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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Amelia Belloni Sonzogni
Titolo: Anime animali
Genere Narrativa Racconti
Lettori 4379 53 72
Anime animali
Qual è il filo?

Sono fermamente convinta che gli animali abbiano anima, personalità, indole, carattere, sensibilità. E intelligenza. Sono individui senzienti. Vivendo a stretto contatto con noi umani, se e quando li amiamo, mostrano al meglio queste loro peculiarità, ma sta a noi coglierle e distinguerle. Possiamo per fortuna essere educati e formati a questo, possiamo leggere, studiare, apprendere; tuttavia, l'esito non è così scontato e purtroppo l'indole di certi umani risulta refrattaria a qualsiasi intervento.
Alcuni invece, di sicuro privilegiati, ricevono come un nutrimento la predisposizione a comprendere il linguaggio degli animali, “la bevono – come si dice – con il latte materno”, tuttavia non è sempre la madre a trasfonderla. Talvolta esistono corrispondenze più dense e profonde con il padre: affinità elettive che passano anche attraverso la condivisione della familiarità con gli animali, connaturata e identica, si esprimono in un rapporto speciale, in cui la comprensione è uno sguardo, una carezza, l'accordo in una discussione, le stesse scelte. Il divario d'età, di generazione, lascerebbe presumere un logico conflitto che, invece, manca. Padre e figlia possono diventare, più che complici, esseri in armonia. L'antagonista può avere altre sembianze.
C'è un filo, dunque, a legare tutto e nei filamenti che ne costituiscono l'intreccio entrano le figure, archetipiche ma concretizzate nei gesti quotidiani e nelle dinamiche familiari, di un padre e di una figlia con il loro amore per gli animali – soprattutto cani – e gli animali con le loro anime, personalità, indole, carattere e sensibilità.
Come facce di un poliedro o fotogrammi sopravvissuti all'oblio, i racconti seguono l'arco temporale di una simbolica vita che, calata in momenti storici e ambienti diversi tra la fine degli anni Trenta e l'inizio del nuovo millennio, ne interseca altre.
Durante e oltre il compiersi di questo ciclo vitale, la figlia riconosce netta in sé, negli atteggiamenti e nelle emozioni, l'identità del padre: presente nella spirale genomica, eredità biologica ed etica inalterabile, testimone di un'essenza tramandata. Quella, gli animali conoscono e riconoscono; in quella le anime si sincronizzano.
Tutti gli animali protagonisti di questi racconti sono davvero esistiti. Ambienti, vicende e umani, sia pure ispirati a vita vissuta, sono invece rielaborati dall'immaginazione. Perciò è casuale ogni riferimento alla realtà inerente fatti o persone. Nel primo racconto gli eventi storici citati hanno il relativo riferimento bibliografico.
Le immagini provengono dal mio archivio privato, comprese quelle di copertina. Quest'ultima è stata realizzata con il determinante aiuto tecnico di Federico Maderno, che ringrazio per la premura.
Il mio sentito e rinnovato grazie va al prof. Raffaele Mantegazza per la prefazione, nuovo regalo a me e alla causa a cui questo libro si lega.

Ufinta

Bassano del Grappa, novembre 1938
Ad Ufinta piaceva il castagnaccio, forse per il profumo di bosco, o l'aroma del rosmarino; o per l'uvetta, così dolce. Il panettiere di Bassano ne metteva in abbondanza e piaceva da matti anche ad Antonio, che ne comprava spesso una fetta prima di incamminarsi verso i campi delle esercitazioni. Mangiava a piccoli pezzi mentre andava, in testa alla colonna più alto di tutti, con il conducente Giuseppe e un altro paio di alpini, Giovanni e Marcello.
Con loro, primo mulo in colonna, camminava lei, Ufinta, mula dell'esercito, ma “la mè Ufinta” per Antonio era sua. La guardò annusare nell'aria il profumo che usciva dal cartoccio appena acquistato: allungava il muso, dilatava le froge e le labbra vibravano, come avesse l'acquolina in bocca. La trovava irresistibile. In silenzio le rispose - sì, aspetta - e le allungò un pezzettino di castagnaccio, mentre lui stesso assaporava il gusto amarognolo di fondo.
