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C'era una volta uno specchio a volta, poco più alto del ra-gazzo che gli stava di fronte.
Gli specchi sono affascinanti, misteriosi e un po' inquie-tanti. Tutti lo sanno, nessuno ci pensa. Quello che vedi quando ti guardi allo specchio non sei tu, ma il tuo con-trario. La sua destra è la tua sinistra. Se hai un qualcosa su una guancia, lui ce l'ha sull'altra. Se muovi il braccio destro, lui muove il sinistro Se gli fai l'occhiolino, lui ti risponde con l'altro. Se ti giri di scatto lo fa anche lui e sembra quasi che ti prenda in giro.
Lo specchio a volta davanti al ragazzo era ancor più strano e sconcertante. Rifletteva la parte posteriore della figura invece di quella anteriore! La nuca invece della faccia, le spalle invece del torace, la schiena invece della pancia e via dicendo. Sembrava che ci fossero due ragazzi per-fettamente uguali in fila, una dietro l'altra. Quella dentro lo specchio era immersa in una nebbia e guardava chissà dove, chissà cosa.
Allora, Zac capì che stava sognando. Quando succede è una bella sensazione perché si passa da spettatori a pro-tagonisti e si può decidere il corso degli eventi. Ameno, si può tentare. Proprio come nella vita reale.
Zac fece un passo indietro e la sua immagine ne fece uno in avanti. Tornò dov'era prima e anche l'altro Zac tornò al suo posto. Sembrava un balletto divertente. Il ragazzo si chiese cosa sarebbe successo se avesse fatto un secondo passo in avanti? Avrebbe sbattuto il naso contro lo specchio? Sarebbe entrato? L'altro Zac sarebbe uscito?
Mentre pensava queste cose, udì provenire dall'interno un sussurro indistinto che piano piano si fece più forte, fino a diventare una voce chiara e solenne che gli disse di a-vanzare.
Zac rimase sorpreso e infastidito. Uno specchio magico che parla era proprio banale e infantile. Per la miseria, a-veva tredici anni, non era mica un bimbo dell'asilo! La voce ripeté l'invito.
Zac perse la pazienza e rispose con un seccato:
«Stai un po' zitto!»
Seguì un breve silenzio nel quale Zac temette di essere stato troppo impulsivo. In fondo, non sapeva con chi o con che cosa aveva a che fare. Ma poi udì un sospiro profondo e la voce continuò:
«Hai ragione, sono troppo insistente. Devi capire, non è facile la vita di uno specchio magico, a giorno d'oggi! Trop-pa concorrenza! Film in 3D, video-giochi sofisticati, effetti speciali, realtà virtuale, realtà aumentata, qualsiasi cosa sia. Ormai, uno come me non desta nessun interesse. So-no un relitto del passato. Ma credimi, nessuno può darti quello che io ti offro. Ascoltami e non te ne pentirai.»
Su una cosa lo specchio aveva ragione, Zac si stava an-noiando a morte. Si grattò la testa e chiese:
«Se lo faccio, cosa ci guadagno?»
«Solo entrando lo saprai»
Il ragazzo fece una smorfia e alzò le spalle in segno di de-lusione. Lo specchio capì che Zac non si sarebbe lascia- to convincere facilmente. Allora, tentò un'altra strada:
«Potrei darti quattro zecchini d'oro»
Zac non reagì bene:
«Zecchini d'oro!? Che roba è?!» «Sono monete preziose ma il loro valore attraversa il tem-po e lo spazio»
Zac era stufo di quelle risposte fumose e voleva mettere fine a quel dialogo imbarazzante.
«Quanto sei noioso! Dammi le monete e facciamola finita»
«Metti la mano in tasca»
Zac obbedì ed estrasse quattro scintillanti monete. Sorrise soddisfatto e annuì. Ora poteva entrare. Avanzò lenta-mente e sentì una leggera brezza sfiorargli il viso. Fissò lo specchio, trattenne il respiro, avanzò. Zac chiuse gli occhi per paura di sbattere contro la superfice dello specchio e quando li riaprì, si ritrovò in mezzo ad un bosco fitto di al-beri e arbusti. Si guardò intorno, vide un sentiero e lo se-guì. Fece solo pochi passi, sentì delle voci e si nascose.
Rannicchiato tra i cespugli, vide una bambina vestita di rosso che conversava con un lupo. Zac reagì con un gesto di stizza. Uno stupido specchio magico lo aveva portato in una stupida favola per poppanti! Erano ben altre le sue a-spettative. Dopo un momento di indecisione, forse per di-spetto, forse per rendere più interessante quella strana av-ventura, gli venne un'idea terribile: cambiare la storia della favola, fare quello che il lupo non era stato capace di fare, togliere di mezzo Cappuccetto Rosso!
