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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Paolo Raimondi
Titolo: Ancora un po' di noi
Genere Poesia e Racconti
Lettori 3912 69 112
Ancora un po' di noi
In treno.
Direzione Nord, gelo di freddo.
Un clima inusuale per le mie latitudini,
per un viaggio avversario delle mie abitudini. Sto andando dove? Ancora non lo so.
Forse verso un posto nuovo e un'incognita giornata. Verso un domani differente,
indifferente al mio pavido passato.
A cercar un briciolo di libertà
o a ricucire un po' di ferite interne, invisibili all'esterno.
Quel male d'anima che ti squarcia poco a poco e ti divora mano a mano
e ti invecchia di un anno un giorno.
Senza neanche far rumore. Senza avvertire l'inodore. Come un gas mortale, che ti uccide col sorriso in bocca e si dilegua come se non fosse stato mai.
Sono a lato finestrino, il mio preferito. Guardo la vita scorrermi sotto i piedi,
col passo svelto di chi ha fretta di arrivare. Di fuggire dalla partenza prima che può, prima che ci ripensi.
Non esiste un mezzo di trasporto
che racchiuda in se tante metafore, come il treno. Il paesaggio che si lascia bucare.
La terra affianco che ti scivola indietro
e di cui cerchi invano di carpirne l'essenza, rubando fermo immagini dal vetro.

Le rotaie su cui stabilizzi il tuo viaggio. Amanti paralleli che non si incrociano, ma si fanno compagnia.
I passeggeri che ti guardano o si guardano o leggono un giornale o parlano del tempo
o "di quella volta che",
quell'aneddoto che vale la pena raccontare, anche al primo sconosciuto di passaggio.
Compagno di viaggio.
Sembra una metafora del tutto il tragitto in treno. Io non riesco a familiarizzare così velocemente, ma amo chi lo sa fare.
Amo osservare ed estrapolare l'umanità da chi l'umanità la crea.
Chi racconta la sua storia in tre ore di viaggio, come un Bignami della propria esistenza.
Chi dice la verità. Chi la ingrandisce.
Chi fa ancora meglio e se la inventa. La verità. Io sorrido al pensiero del mio mutismo.
Mi piace pensarlo necessario. Che se iniziassi a parlare,
non basterebbero dieci viaggi o un mese per descrivere un mio giorno
e tutto il silenzio che ho da dire, da anni a questa parte. Ammorberei tutto il vagone se solo volessi,
non accontentandomi del mio vicino.
Lasciamo perdere che è meglio. Sto al mio posto. Comodo riparo dal pericolo.
Un po' vile, un po' malinconico.
Ho voglia di nostalgia e di rimproverarmi di volerla.

Sono un onesto paraculo a dirla tutta.
Mi sento vittima e carnefice al tempo stesso
e la qualcosa sa tanto di pretesto, per aver sempre ragione. La ragione è dei fessi, dice un detto.
Io sono il fesso che sembra aver ragione. Dormicchio, piagnucolo e rifletto.
Cosa diavolo sto facendo? Rannicchiato nelle mie stolte paranoie,
gli istanti son passati svelti, manco fossero tre ore. È ora di scendere dalla mia astronave di pensieri. Radio treno dice che la stazione è quella giusta, dove poter scendere e ripartire a piedi.
Fa tanto freddo. Sembra di stare su Marte.
Un pianeta distante solo centinaia di chilometri. Che bella che è l'Italia. È come una bella donna,
che non ha bisogno di truccarsi per apparir stupenda. E che anzi si ingegna ad imbruttirsi un po',
perché se ne fotte di apparire.
L'Italia è Africa e Nord Europa insieme, lungo la lunghezza di stivale.
Ero in compagnia delle zanzare poche ore fa, ora un cielo plumbeo mi promette aria di Natale e minaccia la quiete della neve.
Anche la gente è diversa.
Quanto di più distante dal gusto di "caciara",
che a Roma si respira come un'invadenza bonaria. Sono tutti infreddoliti, chini su loro stessi.
Accartocciati in pensieri che fanno fatica a condividere, forse anche a rivelarseli da soli.

Non è superficialità. Non credo e non per tutti. Piuttosto riserbo, voglia di non dire.
Pudore nel tenersi tutto dentro,
che quel che loro riguarda non deve interessare ad altri. Sono tratti che conosco e in cui mi riconosco.
Ma fossi nordico nell'anima?
I miei avi sono di queste parti?
Mentre mi perdo nuovamente nei miei sovrappensieri, mi rendo conto di aver perso di vista
il motivo del mio viaggio.
Due occhi ed un paio di occhiali sono li a ricordarmelo e mi cercano tra decine di altri occhi.
Un braccio ed una piccola mano mi salutano. Un sorrisone mi accoglie prima di confondersi in un intreccio di corpi e di cappotti.

"Ed allora eccoci qua...fatto un buon viaggio?" "Il viaggio mi ha fatto compagnia..."
"Come stai? Sei felice di essere qui?"
"Sto bene. Sto ancora realizzando, ma sono felice." "Ci andiamo a prendere qualcosa al bar?"
"Perché no, una bella colazione non fa male."
"Dai andiamo...con questo freddo poi, ci scaldiamo pure". "E sarà meglio, sto gelando.
Ma qui siete messi sempre così?" "Più o meno, d'inverno spesso è così."

Ci si siede dinanzi ad un tavolo piccolo e rotondo, su sedie dure di legno scadente.
Sembriamo due vecchi colleghi di lavoro in pausa caffè.

Si parla del più e del meno con fare discreto. Con la discrezione di due semi sconosciuti, che fanno finta di sapersi a fondo.

