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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Massimo Nepote André
Titolo: L'oro di Caalum
Genere Thriller Storico Tecnologico
Lettori 3708 42 65
L'oro di Caalum
27 A.C. Basso corso della Dura Major - Terre fredde

I bordi aspri della nuova corrigia gli segavano la clavicola.
Il cuoio, rigido di concia, era ancora lontano dall'essere fiaccato dai movimenti e dal sudore. Due giorni prima, aveva ordinato che tutte le legature in morbida pelle dell'armatura fossero sostituite. Per le parate e le esercitazioni svolgevano il loro compito, ma in una campagna militare occorreva ben altro.
Insinuò il pollice tirando di lato per dare sollievo alla carne. Ne approfittò per sollevarsi un poco e controllare l'allineamento della colonna di soldati alle sue spalle.
Gaio Marco Lepidus procedette per un poco in quella posizione, una mano ad alleviare il tormento dell'usbergo, l'altra sulla sella, con le redini in pugno, a sorreggere parte del suo peso. Manteneva il torso eretto, il busto girato all'indietro, mentre, esagerando i movimenti del cavallo al passo, si lasciava andare per sciogliere i muscoli contratti.
Trentadue anni, capelli scuri, occhi azzurri e un fisico atletico per gli assidui allenamenti che un suo caro amico lanista gli aveva consentito di effettuare, aprendogli le porte della scuola di Capua che era stata di Caio Aurelio Scauro.
Di quei tempi, portava con nostalgia il ricordo di avventure e bagordi tra postriboli e taverne e, con orgoglio, una cicatrice sullo zigomo sinistro. Una linea netta, non troppo vistosa, che invece di deturpargli il viso, in qualche modo glielo aveva reso più vissuto e, a detta di molte donne, interessante. Il resto dei graffi, come li chiamava lui, li doveva ad alcune campagne minori in Numidia e Tracia, dove le armi erano di ferro e bronzo piuttosto che di legno, e chi le maneggiava lo faceva per uccidere, non per impartire una lezione di destrezza.
Nonostante i successi, gli mancava ancora qualcosa per assurgere al ruolo cui anelava nel novero dei comandanti titolati di Roma.
Qualcosa che brillasse.
Era poco più di un ragazzo quando, con l'assassinio di Caio Giulio Cesare, il mondo era cambiato. Le carte si erano rimescolate, le rivalità tra i consoli avevano prima ritardato, poi accelerato una carriera che, in tempi stabili, sarebbe stata più costante e gestibile. Però aveva saputo giocare bene le sue carte e coltivava alcune conoscenze. Non aveva particolari recriminazioni da farsi, poteva andare molto peggio.
Soprattutto ora, aveva un'occasione.
Con cinquanta soldati e ufficiali scelti al suo comando, aveva anticipato la legione. Si era mosso da Roma sei giorni prima delle Idi di aprile lasciandosi alle spalle una natura già in rigoglio da quasi un mese.
Poco più di un ricordo.
In quel momento, dopo quattro novene, a trecentocinquanta leghe dal tepore di quella primavera, lottava con i brividi sotto un cielo grigio.
Al castrum dei Taurini aveva assunto il comando di mille fanti e duecento cavalieri di stanza. In più occasioni si era parlato di fondarvi una città, per ora c'era solo il grande accampamento fortificato alla confluenza di due fiumi, che serviva da base militare. Forse dopo aver messo in sicurezza il territorio. Sarebbero occorsi almeno due o tre lustri, poi chissà?
Intanto lui avrebbe fatto la sua parte.
Durante i giorni in cui aveva atteso il resto del contingente, aveva riorganizzato i ranghi inserendo i suoi uomini fidati a capo delle centurie e imposto improvvise e intense sedute di addestramento. Riunite le forze, la spedizione si era diretta verso i monti.
ʻAlpes infida'.
Dopo aver ascoltato i resoconti degli esploratori e i consigli dei luogotenenti, aveva deciso di evitare la via più diretta e breve premiando la prudenza con un largo giro verso est. In tal modo avrebbe evitato scorrerie dalle vicine valli, rifugio sicuro per orde di barbari, vere e proprie spine nel loro fianco sinistro.
Avevano percorso una ventina di leghe lungo la sponda destra dell'Eridanus, usandolo come protezione, fino alla confluenza della Dura Major, il fiume che scendeva dalla più grande delle valli del Nord, la loro meta.
Si erano accampati e, il giorno seguente, avevano fatto sacrifici per propiziarsi il favore degli dèi; quindi, avevano guadato le acque che avevano accolto il figlio di Fetonte sul suo carro e, mantenendosi sulla sponda sinistra dell'affluente, si erano diretti per l'intera giornata verso nord a ranghi compatti e raddoppiando il numero degli esploratori.