- Sempre così, eh Ufinta? Come il primo giorno - commentò Giuseppe, mentre la osservava poggiare delicata le labbra sul palmo della mano tesa di Antonio e far sparire il boccone. Nessuno sapeva dove fosse nata quella mula. Antonio aveva provato a indagare, cercando il numero di matricola impresso sullo zoccolo anteriore sinistro, ma non aveva trovato nulla. Gli avevano detto che i fascicoli relativi ai muli più anziani erano stati persi qualche anno prima, nell'autunno del 1934, durante il trasferimento della scuola allievi ufficiali di complemento da Milano a Bassano. Sull'unica base di un proprio sentire, si era convinto che Ufinta fosse nata in Lunigiana come il suo conducente poiché la voce dell'uomo e il suo accento spiccato la calmavano come una ninna nanna.
Giuseppe era contadino, rispettoso; come militare di leva, più giovane di Antonio era stato nominato suo attendente: lo accudiva con la premura di un padre. Antonio ricambiava considerandolo suo anche lui: “el mè Giüsepp”, diceva. Non gli dava ordini: elencava le operazioni da eseguire, chiedeva il suo parere e in caso apportava le modifiche opportune. Giuseppe non osava rivolgersi a lui in tono confidenziale, e quindi parlava alla mula in un abituale gioco delle parti, in cui tutti si divertivano:
- Oh Ufinta! Gli stessi vizi, quasi ogni giorno - .
- Dove lo trovo un altro sottotenente così? - rispose Ufinta, con la voce di Giovanni.
- Cosa vorresti dire, mula? - chiese Marcello.
- È bravissimo. Questi bocconcini me li allunga solo lui - .
- È perché sei speciale, e lo sai, vero brutto muso? - disse Antonio ad Ufinta, con un sorriso.
- Mi perdoni, – avvertì Giovanni, mentre la mula ruminava alla ricerca dell'acino dolce – Ufinta è molto permalosa, stia attento - .
- Ma no! Io e lei ci capiamo, ci siamo capiti subito. È bastato guardarci, ti ricordi? Il giorno in cui sono arrivato, quando ci siamo incontrati - .
- Se lo ricorda eccome! – intervenne Giuseppe – non riuscivo a spostarla da lei - .
- Mi ero incantato a guardare la Brenta e il ponte - .
Antonio aveva una nota di rimpianto nella voce; Marcello la colse e provò a sdrammatizzare:
- L'abbiamo indotta a pentirsi della scelta? -
Risero tutti, anche Antonio. Scosse il capo in segno di diniego e simpatia per quel sagace burlone veneto, con la battuta fulminea, sempre pronto a scherzare.
- Mi ha visto Giuseppe, o mi ha visto Ufinta? -
- È stata lei, è stata lei! – assicurò Giovanni – Ha annusato il cartoccio del castagnaccio! Mi ricordo benissimo: l'ha annusato e l'ha puntato - .
- Il ponte quel giorno pareva un salotto, ampio e accogliente. E io ero appena arrivato, dopo ore di viaggio, non avevo dormito né mangiato. Non sarà stato molto elegante, sbocconcellare del cibo in salotto - .
- L'ho notata perché sorrideva immobile ai muli, ma come se non li vedesse - raccontò Giuseppe.
- Pensavi che mi stessi per buttare? - chiese Antonio con una risata.
- Avevo capito che era assorto nei suoi pensieri, però non riuscivo a immaginare cosa nei muli potesse catturarla così - .
Era vero, ne era stato quasi ipnotizzato. Il suono degli zoccoli risultava cadenzato con un ritmo in controtempo su quello degli scarponi. Sulle assi di legno del ponte, risuonava un'eco più rotonda di quella prodotta sulla strada e la vibrazione si ripercuoteva sulle capriate quasi accarezzandole. Carichi, distanziati, tirati ognuno per le cavezze, sbuffavano; il loro fiato caldo avvolgeva tutto in una nube, dalla quale sbucavano le punte delle penne nere e il pelo sensibile delle orecchie. C'era, nel loro andare, qualcosa di restio, diverso dalla proverbiale cocciutaggine; si muovevano sicuri, lasciando dondolare le pance tonde, con l'indolenza di chi va controvoglia dopo aver abbandonato ogni inutile tentativo di dissuasione. Al vederli, Antonio aveva provato una tenerezza immediata, poi una disperazione struggente come se gli avessero suggerito che qualcosa di irreparabile stava per afferrarlo. Il presentimento di dover affrontare la sorte senza armi adeguate gli aveva stretto la gola, l'ansia quasi lo aveva paralizzato ma lo zoccolo di Ufinta battuto sul legno e un raglio improvviso, per quanto sommesso, lo avevano scosso.