"Mi accompagni in Hotel,se non ti spiace?
Vorrei sistemarmi un poco e riposarmi quanto basta. Poi ci facciamo un bel giro".
"Come no, sali in macchina. Hai un'aria stanca..." "Già. Ma è qualche anno che ho quest'aria
e inizio a pensare che non si tratti di aria stanca. Ma della mia aria e basta..."
"E che aria sarebbe la tua?" "Quella che vedi, triste e stanca.."
"Dai sali, che ne hai sparate già troppe di cazzate".

Chi siamo? Cosa?
Amici? Amanti? Antitesi? Opposte fazioni di caratteri? Due poli assurdamente complici,
che si attraggono nelle proprie opposizioni? Come può Lei con una frase ed una parolaccia zittire i miei pensieri futili.
Eppure così fa. Eppure così è.
Anche se non so ancora quel che siamo. Siamo noi due ed è già tanto.
Quanto basta per.

"Salgo in hotel. Vieni con me?" "Certo che si".

Ci sdraiamo a letto senza dirci mezza parola. Iniziamo a baciarci con dolcezza.
Lei sa di sigaretta appena spenta e di caramella balsamica, a coprire il gusto legnoso del tabacco.
Io so di non lo so. Spero di me.
Però sono un po' diverso...dal solito copione. Sicuro, sfrontato, forse egoista.
Mi sento consapevole come non mai di volere quel che voglio.
E piacere a lei che vuole.
La spoglio risoluto, come un amante consumato.
Il freddo fuori e il fuoco dentro, che distrae il gelo intorno. Lei ha un corpo breve. Esile e bruno di ebano imbiondito. La pelle liscia di giovane creatura.
Seta di ciliegia in asprezza di lampone. Inizio a baciarle il corpo.
Il collo spoglio di capelli emana sentori di profumo, rosa e agrumi ed essenze sconosciute.
Scendo giù sui seni e sulla pancia,
non tralasciando nulla alle mie labbra. Appoggio l'orecchio ad altezza sterno, per ascoltare il battito vitale.
Ritmico richiamo di un desiderio inaspettato. Chissà che prova il cuore ad accellerarsi di passione.
A sorprendere la propria monotonia
e ad aumentare il proprio ritmo per un istinto primordiale. Non una corsa, non uno spavento.
Ma un'emozione così forte da spaventare.

Un'eccitazione così violenta,
da far irrorare la nuca di dolore. Una scellerata follia dei sensi.
Facciamo l'amore ed è stupendo. Come lo è lei, stupenda.
Come lo è il freddo fuori, stupendo. Come lo è il soffitto bianco, stupendo.
Come lo è la neve che non scende, stupenda. Come lo è il senso di libertà, stupendo.
Come lo è il sentirsi una sola cosa, stupendo. Come lo è il fiato che si affanna, stupendo. Come lo è il cuore che si calma, stupendo.
Come lo è la pace che si infonde, stupenda. Come lo è la colpa che svanisce, stupenda. Ed ora? Ed ora cosa siamo?
E cosa saremo? E che ne sarà di noi? Non importa. Niente importa.
Ci sarà un viaggio di ritorno, nello stesso treno all'incontrario. Storie diverse da osservare.
Nuove bugie travestite da verità e verità pitturate di bugie. Le rotaie sempre sotto.
Parallele e solitarie solitudini, che si fanno eterna compagnia.
Ma stavolta non saranno più metafora della storia di noi due.
Noi due e la nostra storia. Due rotaie che si incrociano.

Il Telefono Grigio Topo
...e quello con le ali

Telefonino.
Più il tempo passa,
più non capisco se sei tu a farmi compagnia o se sono io fartene dono.
Mi piace pensare ad un'antisolitudine ad armi pari. Un "do ut des" dal sapore antico,
come una sorta di baratto immateriale, di pensieri e scacciapensieri reciproci.
Ma tu stai bene anche dentro ad un cassetto, spento e impolverato dal disuso.
Se non morto, quantomeno in letargo.
Sono io che ti cerco senza un motivo apparente o apparentemente valido.
Mi ricordo il tuo antenato, penzolante da una coda, aggrapparsi al suo corpo grigio topo.
All'epoca proprio non capivo
come una voce potesse correre sul filo.
Ma sapevo l'amicizia e l'indirizzo
di chi alzava la cornetta e un'altra coda dall'altro lato, attaccata ad un altro corpo grigio topo.
Con dei numeri rotanti al centro della tana.
Ora che hai spiccato il volo
e le voci le fai correre tra i venti.
Ora che fai conoscere chi non si conosce e fai litigare chi credeva di conoscersi.

Ora che parli la mia lingua
ed ascolti quella di milioni di persone.
Solo ora, che sai far proprio tutto, mi chiedo: "A che diavolo mi servi?"
Mi avvicini o mi allontani dall'umanità ?
Ché conosco meglio chi abita su Marte
di quanto non conosca il tipo della porta accanto.
Che ricevo affetto da anime lontane
e non noto più gli sguardi di chi incrocio. Mio caro telefonino, ex arnese grigio topo, facciamo così: ci sentiamo un'altra volta. Ora c'ho da fà.

E ancor vive
l'idea di un amore scorticato
di corteccia di salice piangente. Che siamo stati,
siamo e saremo l'ornamento
di un paesaggio di natura incontaminata. Di un'alba che si attarda a tramontare.
Di un chiarore che nega l'imbrunire.
Vorrei soltanto riscoprire
la luce calda di una stanza gelida
e il freddo che ci faceva compagnia. Umido sentiero di rugiada.
Mattino presto di silenzio.
Paolo Raimondi
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