Quello era il terzo e ultimo giorno di trasferimento. Erano partiti con il buio e, a mattino inoltrato, faceva ancora freddo. Si stavano avvicinando al territorio nemico. I soldati lo sentivano già dal pomeriggio precedente: qualche lega dopo il guado, il loro brusio si era acquietato. Ora, l'unico rumore era quello del loro avanzare, spezzato dallo sbuffare dei cavalli e dal cigolio dei carri.
Dalla colonna si sollevava una nube di polvere e vapore: lo strusciare di zoccoli e calzari che si univa al fiato di uomini e animali. Una foschia svogliata, dal colore malato, che si ostinava a seguirli ristagnando su di loro.
Il comandante della spedizione punitiva che doveva soggiogare le popolazioni delle montagne riusciva a spingere lo sguardo soltanto per poche centinaia di braccia, dove le insegne svanivano nel nulla. La loro stessa polvere nascondeva i carri con le salmerie che aveva voluto posizionare tra la quarta e quinta centuria, a un quarto di lega dalla testa della colonna, non in coda come d'abitudine.
Non si fidava.
Dopo le due vittorie consecutive di dieci anni prima, la pianura era ormai al sicuro sotto il controllo di Roma, ma qualche scorreria non era mai da escludere.
Gaio Marco osservò i suoi: ore di cammino senza fatti degni di nota. I volti erano privi di espressione, attenti ai propri movimenti, un passo dopo l'altro, nulla più.
Il loro procedere stava scivolando nell'apatia.
Si risistemò sulla sella, spronò il cavallo e si avvicinò alla più arretrata delle avanguardie di esploratori: quattro soldati che procedevano allargati.
- I barbari? -
- Nessun segno, mio comandante. Solo qualche contadino - .
Con un gesto di stizza, fece fare uno scarto alla montatura portandosi a tiro di uno dei soldati, sciabolò con il frustino portandoglielo alla base del collo senza affondare il colpo, il braccio teso, il pugno chiuso con il dorso verso l'alto.
- I contadini non sono forse barbari? Credi che non siano capaci di tagliarti questa gola? O di segnalare il nostro passaggio a chi non puoi vedere? - .
Attraverso il nerbo di bue premuto sulla carotide sentì l'altro deglutire.
Trasse a sé le redini, prendendo le distanze e alzando il braccio di scatto. La sferza fischiò nell'aria innervosendo il cavallo che fremette, il pelo percorso da un brivido.
Mentre ne controllava l'accenno di impennata, gridò:
- Tenete gli occhi aperti se non volete andare in coda alla colonna a raccogliere lo sterco per i fuochi fino al termine di questa campagna! E passate parola, che valga per tutti! - .
Quasi all'unisono, i quattro soldati abbandonarono la postura in cui si erano adagiati drizzando il busto. Mani strinsero meglio l'impugnatura del gladio, altre corsero a sistemare i corni di allerta.
Gesti camuffati da un voltarsi casuale, un aggiustarsi l'armatura leggera.
Gaio Marco pensò che per il resto della giornata potesse bastare, intanto avrebbero raggiunto l'accampamento fortificato di Eporedia all'imbocco della valle.
Al galoppo lento, percorse le fila all'indietro per un buon tratto, fino all'altezza delle gabbie dei prigionieri, dove troppo spesso si ritrovava suo malgrado, succube di un'attrazione malsana che non avrebbe mai ammesso neanche con sé stesso.
Ancora una volta trattenne le redini.
Evitò la gabbia più piccola lasciandola sfilare al lento passo della colonna. Si rivolse in modo ostentato verso quella dell'uomo: il greco giaceva prostrato, immerso nelle sue feci, lo sguardo vacuo filtrava tra i capelli incrostati. Un arto, grigio di polvere, penzolava tra le sbarre quasi a toccare il suolo. Ogni velleità era scomparsa, corrosa dai ciottoli visti scorrere lungo centinaia di leghe di strada. Gaio Marco intimò a due soldati di usare dei secchi d'acqua per ripulire il prigioniero. Mentre si muovevano per eseguire l'ordine lui fu consapevole che, nel riguadagnare la testa della colonna, avrebbe dovuto rivolgersi verso l'altra gabbia.
Dove avrebbe incrociato quello sguardo.
La donna: una prigioniera Lacone non smentì le sue attese: due ferri grigi, affilati, erano piantati su di lui. Era certo non l'avessero lasciato un istante fin dal suo arrivo, poco prima, ed era certo che li avrebbe avuti conficcati nella schiena finché non si fosse perso in lontananza. Gaio Marco spronò il cavallo lasciandosi i prigionieri alle spalle, inseguito dal color rame dei capelli della donna con cui aveva scambiato l'occhiata. Spossata, le vesti lacere. Si teneva tuttavia, con una sola mano, a una delle sbarre per meglio reagire agli scossoni del carro.
