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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Marco Milani
Titolo: Stacho Quzbic Il Viaggiatore
Genere Fantascienza
Lettori 3501 36 57
Stacho Quzbic Il Viaggiatore
Miroch.

Il vento della verità è un flusso
che percorre il deserto come un dipinto senza tempo
con la consapevolezza che il sogno non inganna se stesso.

Akron, a.u. 2312
Aromi tiepidi di fresca umidità portati da brezze silenti. Un tuono in lontananza, ineluttabile nel suo riverberare distante di false minacce annunciate. Non lì, né adesso né mai. Nessuna tempesta in arrivo preavvisata da un carico di nubi nere e grigie a rincorrersi nel cielo in un'insensata competizione; nulla. Troppo distante. Era su Akron adesso, distante dall'ambito Confederale: qui anche le tempeste erano pigre e fatiscenti, solo velate ipotesi di furore naturale.
Miroch avanzava in un incedere lento, forzatura da adattabilità in carenza di ossigeno, caratteristica del pianeta nei tardi pomeriggi estivi con il sole incendiato a sbiadire nel pallido rosso minio della sera; e nelle zone d'altura, sempre, oltre i mille Par. Con l'abitudine aveva imparato a evitare i fragorosi mal di testa di una corsa ‘non dovuta' e l'inalazione eccessiva di freon a causa di una respirazione troppo rapida. Veleno puro, che la circolazione sanguigna faticava a smaltire.
Crosta gli trotterellava docilmente a fianco: mezzo metro di canide autoctono dal pelo folto e scuro come una notte senza lune.
Guardandosi attorno faticava a ricordare luoghi con paesaggi diversi, ma rievocava i motivi, spesso in forma di incubi, che l'avevano condotto fino al confine ultimo dell'universo in una fuga per la sopravvivenza, una fuga da se stesso. Un mercenario con rimorsi di coscienza poteva solo crearsi nemici e tra i più pericolosi. Akron era un luogo solitario, remoto, selvaggio e incontaminato, e lui era probabilmente l'unico ‘alieno' rimasto tra i radi nuclei di popolazioni indigene e non tecnologiche: Ah'Pao, l'Ospite, com'era conosciuto nella tribù vicinale degli Oh'Nai, i ‘Figli della Montagna'.
La rara fauna stava già dormendo e la strana quiete che completava l'insieme gli andava creando un notevole senso di insofferenza paranoica. Quando Crosta iniziò a ringhiare con la cresta iliaca fremente innalzata in tutta la sua lunghezza, Miroch portò la mano al tenser, impulso naturale d'altri tempi e luoghi. Si sfiorò le labbra repentinamente inaridite corrugando la fronte e prendendo a scrutare tutt'attorno, cercando di insinuarsi nelle particolarità di sfumature della bassa e rada boscaglia con relative penombre rossastre.
Tutto era muto. Il suolo antistante era scoperto ed esplorabile con uno sguardo univoco, niente poteva nascondersi. Uno schiamazzo alle sue spalle a pochi passi lo convinse invece del contrario. Prese a voltarsi con il tenser spianato e annunciò: - Non fare un altro passo! Non ci provare! -
La testa romboidale di un gigantesco rochab si stava alzando pigra dal terreno mentre le spire si avvolgevano nella classica raccolta pre-balzo. - Merken! - esclamò - Scura e puzzolente! - Il serpente delle rocce era un fuori taglia veramente impressionante, lungo almeno una dozzina di metri e spesso un braccio robusto. In cinque cicli di permanenza su Akron il più grosso in cui si era imbattuto non misurava nemmeno la metà.
Crosta divenne furioso prendendo ad avanzare a piccoli e nervosi spostamenti zigzaganti verso il rochab che lo aveva preso in vista e accompagnava a specchio nei movimenti con scatti della testa a destra e sinistra. - Fermo. Crosta! - gli intimò in tono autoritario. Stava per allungare una mano ad afferrarlo, ma ricordò che non era un cane terrestre e desistette. “Mai accarezzare contropelo un woler” rammentò il detto Oh'Croni mentre il suo amico quattrozampe si accucciava continuando a ringhiare di bassi impetuosi.
- Buono Crosta! Buono... Ci penso io. - Il woler non aveva alcuna possibilità contro un rochab, troppo rapido anche per lui. Miroch prese un respiro e iniziò a strisciare un piede di seguito all'altro, obbligandosi alla lentezza e ai minimi movimenti del corpo. - Fermo Crosta. Fermo... vieni con me. Piano! Piano... - lo ripropose di continuo come un mantra, tra un fiato rapido e il successivo, sperando lo ascoltasse.
Il serpente delle rocce continuava a raccogliersi in spire, lo faceva non solo in attacco ma anche normalmente per muoversi: con un balzo basilare i rochab arrivavano a venti metri, cui seguivano un'altra mezza dozzina abbondante di rimbalzi più brevi per raggiungere distanze complessive consistenti. “Chissà questo” pensò. Se non mandavano segnali aggressivi magari avrebbe saltato per la sua strada, era comunque meglio arrivare a essere abbastanza distanti per rispondere di tenser a un attacco, sperando di riuscire a percepirlo in anticipo.
- Vieni Crosta. Piano... - continuò a ripetere arretrando.
