effluvi rancidi e umidità marcia.
Si fermarono solo quando il rumore dell'acqua superò quello del loro respiro.
Lui la fissò come un uomo che riconosce un fantasma. Il mantello gli aderiva alle spalle bagnate, e un luccichio – forse sudore – gli velava la fronte.
«Come vi chiamate?» le chiese con voce dolce, intrisa di regalità, cercando il suo sguardo.
La fanciulla si smarrì in quei pozzi scuri; il suo cuore fremette, battendo forte – non per timore, ma per qualcosa di diverso, sconosciuto, che le salì alle guance con un calore improvviso.
«Raperonzolo» sussurrò.
Lui sorrise. «Avevo riconosciuto la vostra chioma... quel nero lucido, così bello e maestoso.» Si interruppe, cogliendo la perplessità nei suoi occhi. «Oh, perdonate la mia insolenza.» Fece un lieve inchino, quasi teatrale. «Non mi sono presentato: sono il Principe Luren, erede al trono di questo regno. Udii di una fanciulla dai lunghi capelli neri, rinchiusa da una strega in una torre.» Gli occhi si muovevano lenti, studiandole il volto. «Partii per cercarvi, ma la pestilenza è giunta a divorare le nostre terre... e mi ha impedito di raggiungervi.»
Il suono dell'acqua continuò a battere, lento e costante, come un cuore che non voleva fermarsi.
Sopra, la città marciva.

Alessio Monni e Stefania Prati

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