Al contrario dell'uomo, lei era ancora pericolosa.
Mentre riguadagnava la testa della colonna al piccolo trotto, gioì di alcune occhiate timorose che colse tra le fila. Ripensò alla sfuriata che aveva fatto poco prima al gruppo di esploratori.
ʻLe notizie volano'.
Guai a lasciare gli uomini tra le spire dell'indolenza. Un soldato poco attento era un soldato morto, adesso avrebbero fatto più attenzione.
E lui, Gaio Marco Lepido, non avrebbe commesso l'errore di sottovalutare il nemico.
Dalla clamorosa disfatta romana di tanti anni prima era passato molto tempo: dopo aver perso oltre diecimila uomini, Appio Claudio Pulcro aveva provato a restituire l'onore a Roma e riprendersi il suo, ma l'impresa era riuscita solo in parte.
Una vittoria risicata, il trionfo tra le vie della capitale aveva dovuto pagarselo di tasca sua.
E dopo pochi anni, i Salassi erano tornati padroni dei valichi.
La cosa si era ripetuta a varie riprese. Per decenni, la Repubblica era stata dissanguata dai tributi per il passaggio verso le Gallie e da quelli per la gestione delle miniere che gli occupanti delle valli imponevano.
Ora la Repubblica non c'era più.
Il nascente impero non poteva permettersi una mancanza di controllo entro i confini naturali.
Era ora di finirla per sempre.
Spazzò il luogo con lo sguardo, quello era il territorio che sarebbe stato testimone del suo valore.
Alla sua destra, a tre o quattro leghe di distanza, confusa nella foschia, sfilava una gigantesca parete verde. Alta un migliaio di cubiti, si assottigliava perdendosi nel nulla alle loro spalle. La cresta era rettilinea, era certo che se uno dei fabri caementarii avesse potuto piazzarci sopra un archipendulo, il filo a piombo ne avrebbe sentenziato la perfetta orizzontalità.
Era strana.
Sapeva che al di là della collina si trovavano le terre dei Victimuli: una tribù barbara minore allocata verso oriente e le Aurifondinae: i campi auriferi che questi sfruttavano per conto di Roma in un accordo di subordinazione e commerciale al tempo stesso. Sottomessi, ma fieri di una indipendenza che all'atto pratico non avevano. Non erano dei veri e propri schiavi, non ancora almeno.
La testimonianza dei procuratori che gestivano l'oro estratto dalle miniere e i rapporti recenti degli esploratori garantivano una certa sicurezza da quel fianco. Per il momento da destra non sarebbero giunti attacchi, il vero nemico era di fronte, nella grande valle: i Salassi.
Quanto ai Victimuli, qualche gruppo scalpitava, c'erano stati disordini di poco conto e qualche interruzione del lavoro. Nulla che non potesse essere messo a posto con qualche frustata e qualche piede mozzato. Per il momento potevano continuare a cavare oro in cambio di sale e altri beni, poi sarebbe venuto anche il loro turno. Nulla e nessuno doveva sottrarsi al totale dominio di Roma.
Lasciò con gli occhi la collina diritta e rivolse la sua attenzione a settentrione: verso l'imbocco della grande valle dove erano diretti. Il varco verso le Gallie sembrava chiuso dalle propaggini dei monti che affondavano nell'ultimo scampolo di pianura, come giganti che tastassero un terreno sconosciuto prima di appoggiarvi il piede.
La catena montuosa era imponente, in lontananza i pendii si innalzavano verso l'alto fino a sparire tra le nuvole. La pietra si faceva aspra, al limite della visibilità le vette si perdevano nel cielo. Gaio Marco non temeva il nemico che sapeva essere in attesa in quelle valli. Salassi, Victimuli e le altre tribù erano uomini, fatti di carne e ossa da spezzare e sangue con cui macchiare quella terra. Si trovò a cercare di distinguere particolari e forme sfuggenti che sapeva di non poter vedere, fu preso da una strana inquietudine al pensiero che tra le cime, oltre ai barbari, si nascondesse l'ignoto.

27 A.C. Tra nubi e vette - Armonie

Quel mattino, la Creatura aveva deciso di inquietare il gregge che pascolava in quota. Si sentiva vanesia, si consegnò all'aria e si lasciò portare.
I suoi cicli vitali si alternavano tra uno stato di stasi, durante il quale si rigenerava, e uno di intensa attività, che potevano durare pochi decenni come epoche. Erano ormai sedici stagioni che non si manifestava e qualcosa che ricordasse la sua presenza andava pur fatto. La sua essenza si era persa, pigra e sorniona, tra luce e vento; intanto giocava con le miriadi di forme di vita che popolavano la valle. Era stato appagante fino a quando aveva realizzato che si stava annoiando.