Avvertì linee di sudore scendergli per la schiena, la tensione furente. Qualche secondo e un suono percorse l'aria. Dapprima indistinto, poi meravigliosa melodia in crescendo a saturare in toto l'ambiente. “Ah'Mohn-Ri. Cacciatori del vento.” Percepiva in via subliminale le sotto-frequenze ipnotiche dei flauti da preda con un leggero ottundimento sensoriale. Riconosceva l'esperienza come unica ma l'attenzione non poteva passare di soggetto. Il rochab era immobile, e così rimase fintanto alzava il braccio e mirava di tenser al centro di quella testa enorme per poi vederla sciogliere al calore concentrato della scarica di nadioni-alfa.
Una quiete attenuata ripiombò in quel tratto di niente. - È andata - sospirò e si apprestò ad attendere l'apparizione del cacciatore con Crosta che, sfilati gli ultimi latrati mostrando i denti, gli si accucciò a fianco. - Bravo ragazzo - si allungò a una grattata di pancia ricambiata con un'annusata alla mano e un lieve colpetto di lingua sull'avambraccio.
“Ah'Mohn-Ri.” Ripensò a quel poco che sapeva sui cacciatori del vento. Pochi, e ancora più rari i flauti da preda, intagliati dalle canne di riabek delle paludi velenose, difficili da reperire quanto impossibili da lavorare tranne per un mastro Ri. E di mastri Ri non ne aveva mai incrociato uno. I flauti degli Ah'Mohn-Ri avrebbero ipnotizzato anche un branco intero di giganteschi e sordi rakan: era curioso di vederne uno da vicino.
- Namas'Ah - sobbalzò alla voce alle sue spalle, un tono rude e sicuro.
- Namas'Ah. - Miroch alzò il braccio sinistro e con pugno chiuso a salutare, ancora prima di voltarsi. - Allora corrisponde a verità l'antico detto ‘sila nit Ah'Mohn-Ri', silente come un cacciatore del vento - si volse lentamente e sorrise, portandosi il pugno al petto mantenendo il gomito alto: corrispettivo di ‘benvenuto in pace' tra tutte le tribù Oh' con cui era venuto in contatto.
Il cacciatore era alto rispetto alla media Oh'Croni, gli arrivava quasi ad altezza occhi. Emaciato e sottile, risaltava comunque di una struttura più possente rispetto ai montanari Oh'Nai, con spalle larghe e arti superiori triarticolati che arrivavano a pendere appena sotto le ginocchia. La testa inclinata e la linea allungata e sottile della bocca indicavano un sorriso in risposta. Dal tascone posteriore della casacca monoscocca rame-brunito, per nulla dissimile dal colore della poca pelle visibile, un'asta giallastra ad anima quadra dello spessore di due dita fuoriusciva di varie spanne. “Il flauto?” ipotizzò, “e una roncola” riconobbe l'arma da taglio al fianco in un fodero in budello trasparente di michorat.
- On si, Ah'Pao. Neh ram. -
- Net on si, Ah'Mohn-ri - ribatté immediato - è per te, senza il tuo intervento potrei non essere ancora vivo. -
- Neh ram dnhnon ti hi - le parole si alzarono a uno squillio penetrante.
- Net on si, ram no doh. Sto invecchiando amico mio, non sono più così rapido. Ram nohono doh, cneh. -
- On si maharad. -
- Net on si maharad, e grazie ancora. Rochab on si - indicò il grosso serpente - ovviamente, a te. -
- Con. Bet foh do ie Sa'Ic'Bah, yamal con Ih'Neythan. Sa'Ic'Bah levit - disse il cacciatore scuotendo la testa in un semicircolo di brevissimi scatti nervosi.
- Accidenti! Così lontano! - sbottò Miroch, - e hai lasciato l'attrezzatura in tenda. - Merken...
Tre pollici da luna a luna era un'unità di distanza/tempo non esagerata ma discreta, ponderò, e il terreno con rare asperità facilmente evitabili, però trascinare un rochab di almeno due quintali non era semplice nemmeno per un cacciatore. Aiutarlo sarebbe stata una faticaccia e la fastidiosa faccenda del freon lo avrebbe messo a rischio respiratorio anche con gli accorgimenti del caso e parecchie pause di percorso. Era in ogni caso un peccato sprecare tanta materia utile, soprattutto il veleno. In una bestia del genere la quantità finalizzata di enzimi biologici e poi lavorata avrebbe potuto definire abbastanza estratto Prog diluito, sufficiente al fabbisogno di una qualunque tribù Croni di media misura per almeno un semestre Akroniano. Figurarsi a uno sparuto gruppo come quello Ah'Mohn-Ri.
Aveva pure lui la sua scorta personale di Prog, la panacea ‘Croni' – la sola – di tutti i mali. Frutto di baratto in birra artigianale con Wondo, lo stregone Oh'Nai, una volta appurata la tolleranza all'alcol di quest'ultimo e la compatibilità catalizzatrice biochimica e metabolica per sé con il ‘rimedio omeopatico' locale. Ci sistemava l'ansia quando la sola respirazione controllata non bastava a recuperare le crisi, l'angoscia ambientale da umano su un mondo straniero, mentre per i Croni serviva con le infiammazioni, reumatismi, problemi di vista, per l'apparato digerente e poco altro – erano molto ‘sani' – e avvelenamenti. “Rimedio omeopatico” l'aveva pensata giusta, accorgendosi che stava divagando invece di proseguire il discorso con il suo compare occasionale di avventura.