- Mi ero proprio incantato, Ufinta mi ha riportato alla realtà – disse, dandole l'ultimo pezzo della sua fetta di castagnaccio – e tu, Giuseppe, mi hai dato il primo insegnamento - .
- Quale? -
- Volevo accarezzarla sul muso, ma lei si era girata nella direzione di marcia, verso la caserma. Allora, le ho dato una pacca leggera sul dorso. Ricordi? -
- Ricordo che la stava seguendo - .
- Davanti ai muli e dietro ai cannoni, mi hai detto - .
- I muli scalciano e i cannoni sparano. Mi scusi, ma quel giorno lei era in borghese, non era ancora un mio superiore - .
- Non ti scusare. Mi sembra ieri. Invece, i campi estivi sono già terminati e si avvicina l'inverno - .
Cambiarono passo perché la strada iniziò a salire.
Antonio si girò ogni tanto a guardare Ufinta: era un mulo di prima classe, addetta all'artiglieria da montagna, più alta degli altri in dotazione alla caserma, il collo robusto, la testa fiera che raramente si abbassava. Così, riusciva a fissare gli alpini diritto negli occhi.
Gli facevano la stessa gran tenerezza del primo giorno, lei e gli altri muli, carichi come muli; ma soprattutto lei che era così speciale: per il pelo chiaro sulla pancia, per il muso vellutato, perché in marcia allungava ad ogni passo il posteriore destro con un gesto quasi vezzoso, perché non aveva mai preso a calci nessuno senza prima avvertirlo. Infatti, si impuntava, girava le orecchie all'indietro, ragliava e solo allora lasciava partire un calcio preciso e assestato.
Quando Antonio andava a salutarla nella scuderia, l'accarezzava, le si appoggiava addosso e le raccontava di sé. Solo a lei aveva confidato che era riuscito a superare la visita medica per un soffio, perché da un occhio non ci vedeva proprio benissimo, quindi, in marcia, lei, il suo intuito e il suo equilibrio, gli erano di aiuto.
Mentre lo sentiva parlare, Ufinta si immaginava libera: senza basti, senza pesi, senza recinti, su prati da brucare durante pomeriggi assolati, stesa all'ombra ad ascoltare ciò che Antonio, lontano dalla sua vita, anche solo pensava: la propria casa, le occupazioni quotidiane e gli occhi chiari della donna appena conosciuta, nascosti sotto le onde bizzose dei capelli neri. Era troppo presto, pensava Antonio. O troppo tardi, forse, per entrare nei dettagli di un progetto di vita abbozzato. Di certo, non poteva più tornare indietro; quindi, andava: di fianco alla sua mula, sui treni, sui carri, a piedi, dall'altopiano ai passi lungo le valli del Brenta e dell'Adige.
Ufinta era sempre in testa alla colonna. Di fianco a lei, Giuseppe che sapeva parlarle, davanti a lei, tese, le penne degli alpini che non perdeva mai d'occhio. Le seguiva come una bussola, attenta a sua volta perché non sbagliassero strada.
- Aria di neve - disse Marcello.
- La sente anche Ufinta, guardi che naso - aggiunse Giuseppe. Le froge vibravano ritmiche, sempre più affannate.
- Sarà meglio rientrare - . Antonio ordinò il dietro front.
Di notte, scese una bruma gelata e il mattino seguente, le strade erano infide lastre di ghiaccio sottile. Ne trovarono a tratti anche lungo i sentieri per raggiungere il campo invernale; dovettero rallentare il passo, poggiare gli scarponi al sicuro, controllare i percorsi dei muli.
Il sentiero si strinse. Brulli cespugli di sterpi secchi delimitavano un margine oltre il quale si intravedeva una scarpata. Giuseppe si voltò ad esaminare la fila dietro di lui, scambiò con Antonio un cenno d'intesa, una silente frazione di secondo, poi sentì nella cavezza una tensione diversa: guardò, vide il posteriore destro di Ufinta slittare, Ufinta sparire. Trattenne il fiato, fino al tonfo sordo di Ufinta caduta. Urlò un alt strozzato dalla paura.