Zac non era malvagio. Certo, gli capitava di arrabbiarsi o litigare, ma non era un prepotente, figuriamoci un assas-sino. Quell'idea un po' truce era nata dalla consapevolez- za che, in fondo, si trattava solo di un sogno. Anzi, era il sogno di una favola, il massimo della finzione! Più che al-tro, era curioso di vedere cosa sarebbe successo se aves-se colpito la bambina: le sarebbe spuntato un bernoccolo gigante con gli uccellini intorno, come nei cartoni animati? Lui si sarebbe svegliato? Cappuccetto Rosso sarebbe sparita come una bolla di sapone?
Mentre pensava queste cose, il lupo si allontanò e la bam-bina si mise a raccogliere fiori. Era arrivato il momento buono per agire. Zac si guardò intorno, vide una grossa pietra e la raccolse. Si avvicinò di soppiatto e proprio men-tre stava per lanciarla, sentì un grido alle sue spalle:
«NOOO!»
Zac si girò di scatto e vide un bambino, di nove o dieci anni, che lo guardava esterrefatto. Dopo un attimo di esi-tazione, il ragazzino si voltò e fuggì tra gli alberi. Aveva ca-pelli lunghi e neri che danzavano sulla nuca mentre corre-va agile sul terreno irregolare, scansando rami e cespugli. Dopo aver percorso una ventina di metri, si fermò e si voltò per guardare ancora Zac. Aveva uno sguardo fiero. Restò incerto sul da farsi per un attimo, poi riprese la corsa e sparì tra i rovi del bosco. Zac decise di inseguirlo. Non a-veva cattive intenzioni, solo capire chi fosse e cosa ci fa-cesse nel suo sogno. Si lanciò nella direzione in cui il ra-gazzino era andato ma mossi pochi passi, il bosco svanì intorno a lui, tutto piombò nel buio e nel silenzio.
Dopo un tempo senza tempo, fu svegliato dai rumori pro-venienti dal primo piano della sua casa e dalla luce mattutina che filtrava dalla finestra della sua stanza. Zac sbadigliò, si stirò e si alzò pigramente, senza alcun ricordo del sogno. Mentre si infilava i pantaloni sentì uno strano tintinnio e vide rotolare sul pavimento le quattro monete d'oro. In quello stesso istante, ricordò lo specchio, la voce e tutto il resto.
Forse stava sognando di nuovo, ma le monete erano lì, davanti ai suoi piedi. Si abbassò, le raccolse, ne mise una tra i denti e le diede un morso, come aveva visto fare nei film, anche se non sapeva cosa aspettarsi da quel gesto. Lo scoprì subito:
«Ahi!»
Non avrebbe saputo dire se erano d'oro, ma senza dubbio erano reali e non commestibili. In qualche modo, le mo-nete avevano valicato il confine tra sogno e realtà. Forse c'erano tante spiegazioni ma a Zac non gliene veniva in mente neanche una. Subito, decise di non raccontare que-sta storia assurda a nessuno. Non ci teneva a passare per matto. Rimise in tasca le quattro monete, finì di vestirsi e scese a far colazione.
Alla prima occhiata si accorse sua mamma era di cattivo umore. Maneggiava rumorosamente tazzine e posate. Era tesa, preoccupata, forse arrabbiata. Zac non conosceva il motivo di tanta agitazione ma sapeva che ben presto ci sarebbe andato di mezzo lui. Infatti, appena la mamma lo vide, disse con tono severo:
«Non devi più andare nel bosco!»
«Come, scusa?»
«Hai capito bene!»
Zac non aveva nessuna intenzione di andare nel bosco che divideva due paesi vicini e che si estendeva ai lati della strada fino ai pendii dei monti. Guardò la madre e la sua faccia diceva, sei impazzita? Lei sembrò leggergli nel pensiero e disse:
«Non sono matta, guarda qui!»
Dicendo queste parole, gettò sul tavolo il giornale locale con una foto in prima pagina e un titolo vistoso: Bambino scomparso nel bosco. Zac gettò un'occhiata al foglio e ri-conobbe il ragazzino del sogno. Riuscì a fermare solo in parte l'imprecazione:
«Porca ... !»
La mamma lo fulminò con gli occhi ma era più incuriosita che infastidita dalla mezza parolaccia:
«Lo conosci?» «Mai visto» «Sicuro? Sei sbiancato quando hai visto il giornale» «Mi ha solo ricordato la favola di Cappuccetto Rosso»
La madre lo guardò infuriata:
«Ti va di scherzare? A me, no! Questa è una cosa seria. Stammi bene a sentire. Non devi allontanarti o andare in luoghi isolati. Chiaro!?»
Zac non protestò, nonostante fossero proibizioni ingiusti-ficate ed esagerate. Era ancora sconvolto dalla foto del bambino del sogno che campeggiava sul giornale. Disse a sua mamma tutto quello che lei voleva sentirsi dire e si preparò per andare a scuola. Salì in camera, raccattò i suoi libri, sparsi ovunque e controllò, ancora, le monete.