Un Oh'Croni si sarebbe semplicemente espresso: andiamo – ponet – e avrebbe iniziato a fare quel che si doveva. Sorrise tra sé all'antitesi delle sue modalità di pensiero: la sintesi. - Ah'Pao ponet - propose - andiamo a casa mia. - Era l'unica cosa sensata e fattibile. Qualcosa aveva nella bisaccia, un pezzo di telo impermeabile e della corda, e restava meno di mezz'ora di strada da percorrere. Macellare e predisporre il rochab non avrebbe impegnato troppo tempo, c'era anche Farah, teoricamente impegnato a risistemare i fermentatori e a lavare bottiglie fintanto che la bollitura procedeva autonoma; nulla di urgente. Il vecchio carretto non sarebbe stato riciclato a ‘fonte di fuoco': con un paio di tavole di legno e qualche chiodo sarebbe stato un intervento più che sufficiente a tenerlo in condizione di sopportare un ultimo viaggio.
- Ic'Bah let, da luna a luna... Oh'Cro'Ic, Oh'Cro'Sa. Yamal hi - gesticolò verso la sua sacca. Gli venne di nuovo a sorridere, un Oh'Croni avrebbe solo e semplicemente detto: andiamo – ponet –.

Parlarono pochissimo. Crosta gli era rimasto costantemente al fianco e teneva il passo, tranne qualche puntata in avanti sentendo rumori soltanto a lui percepibili, forse anche dal cacciatore, di sicuro non a Miroch. Certamente piccoli animali da radura aperta nelle loro tane sotterranee: Mirdin dalle grosse orecchie o minuscoli Alitin, entrambe le specie tanto veloci quanto poco coraggiose; magari era meglio supporre prudenza.
Stava rivedendo le modalità Croni di orientamento e soprattutto di calcolo delle distanze/tempo, paritaria per le varie tribù e gruppi finora incrociati. Non era granché edotto sulle origini delle popolazioni del pianeta Akron nonostante una permanenza oramai decennale e anche sulla sua ‘zona di competenza' non si era mai molto interessato. Giunto sul pianeta, come fuggiasco aveva avuto altro su cui riflettere e un basso profilo tenuto rasente l'invisibilità era rimasto modus operandi nel suo trascorrere di esistenza. Forse anche il Monastero – ora diventato ‘casa' – aveva fatto la sua parte per non trasformarlo nel curioso esploratore che avrebbe sperato di diventare quando era ancora un ragazzo che sognava futuri avventurosi e migliori a zonzo per le galassie. E gli autoctoni non erano serviti da sprono, non spiccando di loquacità nemmeno loro. Con le rare informazioni storiche che era riuscito a reperire dagli Oh'Croni, “all'inizio era Croni – Ic Croni”, un nucleo d'origine proveniente da un altro pianeta, aveva tradotto e quindi dedotto. “Cneh. Sila, Croni ram do ti, ram do Croni”, ovvero: Sicuro. Da lontano, i Croni non erano qui, non erano Croni.
Oh'Cro'Ic, Oh'Cro'Ni, Oh'Cro'Sa. Le tre lune di Akron, nel loro rapporto orbitale reciproco erano i riferimenti per i calcoli delle distanze/tempo. Un Croni guardava in alto e stendendo un braccio piazzava il pollice sottile tra le due o tre lune presenti e ti dava il tempo e la distanza esatti che per lui erano la medesima situazione: Oh'Cro'Ic, dimensione della testa di un bambino, la più vicina; Oh'Cro'Sa la più distante e grande quanto la testa di un adulto, che non raggiunge mai la prima; Oh'Cro'Ni, né la prima né la terza, davanti e poi dietro. Cercò di ripetere a mente la filastrocca nella lingua originaria Croni, ma era uno scioglilingua che non era mai riuscito a ripetere senza incasinarsi. Il calcolo, perlomeno approssimativamente, riusciva istintivamente a farlo.
- Nohono rochab - la voce forte e affermativa del cacciatore lo riportò in presenza.
- Ancora! -
Sentì allentare il cavo in presa alla mano sinistra. Il cacciatore, solerte, se ne era accorto quasi prima che accadesse. Si voltò vedendo il rochab che stava scivolando indietro come una torre di piatti insaponati, solo con la lentezza di uno schiumogeno frenante. Sbuffò.
Con la pratica acquisita riposizionarono il carico morto con pochi passaggi e uno sforzo accettabile. - Dnhnon - disse riagguantando la sua estremità del cavo, poi aggiunse: - Siamo quasi arrivati. Speriamo sia l'ultima volta - consapevole della sterilità di parlare in Galacti standard al cacciatore del vento. Qualche passo e ripresero il ritmo di marcia.
Miroch riosservò avanti e alla sua destra, in un'ostinazione paesaggistica pianeggiante senza soluzione di continuità, ripetitività di scarni particolari in cui primeggiavano, in un non esaltante contrasto pigmentato, lucide pietre color ossidiana scheggiate come tagliate nette da una spada, grigi massi butterati di roccia basaltica scura e apparentemente spugnosa, arbusti contratti e spinosi cinereo bluastri, chiazze erbose di rossi e verdi spenti imbrattate di chiari marroni di vegetazione morente a indicare piccole raccolte liquide sotterranee. A sinistra un lentissimo digradare portava in direzione della catena ante montana, già meritevole in dimensioni nonostante la distanza, che nella sua totalità evidente di ocra pastello sembrava un'ondulazione orizzontale disegnata in fretta sul cielo privo di nubi tirato a foglio vuoto.