Antonio si girò: non vide la mula. Vide Giuseppe proteso sull'orlo del sentiero, capì e si sentì perso mentre immaginava ferite incurabili, la necessità di non farla soffrire, di doverla abbattere. Corse a guardare. Si notava il posteriore destro in una posizione innaturale, si sentiva un lamento, un soffio che pareva un rantolo. Si scosse. Ordinò il recupero dell'animale e del suo carico. Mandò Giovanni a trovare un carro, dove voleva, dove sapeva. Gli alpini intanto si calarono, raggiunsero Ufinta, ferita ma viva. Le si affrettarono intorno, veloci, precisi, esperti. La imbragarono rapidamente. Era immobile: solo lo sguardo si aggirava stranito e le orecchie palpitavano appena. Il posteriore destro ciondolava inerte. Glielo steccarono.
Li osservò sofferente, fissò i loro cappelli, le penne tese non erano le stesse che aveva davanti prima di cadere; voltò il muso in su, verso l'orlo della scarpata e tutte le altre penne radunate a guardarla le diedero le vertigini. Perse bava dalla bocca. Gli alpini si affrettarono. Ufinta li vide sbiaditi, li sentì parlare un'altra lingua. Vide Antonio lontano: il volto nascosto da un intrico confuso, una barriera lacerante di fili spinati, poi spari, raffiche, un rumore secco, metallico, catene, porte, serrature, rotaie. Vide Giuseppe dare di nascosto delle patate ad Antonio, pallido, macilento e tanto più alto di com'era. E poi la neve sui fili, sulle penne, e il freddo acuto.
Svenne.
La cordata la issò. Si affrettò il ritorno in caserma. Durante il tragitto, Ufinta rinvenne e si agitò, tentò di tirare calci senza riuscirci, le orecchie tremarono, il raglio le si strozzò in gola. A Giuseppe sembrò volesse avvertirli di qualcosa, ma gli parve un'idea assurda. Pensò delirasse per il dolore.

Bassano del Grappa, ottobre 1939
La curarono. Rimase a lungo avvolta in un'imbragatura appesa al soffitto della scuderia, in attesa che la zampa potesse reggere il peso. Quando riprese a camminare nel cortile della caserma, il posteriore destro era di nuovo saldo e forte: era pronta a tornare in servizio. Quello di Antonio, invece, era terminato.
Prima di partire, andò a salutarla. Si aspettava un incontro triste ma complice, addolcito dal castagnaccio che le aveva portato; invece, Ufinta soffiò, si scostò dalle sue mani scontrosa, scorbutica. Sembrò volesse mandarlo via, finché lo guardò diritto negli occhi mentre le tremavano le orecchie e con un raglio sommesso lo salutò. Lui rispose: - Ciao bella; mi raccomando: prudenza - .

Cuneo, 23 dicembre 1942
Poco prima di Natale, Antonio richiamato alle armi arrivò a Cuneo, dove ritrovò Giuseppe che si rese prezioso perché riuscì a scovargli una stanza in affitto, si preoccupò dell'acquisto dei viveri per le mense da organizzare, trottò sopportando gli umori ballerini del suo tenente, esasperato e preoccupato: mentre il loro mondo collassava e le alte sfere giravano come biglie senza criterio, loro erano lì, tenuti in una bolla di tempo sprecato e precario, fermi a lucidare stivali o sfiancati in inutili camminate sui monti e continui spostamenti di sede.
Mancava Ufinta.

Cuneo, 31 luglio 1943
La videro arrivare, carica come un mulo, con le orecchie tremanti, un'espressione sfinita e irascibile: solo loro potevano leggerla come lo specchio dell'incomprensione reciproca con il nuovo conducente che la strattonava, brontolando qualcosa.
- Problemi con la mula? - chiese Giuseppe.
- È strana. Lunatica e testarda - rispose l'alpino.
- Bisogna saperla prendere. Puoi lasciarmela, se vuoi - .
- Davvero? -
- Sì, vai pure dove devi, ci penso io - insistette Giuseppe.
- Te la do volentieri. E vieni! – esclamò rivolto ad Ufinta – Quando si impunta... Non c'è verso; sembra che abbia un motivo, però vallo a capire. Io ci ho rinunciato - .