Nel tragitto verso scuola, Zac ricordò le parole dello spec-chio: se mi dai una possibilità, non te ne pentirai. Era stato di parola! Stava vivendo un vero mistero.
Zac aveva già vissuto un numero incalcolabile di cose straordinarie, combattuto un centinaio di guerre, assistito a migliaia di omicidi, viaggiato nel tempo e nello spazio, lottato contro creature fantastiche e ucciso tanti mostri or- ribili. Però, questa avventura era diversa. Era reale! Non era un video gioco. La conferma erano le monete nella sua tasca che continuava a stringere, quasi temesse che spa- rissero. Senza contare la notizia riportata dal giornale sulla scomparsa del ragazzino che aveva visto nel sogno che rendeva tutto ancor più misterioso e inquietante.
A scuola, quella mattina, le lezioni sembravano più noiose del solito. Parole, numeri, nomi e date che entravano in un orecchio e uscivano dall'altro senza lasciar traccia. Le le-zioni della Gobba, l'odiosa insegnante di lettere, erano una tortura. Era una donna sulla cinquantina, dal fisico tar-chiato, la testa incassata nelle spalle e la voce fastidio-samente stridula. Una specie di Quasimodo di Notre Dame in gonnella. Per uno scherzo del destino, di cognome face-va Gobelli e il soprannome di Gobba, che i ragazzi le ave-vano affibbiato, era perfetto per descrivere il suo aspetto fisico. I ragazzi possono essere crudeli con gli insegnanti, ma il più delle volte è legittima difesa.
L'antipatia è una reazione naturale e involontaria, come la pelle d'oca. Fa freddo, ti vengono i brividi. Conosci una persona, la senti parlare e ti vien voglia di strangolarla. Non ci puoi fare niente. Questo è quella che provava Zac nei confronti della sua prof e non era certo l'unico ad ave-re questa reazione. Niente di strano, succede dappertutto e da sempre. Però, questa avversione era ricambiata dal-l'insegnante. Sembra una cosa brutta per una persona e-ducatrice. Ma gli adulti sono solo bambini avariati.
Zac non riusciva a stare fermo dentro il banco. Si girava. guardava fuori dalla finestra e si girava continuamente ver-so i compagni, disturbando la lezione.
«Zaccaria! Smettila di agitarti!»
La voce stizzita della Gobba lo colpì come un colpo di fru-sta. Lei si ostinava a chiamarlo con il suo nome di batte-simo che Zac detestava. Suonava troppo vecchio e buffo Per fortuna, tutti lo chiamavano Zac, che, pur essendo l'abbreviazione di un nome tanto brutto, suonava bene.
Zac! Una colpo di spada! Zac, una saetta che squarcia il cielo! Zac, velocità e precisione!
La Gobba lo chiamava Zaccaria. Forse, sapeva che la co-sa dava un enorme fastidio al ragazzo. Lei non era tenera con gli studenti come Zac. Non sopportava quello che met-tevano in discussione la sua autorità. Nella sua classe non voleva alunni ma soldatini devoti ed obbedienti. Lui non si lasciava certo mettere sotto i piedi, rispondeva a tono, per la rabbia della Gobba e per il divertimento dei compagni-
«Non sono una statua! E mi chiamo Zac!» «Magari, tu fossi una statua! E ti chiami Zaccaria, il regi-stro non mente.»
Zac vide la possibilità di vincere la noia e divertirsi un po':
«Dovrebbero proprio farmela una statua e potrebbero in-titolarla: allo studente ignoto, simbolo di persecuzione e di ingiustizia, martire della scuola ... »
La Gobba non cade nel tranello. Urlò:
«Basta!»
Non aggiunse altro e continuò imperterrita a dispensare la sua quotidiana dose di sonnifero. Zac tornò ai suoi pen-sieri. Avrebbe tanto voluto confidare a qualcuno la storia del sogno, delle monete e del bambino scomparso ma par-larne con gli amici non sembrava una buona idea. Ri-schiava di passare per un'idiota, uno che si inventa stra-nezze per mettersi al centro dell'attenzione. Mostrare le monete sarebbe servito a poco. Non poteva dimostrare la loro provenienza. For-se avrebbe potuto farlo con il suo migliore amico, Thomas. Non gli avrebbe creduto ma, per-lomeno non l'avrebbe preso in giro. Dopo averci pensato, decise di tacere perché, comunque, sarebbe stato troppo strano.
Finite le lezioni, Zac si avviò verso casa. Appena uscito dal cancello della scuola, volle sincerarsi per la milione-sima volta, che le monete fossero ancora al loro posto. Le tirò fuori dalla tasca e le guardò con attenzione. Magari gli era sfuggito qualche particolare importante. Continuando a camminare con gli occhi fissi sulle monete, non vide una ragazza e andò a sbatterle contro. Le monete gli sfuggi-rono di mano e rotolarono per terra.
La ragazza le seguì con lo sguardo stupito ed esclamò:
«Ehi! Quelle sono mie!»
J.P. Bras
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