Il trasporto non era comodo di partenza né si era accomodato strada facendo, di positivo era stato predisposto in pochi attimi. Il telo aperto era un quadrato color grigio polvere di un metro e mezzo per lato ritagliato da una copertura da astronave per esterni, quindi praticamente indistruttibile e trascinabile attraverso una radura semideserta senza subire un graffio. Con due anelli incastonati in uno dei lati e sei metri di cordino in plastacciaio da container, per un traino a due a suddividere il peso una volta ottimizzato il ritmo di marcia, lento, si percorrevano apprezzabili tratti senza che il rochab arrotolato in spire crescenti cedesse a un sobbalzo non evitato o non evitabile. Nonostante il rallentamento delle varie fermate sarebbero arrivati abbondantemente prima che calasse la notte.


2
INTRAVERSO

A volte penso... poi passa.

Data in Continuum: 2063 d.C.
Possibile? Perché no, visto per visto nulla ormai è da considerarsi inverosimile.
Un ospedale. Era finito in un classico androne da struttura sanitaria, pavimentazione e mezze pareti a rotoli distesi di spesso plasticato in PVC antiscivolo e incollati a cazzo, rattoppati con riquadri di colori ancora più a cazzo, mai simili all'originale nemmeno nello schema portante di fondo. Macchie a terra, vecchie e inglobate come pustole scure. Vecchie e forse di caffè acido da distributore automatico; vecchie e forse di sangue rappreso e assorbito in escoriazioni non più idrorepellenti della plastica ferita dall'usura.
Infilò una mano nel borsello a tracolla e soppesò la chiave – tra l'altro una ‘normalissima' chiave – che l'agente temporale gli aveva consegnato nella Stazione Italica 23-1643. Un rapido viaggetto di andata e ritorno a metà diciassettesimo secolo, in Italia, ad Aquileia. Quindici minuti in tutto. L'andata era stato il solito ‘apri la porta, esci dalla porta' il ritorno invece...
Si era aspettato di finire in qualcosa di inusuale, perlomeno fantastico o alieno. Si era aspettato che il suo primo viaggio tempo/spazio fosse impregnato di originalità mai scandagliate da occhio umano e oltre i limiti della fisica conosciuta. E invece...
“E questo sarebbe l'Intraverso?” sbraitò tra sé Stacho, aspro e indisponente.
Decise di muoversi con cautela, e osservare. Trasse profondi sospiri e si trattenne a fatica dal vomitare. Un rimembrare di vuoti da oltretomba e l'aria intrisa da un odore acre di disinfettante in maniera indelebile. “Facciamo delle ipotesi? Facciamole, per pura inclinazione alla positività. Ho una chiave, qualcosa deve pur aprire.”
Ascoltò l'eco dei passi, viscido, di plastica con plastica che vogliono appiccicarsi insieme di sudiciume invisibile. “I vetri finora sono tutti intatti, direi quindi un ‘futuro recente', zona abbandonata e non da ‘umanità estinta'. Per cui? Dove lo trovo e soprattutto: cosa devo cercare?”
La sua mente stava iniziando a darsi da fare in modo propositivo con elucubrazioni istantanee sulle percezioni globali e sui particolari, e ripensamenti a tutto tondo, sfruttando il conosciuto e arrivando a definire ambiguità irrisolte e incertezze. Capì che essere spedito fino alla nausea a vagabondare attraverso il tempo, come andare in vacanza in luoghi esotici o fare il passacarte tra uffici, era stato soltanto un mero e noioso allenamento per iniziare ad affrontare i VTS. Viaggiatore tempo/spazio, la sua qualifica, il suo primo incarico. “Si parte con le ‘somme' e si arriverà, a momento debito, alle equazioni”. Non doveva essere un incarico troppo difficile, ma servire a entrare in un'ottica differente di spostamenti. Una via di mezzo tra ‘somme ed equazioni'.
Pigramente percorse un modesto tratto che tendeva in una lieve curvatura imperfetta. L'assito non era cambiato se non per l'apparizione di un maggior carico di polvere, in cumuli assommatisi negli intervalli di battiscopa rotto e sollevato dalla parete come se dell'eccessiva umidità lo avesse, nell'abbandono, fatto esplodere. Discernibili a muro erano rari brandelli penduli, rimanenze di manifesti talmente decolorati da non riuscirne a ravvisare il contenuto. Si accostò incuriosito al più vicino e così facendo ampliò la profondità di visione lungo l'androne che si restringeva a corridoio. Una luce intermittente percepita a coda d'occhio gli fece convenire un cambio di programma.
Calcolò una distanza di trenta metri: da un anfratto nel muro, forse una camera, una debole discontinuità luminescente sparava fuori un espandere cadenzato giallognolo che delimitava un rettangolo nel muro più scuro antistante. Prese nota della quantità abnorme di grigio in quel suo primo accedere all'Intraverso – zona a cavallo tra il ‘Qui' e tutti i ‘Là' possibili di universo/i, citazione accademica testuale – e ne rimase con un senso iniziale di oppressione a cui si aggiunse un po' di nausea e di vertigine.