Ad Ufinta bastò rivedere quelle due penne e incrociare quegli occhi per riprendere vigore. Docile e ciondolante seguì Giuseppe come un cagnolino; Antonio, dall'altro lato del muso, la grattò sotto l'orecchio. Erano di nuovo insieme, ma nessuno dei due riuscì a parlarle dalla gioia; lei espresse la propria felicità con la testa bassa, un raglio gutturale e qualche morbido pizzico a entrambi. Mentre Giuseppe la controllava tutta per verificare che non avesse segni di botte e si preoccupava di accudirla, Antonio raggiunse l'addetto all'assegnazione dei muli. Era abile nell'individuare le caratteristiche di ognuno e metterle a frutto, in modo che si sentisse essenziale per l'ordinato funzionamento della caserma:
- Ho bisogno di te - .
- Comandi, signor Capitano - .
- Si tratta di un'operazione che solo tu sei in grado di compiere - dichiarò, con l'aria di chi si stava affidando all'unica persona competente in materia. Il tempo di spiegare la manovra e nel registro delle assegnazioni Ufinta tornò ad essere sua:
- Bravo. Stasera, bevuta pagata - .
L'addetto scattò sull'attenti.
Quando il conducente di Ufinta andò a cercarla, gli furono comunicati il cambiamento e un avviso: - Vai in licenza due giorni - . Quasi non ci credeva e indugiò in fureria finché sentì i telegrafisti trasmettere un ordine. Appena uscito, cercò Giuseppe per dirglielo. Lo trovò che accarezzava la mula appoggiata con il muso al suo petto:
- Ciao mula. Non so se vi trovo al mio rientro - .
- Qualche novità di Radio scarpa ? -
- Il battaglione sta per essere mobilitato - .
- Hai capito dove? -
- Non è chiaro: nelle valli tra l'Adige e la Brenta, o sul confine con l'Austria. Buona fortuna - .
Gli ordini arrivarono pochi giorni dopo: partenza per Chiusa val Gardena, poi Bressanone; infine, di stanza a Egna.

Egna, 8 agosto 1943
Ci arrivarono in un dopopranzo assolato; nello spiazzo dove sostarono, c'era una massiccia fontana di pietra a due grandi vasche, abbeveratoio e lavatoio. Antonio bevve l'acqua che zampillava da due bocchette, ne raccolse con le mani e se la buttò sul viso; rinfrescò la nuca, i polsi e si guardò intorno: la strada che si sviluppava davanti a lui aveva, sui lati, tipici portici bianchi, bassi e ampi, ma bui. All'angolo, c'era un albergo, l'Aquila Nera, e di fronte l'insegna di un panificio a vapore, nascosto nel buio del portico; più in alto dell'insegna, sopra a una finestra chiusa, una scritta a caratteri cubitali sul muro diceva: “La pace romana si esprime in questa semplice, inequivocabile, definitiva proposizione: l'Etiopia è italiana”. Seguiva l'anno dell'era fascista in numeri romani, ma non si leggeva perché l'intonaco era scrostato.
Sembrava un posto immobile, quasi disabitato. Da sotto il portico dell'albergo apparve un ragazzino, che si fermò ad osservare; un vecchio contadino si avvicinò alla fontana per prendere acqua. Antonio disse - Buongiorno - . Nessuno dei due rispose: il ragazzino se ne andò e il contadino continuò a riempire il secchio, neppure guardò chi lo aveva salutato. - Cordiali! - pensò Antonio, che provò netta una sensazione di estraneità, ma diede la colpa al caldo afoso, insopportabile.
Fu un agosto complicato per lui, spesso febbricitante, in un perenne stato di allerta e tensione, con la continua sensazione di doversi guardare le spalle. Da Radio scarpa rimbalzava la notizia di un possibile armistizio che avrebbe indotto la popolazione locale a far causa comune con i tedeschi cercando di sopraffare le forze italiane. Antonio, spesso inviato a Bressanone, Bolzano e Trento per i rifornimenti del comando di reggimento e con il compito di osservare e riferire, girava cauto, attento ad ogni minimo segnale. Cercò di imparare a leggere le espressioni teutoniche più impenetrabili e si era convinto di un incombente precipitare degli eventi. Non poteva però scriverlo a chi aspettava notizie a casa, dove spesso le frasi apparivano oscure perché non si sapeva leggere tra le righe. E quando azzardava a essere più esplicito, la rigaccia nera della censura piombava sulle sue parole.
Ufinta era l'unica consolazione. Le orecchie sembravano cresciute; a volte le apriva per pochi attimi in un'estensione impensabile, quasi le ali di una farfalla, per poi riportarle nella posizione naturale. La osservavano preoccupati, per il timore che soffrisse nuovi postumi dell'antico incidente, ma si rassicuravano quando mangiava e si tranquillizzavano del tutto quando ingoiava, con una silenziosa leccata, le fette di strüdel: le mele erano dolci quanto l'uvetta del castagnaccio.