“Effetto collaterale da... cosa?” Cercò una spiegazione. L'Intraverso o nell'Intraverso? Si trovava sia fuori dal tempo sia fuori da ogni spazio, anzi, al confine con ogni spazio. Cos'era quindi questa reazione fisica a quella cosa a lui nuova che non esisteva, c'era ma non esisteva, essenziale per aggiungere quella parolina Spazio a viaggiatore del tempo?
“Niente.” Scosse il capo, inspirò rapido e si mosse.
Arrivò all'accesso, un rettangolo irregolare dai bordi frastagliati più simile all'ingresso di una grotta che a una porta e si fermò per un momento, titubante, comunque deciso a entrare in ogni caso. L'intermittenza luminosa non era fastidiosa, però trasferiva una condizione di scarsa visibilità e l'interno era una nebulosità costante e biancastra che non lasciava percepire oltre i pochi passi. Ripartì.
- La miseria! Dove mi sto infilando - proruppe a voce alta. Era entrato e subito tutto risaltò diverso. Lo slargo proseguiva con un soffitto a cupola e la luminosità era prodotta da allotropie formate a ottagono, allungate in maniera sproporzionata nella direzione da cui era entrato. “Diamanti” ipotizzò “o qualcosa del genere” aggiunse, notando che le parti incastrate dentro la parete erano invece geodi a base di chiari violacei. Erano i reticoli cristallini interni a produrre luce, bianca come minuscole scariche elettriche, che correva poi lungo le scanalature angolari dei longilinei diamantoidi uscendo dal vertice finale sotto forma di un impreciso flusso lento e fumoso. Il rapimento rimase fino a quando si accorse che sotto i piedi il linoleum era stato sostituito da un pavimento. Sembrava marmo, un'unica distesa color ossidiana senza segni di interruzione o congiunzione. Alzò lo sguardo e assecondò il corridoio, come a svolgere un tappeto da cerimoniale. - Splendido. -
Ripartì e continuò a camminare rendendosi conto del silenzio che lo circondava, quasi assoluto, se non per il lievissimo e attutito scricchiolio interno alla suola in plastica delle sue vecchie Nike. Nel frattempo, almeno i sintomi del ‘non so cosa' com'erano arrivati erano anche spariti. “Problema in meno a cui pensare”. Per un po' non successe nulla, finché si ritrovò fuori dal raccordo e all'interno di una camera. - Merda! - Prese atto che probabilmente era dettame che i cambi di situazione nell'Intraverso fossero assolutamente repentini. “Bisognerà abituarsi.”
Era in uno stanzone medio-grande, un venti per quindici e per tre metri abbondanti in altezza. Trasmesso da una serie di sottili tubolari infilati a centro soffitto, l'irraggiamento era debole e reso appena sufficiente dal riflesso su un pavimento a piastrelle romboidali di un polveroso nocciola chiaro e sottili bordi marrone. I muri vuoti davano l'idea di un passaggio d'intonaco appena steso e da poco asciugato. Nell'angolo interno a sinistra vi era un cumulo/discarica che esprimeva in un'unica traccia la memoria di passata presenza vitale. Si aspettava un mix di odori che continuò a non percepire, estendendo ricerche d'olfatto inutilmente. Nell'informità del mucchio di stracci e cianfrusaglie, carta sparsa e cartoni, plasticati vari e assi, assetti, stecche e spezzati di legno, indumenti stinti e logori, risaltavano i particolari: una sedia a dondolo in bambù, rovesciata; un cestino da basket in camera; un pallone da rugby; una miniatura di aliante; un quadro a riprodurre l'urlo di Munch in una quadricromia alla Andy Warhol; uno scatolone stracolmo di pezzi di bambole, o bambole fatte a pezzi, valutò a un successivo sguardo; l'astronave giocattolo di un plurisecolare Goldrake piazzata cangiante nella parte accatastata come la ciliegina sulla torta.
Era finito in una specie di magazzino, un open space talmente normale da lasciare interdetti. “Sono tornato nel mondo normale?” suppose. All'ipotesi seguì la smentita, quasi che l'Intraverso stesse giocando con le sue ammodernate emozioni di esordiente viaggiatore tempo/spazio in una similarità di iniziazione da confraternita scolastica.
Un bagliore improvviso da destra, sulla parete stretta. Stacho ebbe un sobbalzo da cui si riprese subito e si predispose al susseguirsi degli eventi avanzando lento verso il fulgido vortice che stava nascendo a centro muro. In pochi secondi l'intera parete parve diventare inconsistente, una caligine incolore e con filamenti grigi fumosi che si attorcigliavano nell'ambiente aperto come tentacoli di piovra. Partì d'un tratto un sibilo soffocato che crebbe a un fischio acuto e amplificato fino a un'esplosione grafica globale, definita dalla sparizione in un solo istante della nebulosità mobile come un getto geyser in negativo e dall'apparizione in statico e luminoso di una vetrata. Così sembrava, e dall'altra parte...
- Non ci credo! - A occhi spalancati e labbro inferiore pendente, Stacho stupefatto completò ulteriori quattro passi. “Sono dentro, confermo. Sono ancora nell'Intraverso”. Un sorrisetto istintivo gli si stampò in faccia e finì a ridosso di quella ‘finestra su un altro mondo', non sapeva come altro definirla. Ebbe l'impressione di scorgere qualcosa passare in volo. Poi si soffermò a guardare quella che, con i dovuti riferimenti di scarse conoscenze tecno-architettoniche terrestri applicate a un mondo alienamente evoluto, gli ricordava una fermata per mezzi pubblici.
“D'accordo” si predispose a ponderare, “da qui ci deve essere un modo per passare dall'Intraverso a un diverso spazio: il fine ultimo dei viaggi VTS. Per forza ci deve essere un modo, e ora lo scoprirò. Il perché e il percome sia apparso il Velo, o io sia riuscito a trovarlo o lui abbia fatto in maniera che gli arrivassi appresso, al momento sono quesiti che è il caso saltare. Una faccenda per volta.” - Velo... - sospirando emise il termine che gli era apparso in memoria. “Riuscire a completare un passaggio VTS, manuale docet, significa attraversare il Velo che delimita la non essenza dell'Intraverso e i diversi spazi.”
Due onde trasversali e consecutive percorsero il Velo da sinistra a destra, e ne assimilò la percezione a qualcosa di conosciuto: folate di vento che smuovono un telone di plastica ancorato a struttura. L'illazione che riconduceva il Velo a una grande vetrata variò verso qualcosa di certamente indefinito ma tutt'altro che rigido e sostanziale. Nella nuova idea ficcò le inedite presumibili demarcazioni: morbido, fluido, assottigliato, plastico, plasmabile. Aggiunse ‘liquido' mentre a seguire le onde scorsero una serie di bolle che tridimensionalizzavano la superficie puntando al centro con diametralità variabili simili a pulsazioni lente. - Respira e rilassati, Stacho Quzbic di origini polacche. Rilassati e osserva. -
Dire a se stesso cosa fare o come comportarsi era il suo trucchetto zen preferito tra i vari suggerimenti ricevuti durante il periodo d'istruzione. E aggiungersi quel ‘di origine polacche' aveva un learning complementare molto concreto nell'azione immediata sui meccanismi sottili dell'Io inconscio; non come il deleterio Stacho Quzbic italiano, anzi romano, con il suo generare di successive domande filoetniche in proposito.
Dall'osservazione generale e imprecisa con cui non aveva ancora perso d'occhio il complesso oltre il Velo, saltò il contorno statico di edifici cittadini – metropolitani? – e passò a sviscerare i particolari dal punto mediano dell'immagine. All'apparente distanza come a essere al lato opposto di un'autostrada ad almeno sei corsie, un cubicolo in orizzontale aperto in design affilato e parabolico confermava il senso di similitudine a una fermata autobus, e con quattro persone non ben distinguibili in volto ma dalle forme evidenziabili – femmine – in attesa. Vestiari attillati di immaginifici futuri terrestri da movies di classic sf di ventunesimo secolo, rilucenze di bianchi/neri/grigi per linee rette prive di sbrinzoli, borsette che ricordavano di primo acchito molto più bizzarre chitarre elettriche di gruppi gothic-metal e affini. Pettinature voluminose e scomposte, scure. Il Velo disturbava nei dettagli costringendo a una definizione di poco superiore a un'essenzialità in pixel.
Si avvicinò di un nonnulla e portò le mani a contatto con il Velo. Il lampo lo investì, un solo momento in cui non fece nemmeno in tempo a scostarsi, che gli rimase però in retina come un tracciato di scariche fulminee in una notte buia e tempestosa. La testa prese a ronzargli mentre l'immagine/scarica gli si replicava intervallata: un vuoto ‘universale' scuro, carico di voluttuose e spiralizzate scie gassose multicolore danzanti, indolenti come fumate d'oppio. Un attacco di debolezza, un capogiro. Gli cedette un ginocchio e finì in appoggio al pavimento, ma perdurò come un geco al muro con le mani incollate al Velo. - Maledizione! -
La sorpresa si assommò a paura e la relativa scossa adrenalinica lo fece scattare in piedi. Iniziò a sudare. - Ok Quzbic - iniziò, doveva riacquistare il controllo - ragioniamo. Cosa ci faccio qui? Passo indietro... - “Quzbic” risentì la voce e rivide la faccia marcata e sobria dell'istruttrice Zanda. “Quzbic, il tuo incarico consta in una serie di recuperi materiali. Devi solo sapere che non vi è nulla di complesso, devi trovare e riportare indietro i ‘pezzi' alla base dell'invenzione della nuova tecnologia VTS. Queste sono le coordinate temporali per il punto uno di attracco e di ponte all'obiettivo.” Nella mano di Zanda era apparso un Innesto e rapidamente gli aveva scaricato i dati nel portatile interfacciato a polso. “Niente di complicato.”
- Alla faccia del nulla di complesso! Rideva pure, la stronza. - Si sentì svenire, il cuore che batteva impazzito. Scosse la testa, e gocce di sudore finirono sul Velo e anche sulle mani. - Respira e rilassati, Stacho Quzbic di origini polacche. Respira... -
Inspirò profondamente e rilasciò veloce per tre battute, poi rallentò e continuò cercando di ritmarsi col cuore che gli martellava le tempie. “Inspira... battito battito, espira... battito battito, inspira...”