- Oggi andiamo a comprartelo – le avevano detto – stai brava e aspettaci - . Li aspettò, ma era inquieta. Gli zoccoli battevano sulla massicciata della scuderia, assillanti, fino a quando il suono delle sirene antiaeree li coprì. Antonio e Giuseppe non erano ancora tornati. Ufinta sentì il tramestio degli alpini che organizzavano un trasporto per recuperare chi a Bolzano era stato sorpreso dal bombardamento.
Non fu semplice tenerla a bada. Ragliava, scalciava, si calmò solo quando “seppe” che erano tornati. Passò qualche ora prima che riuscissero a infilarsi nella scuderia per stare con lei.
- Siamo qui, tranquilla. Li hai fatti tribolare, lo so - la sgridò bonario Giuseppe, mentre il suo Capitano la carezzava con uno sguardo incupito.
- Mi trova in mensa, signor Capitano - gli disse, comprendendo che aveva bisogno di rimanere solo.
Antonio si appoggiò al dorso della sua mula, posò l'orecchio sul pelo per sentire meglio tutti i piccoli scatti nervosi andare all'unisono con le sue preoccupazioni. Gli spostamenti del reggimento che era suo compito organizzare in quel periodo lo avevano affaticato: era sempre in tensione, dormiva poco, trafficava tanto, percorreva distanze con ogni mezzo, dalle sue gambe all'auto del colonnello, in attesa dell'ordine di partire, che arrivava mentre mangiavano o mentre dormivano. Dovevano essere pronti a tutto in ogni istante, in quel paese che trovava brutto, antipatico e tutt'altro che ospitale. Da quando era di stanza al Comando del secondo reggimento, non riusciva a riposare. Si riconosceva a stento tanto era slavato per il caldo torrido che pativa, insopportabile. Gli mancavano le serate a chiacchierare con i suoi amici di Cuneo, tutti altrove; l'unico che doveva raggiungerlo non era più arrivato. Però, c'era Giuseppe, una presenza vitale, e c'era Ufinta: sulla groppa della sua mula riusciva a diradare i pensieri e le angosce per lasciar passare l'immagine della donna amata: - Vuol venire a trovarmi, lo sai? Anch'io vorrei tanto incontrarla, anche solo vederla un momento, ma metterei a rischio la sua vita. Non lo capisce, è testarda, come qualcuna che conosco. Mi tormenta con mille domande: “e non mi ami più, e hai altri interessi...” Proverò a dirle che tutte le mogli dei miei colleghi stanno tornando alle loro case, forse si convincerà. Quanta pazienza! -
Ufinta ascoltò. Poi girò piano il muso piegando il collo verso di lui. Avvicinò le labbra al suo fianco per dargli un morso, leggero e morbido. Antonio reagì con un sobbalzo: - Ora mi fai anche il solletico - . Gli aveva strappato un sorriso, emise uno sbuffo e un sospiro. - Che dici? Sì, lo so, c'è poco da scherzare. Non l'avrei mai immaginato, ma bisogna guardarsi da tutte le parti - . Antonio abbracciò il suo collo, carezzò il suo naso: - Ciao bella, a domani - la salutò e se ne andò, con il presentimento che qualcosa sarebbe accaduto. Glielo suggeriva il suo istinto, o forse il suo pessimismo.

Egna, dopo il 2 settembre 1943
Furono tesi e veloci, i giorni seguenti il bombardamento del 2 settembre. Radio scarpa riferiva di ordini e contrordini insensati. Sembrava che il reggimento dovesse essere spostato in quella che ormai era zona di operazioni. Con il formale incarico di recuperare altre provviste, Antonio fu inviato di nuovo a Bolzano e a Trento. Tornò e riferì. Le frequenti rappresaglie della popolazione locale non lasciavano spazio a molti dubbi: di fronte a una scelta possibile, la maggioranza avrebbe fatto causa comune con i tedeschi; i soldati italiani erano tra due fuochi in procinto di scoppiare.

[Tutto il ricavato delle vendite di questo libro è destinato al progetto Non uno di troppo - Calabria realizzato da Save the dogs and other animals]
Amelia Belloni Sonzogni
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