Ispezionò intanto le gocce di sudore finite sul Velo vicino alle mani prendere a muoversi di vita propria come un gruppo coordinato di insetti e circondargli le dita. “Impossibile, nonché insensato.” Ma in fondo cos'era la normalità? Gli venne da sorridere “questo è ancora l'Intraverso”.
Le gocce gli filtravano attraverso le dita, percepì un solletico di microscopici movimenti elettrici. L'indice sinistro si staccò da solo, respinto in qualche maniera come i poli a identica carica di calamite opposte. Seguì il medio, il pollice e l'indice dell'altra mano. Sollevato moralmente e distratto dalla serie di piccoli eventi tentò di toglierle, a riscontro si sentì attrarre da una forza assoluta ritrovandosi con le braccia immerse fino al gomito e mezza faccia abbarbicata a una sostanza elastica e fredda, per poi essere respinto indietro e nella posizione di partenza con i palmi incollati al Velo. “Di bene in meglio” pensò e una delle quattro figure, quasi avesse ricevuto un prestabilito segnale, si avviò di corsa a venirgli incontro. O almeno quella era l'impressione.
Si distrasse ad ammirare i movimenti fluidi e ancheggianti a conferma della femminilità del soggetto. Se ne compiacque, finché a tre quarti del percorso i radi pixel diventarono un'immagine nitida che gli rivoltò tutte le concezioni a livello di altro sesso. Non fece in tempo a riprendersi dalla sorpresa né a sconvolgersi: la ragazza, come non esistesse Velo a dividerli, lo afferrò per i polsi, lo esternò dall'Intraverso e lo baciò.
Per Stacho Quzbic novello Viaggiatore, in pratica, si trattò soltanto di operare un passo in avanti. Il bacio lo aveva paralizzato e la bellezza straordinaria della ragazza sorridente, invece, lo aveva lasciato frastornato.
Lei continuò a sorridere e parlò, comprese Stacho poco dopo. Il sibilo a ritmo variabile gli ricordò l'emissione vibrata di un volatile, uno a caso non conoscendo nulla di ornitologia. Scosse di nuovo la testa e la ragazza si affrettò a estrarre dalla chitarra metal un Innesto.
Era un aggeggio conosciuto e innocuo, solo un transporter-data, e rimase tranquillo. Lei gli prese la mano e intanto che armeggiava per accoppiarlo nell'interfaccia Stacho si incantò a osservare quella fantastica bellezza aliena. Su un fisico mozzafiato giustamente curvilineo e a struttura terrestre, risaltava un viso angelico di carnagione azzurrina, con il mento leggermente appuntito e occhi a mandorla; le pupille tendenti al rettiliano erano due ovali sottili verticali di un blu elettrico frizzante, sensuali oltremodo nell'insieme completato da un naso piccolo e proporzionato, e labbra di un verde chiaro e brillante. I capelli erano una folta chioma bruna di serpentelli spessi mezzo mignolo in movimento appena percettibile.
- Ecco fatto - disse la ragazza con voce squillante e allegra - ora ci capiamo. Ciao Stacho, felice di rivederti. Anzi, di incontrarti per la prima volta - e prese a ridere anche se era evidente che cercava di trattenersi.
- Ciao a te - balbettò Stacho. - Chi sei? Cos'è successo? E dove sono? -
- Ehi! Quante domande tutte in fila. Ti rispondo partendo dalla prima: sono Sheila Bath. Aspetta un momento... - armeggiò a due mani per scollegare l'Innesto dal suo polso. - Sheila - ripeté il nome e infilò l'oggetto nella borsetta attraverso una fessura longitudinale che si era evidenziata e aperta da sola come una zip virtuale.
- Piacere mio, Sheila Bath... Sheila. -
- Ti ho caricato il traduttore - lo anticipò. - Mi ero scordata che sei alla tua prima uscita e che toccava a me sistemarti. -
- Quindi mi aspettavi? - accennò lui titubante.
- Certo che ti aspettavo! - Sheila rise di getto. - Accidenti Stacho, mi avevi detto che eri imbranato. Non scherzavi. -
- Ti avevo detto... io? - trasalì Stacho - Non mi pare di conoscerti. Mi sfugge qualcosa? -
- Scusa. Hai ragione - gli prese entrambe le mani e sorrise amichevolmente, dolce e seducente, capo lievemente inclinato - ti devo almeno una spiegazione, per quanto rapida. E sappi che non potrò aggiungere altro, dopo. -
- Se alla spiegazione seguirà un po' di chiarezza nel mio cervello oltremodo confuso, penso che mi accontenterò. - Il Viaggiatore sorrise di rimando e lasciò che le sensazioni che quel contatto tra mani gli scorressero lungo tutto il corpo fino a farlo rabbrividire, con una sventagliata nervosa a scendere dalla base del collo. ‘Sensazioni fisiche'... nuove, positive.
- Noi ci conosciamo Stacho Quzbic. Ci conosciamo da parecchio ormai, interagendo abbastanza da poter affermare che ci intendiamo bene. E il mio Stacho ha già viaggiato abbondantemente - lasciò una pausa a far assorbire la notizia.
- Non è possibile! - gli venne, ma quelli, ammise, non sono occhi che possono mentire.
- Possibilissimo Stacho. Con i viaggi tempo/spazio scoprirai tante impossibilità che diventano possibili: l'inammissibilità antropica che conoscevi diventa normalità. Fidati delle mie parole per il momento. -
- Posso fare altrimenti? -
- Potresti farlo. Potresti non credermi e te ne farei una colpa - suggerì a voce bassa avvicinando il suo viso a una distanza rischiosa.
- Mi viene... - deglutì - da crederti. Il tuo Stacho in che senso? Non per farmi gli affari tuoi, ma un po' di presa in causa mi pare di averla. -
- È vero - ammiccò Sheila, lasciandogli le mani e sfilando di poco all'indietro. - Nel senso migliore del termine, te lo assicuro, ma anche questa ‘cosa' - sottolineò - a debita occasione. Comunque presto, non dubitare. Ora il tempo stringe, quindi ascoltami. -
- D'accordo - si limitò a dire. - Puoi spiegarmi almeno dove sono finito? -
- Certo. Sei su Terra 13, per gli amici Medux. Data galattica 13-8-187-17. E non fare altre domande. Prendi la chiave. -
- Chiave? -
- Chiave. -
Stacho rimasse smarrito, solo un momento. - Ah, sì. La chiave. - Prese a rovistare nella bisaccia tenendo curiosamente osservata Sheila, che con un gesto trasversale dell'indice scorreva senza toccarla l'insolita borsa. Lo spiraglio apparve stavolta come una strisciata nera in cui la ragazza infilò la mano estraendo un cofanetto metallico cromato ricoperto di incisioni stilizzate, delle dimensioni di una scatola da scarpe per tre dita di spessore. - Eccola! -
- E io ho un regalo per te. Tieni - Sheila gli allungò il cofanetto. - Va bene, non è un regalo. È tuo e io l'ho solo custodito. Te lo rendo con un pizzico di curiosità, visto che non hai voluto farmi vedere e nemmeno dirmi cosa c'è dentro. -
- Io? - Stacho lo prese e iniziò a volteggiarlo cercando un pertugio che somigliasse alla serratura. - E che ne so, lo vedo adesso per la prima volta. -
- Tu quell'altro, il simpaticone - si sollazzò lei - non più di tre bit fa. -
- Se ho una chiave cerco un buco dove infilarla - reagì Stacho. - Eccheccazzo! -
- Non dire parolacce. -
- Cosa? - Era distratto, continuando a rigirare l'oggetto.
- Niente. Tanto è un vizio che non perderai - finì sconsolata. - Poggia la chiave sopra. Mi hai anche detto di suggerirtelo, o saresti rimasto a provare all'infinito senza arrivare a capire cosa fare. -
Stacho prima grugnì senza controbattere, poi tenne il cofanetto in orizzontale e gli avvicinò la chiave. Come attratta da un magnete gli sfuggì dalla presa e si mise appiattita in direzione del lato maggiore.
- Accidenti! - Un piccolo e breve fruscio seguito da un paio di colpetti secchi di ingranaggi che si sbloccano e il cofanetto scattò da una parte lasciando alcuni millimetri di spazio.
- Dai Stacho, fammi vedere dai. -
- Calma - alzò il cofanetto a livello degli occhi e ci sbirciò dentro senza riuscire a vedere niente. - Hai detto che te l'ho consegnato io tre bit fa? Quanto sarebbe in termini di tempo a me comprensibili? -
- Non sai proprio nulla, accidenti! Mi sembri l'ultima delle reclute, quella scema di suo che non manca mai a ogni sessione e che lasciano ignorante per... - Sheila si azzittì con uno sprazzo di consapevolezza, come se avesse parlato troppo e a sproposito. - Che addestramento hai avuto? -
- Sto iniziando - Stacho rispose risentito.
- Lascia stare - cambiò tono - un bit è circa da quando ho visto i primi movimenti del portale. Mezzo bit da quando ti ho aiutato ad attraversare. -
- Interessante - mugugnò Stacho calcolato il bit in circa mezz'ora. Poi si decise ad aprire il cofanetto e ne rimase sbalordito, nonché contrariato. - Un libro? -
- Fa vedere? - Sheila si avvicinò e si allargò in un sorriso strepitoso.
- Tutto qui? Un libro... di carta - lui lo osservò quasi schifato. Un libro cartaceo, consunto e dalla copertina opacizzata dall'uso, gli angoli sbrindellati. Un formato economico in A5 standard di normale editoria come non se stampavano quasi più, surclassati da decenni dai vari formati multidigitali, ma ancora ritrovabili accatastati in maniera spesso scomposta nelle bancarelle dei mercatini e nelle fiere, a fianco di fumetti, riviste e antiquate chiavette usb e lettori-media monouso.
- Stai scherzando, vero? - lo riprese Sheila alzando i toni come a rimproverarlo per aver appena bestemmiato. - Questo è il libro! Il mito del Viaggiatore, la Leggenda... - si spense per un attimo e dopo averlo guardato storto riparlò, e parve declamare: - Questo libro lo dedico a te, Stacho Quzbic. Leggilo Quzbic, senza saltare, una frase di seguito all'altra. - Lo fissò dritto negli occhi, e fu chiarissimo che quel che vide non era la reazione che si aspettava. - Come hai fatto a diventare... - sbuffò e gli intimò, rabbiosa: - Guarda quel treppit di libro e leggi il titolo! -
Investito dalla furia verbale di Sheila, Stacho tolse il libro dal cofanetto riconsegnando quest'ultimo alla ragazza. E finalmente, guardò e lesse.
Marco Milani
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