Interruppe controvoglia la connessione con la quasi-sostanza che era presente tutto attorno e che vibrava creando la melodia. L'armonia che scaturiva metteva la Creatura in sintonia con l'ambiente.
Il materiale che conteneva la quasi-sostanza era metallico, molto pesante, del colore caldo dell'alba.
Incorruttibile, malleabile.
Si era disposto in filamenti più o meno grandi costretto dalle enormi pressioni o si era cristallizzato quando aveva trovato le condizioni.
Quella zona ne era ricca.
Un luogo unico trovato per caso.
Molto tempo prima la Creatura vi aveva cessato il suo peregrinare tra le stelle e aveva potuto assistere a tutto il processo.
Con il passare del tempo, intanto, il luogo cambiava: prima era sterile, statico.
Proprio la mancanza di altri stimoli, all'epoca, le aveva permesso il contatto, e quella vibrazione, giunta come un canto, le aveva aperto la strada a un'esistenza consapevole.
Ora, la Creatura non poteva più farne a meno.
Al suo arrivo, aveva seguito quel richiamo e aveva trovato l'enorme cavità nelle viscere della montagna dove questo era più intenso: un ambiente colmo di armonia, adiacente a uno ancora più grande dove passava un fiume sotterraneo. Sottili rivoli d'acqua, in apparenza immobili come ghiaccio, scivolavano muti sulla roccia delle pareti, prima di rivelare il loro movimento con sommessi gorgoglii lontano, laggiù tra le fessure.
Una particolare conformazione della volta rilasciava una serie di gocce perenni che si infrangevano più in basso su un accrescimento di sottili cristalli di quarzo e lamine calcaree frutto dell'azione di una lieve e costante corrente d'aria. L'antro risuonava del tocco delle gocce, il suono puro rimbalzava sulle pareti, entrava nel metallo giallo... a modo suo parlava.
La caverna era raggiungibile attraverso un dedalo di spaccature e angusti cunicoli naturali. Non che la Creatura ne avesse bisogno, avrebbe potuto usare gli interstizi della roccia per accedervi, ma aveva scoperto che fluire sinuosamente come unico insieme attraverso i passaggi più grandi era più sensuale.
Aveva trovato quel luogo accogliente e quel luogo, trovato d'istinto, quasi per caso, aveva plasmato l'insieme delle cariche elettriche e delle molecole fluttuanti che costituivano il suo essere. Una trasformazione che aveva affinato capacità di comprensione, sensibilità e sentimenti sempre più evoluti.
Nella vibrazione che la quasi-sostanza produceva, poteva leggere gli avvenimenti del passato, che nel loro divenire lasciavano una traccia indelebile nel metallo. Come un varco che consentiva l'accesso a ciò che era stato.
Una memoria.
Probabile che esistesse da sempre. Strano che non si fossero mai incontrate prima nel cosmo e fosse successo in quel luogo dopo tanto tempo.
Non c'era stata subito comprensione dopo il contatto. La Creatura aveva dovuto imparare a interagire nel corso di intere ere geologiche e, ancora adesso, scopriva nuovi modi nei quali l'armonia raccontava del creato, dei grandi eventi, delle piccole cose... del suo stesso arrivo.
C'era tutto, occorreva solo saper leggere.
La quasi-sostanza melodiosa che andava e veniva pulsando di solito era passiva, si limitava a registrare gli eventi, ma in presenza dei suoni dell'ambiente circostante poteva crescere e, se provocata e guidata, poteva influenzare piante e animali anche lontano dal materiale metallico che l'ospitava.
Prima dell'arrivo della Creatura non c'era nessuno che ci provasse, ora che aveva imparato era diverso. Era come attivare una presenza distaccata e indifferente.
La Creatura amava farlo di tanto in tanto.
Nei fiori produceva nettare più inebriante per gli insetti. Nei pesci dei torrenti, iridescenze metalliche in modo che fossero più visibili per gli uccelli pescatori. Per gioco aveva modificato la tossina di un fungo trasformandola in una sostanza innocua per la maggior parte degli esseri a sangue caldo che popolavano la valle. Una sera aveva pensato di modificare la viscosità e la rifrazione della resina di certi pini, per aumentare le dimensioni delle secrezioni e, al tramonto, godere ancora di più dei riflessi di luce che amava tanto.
A volte rimetteva le cose come stavano, altre volte se ne dimenticava, preda di qualche novità.
Quando lasciava la caverna armoniosa, interagiva con gli elementi con cui amava ornarsi: luce, acqua, aria. Non poteva agire sul mondo fisico in modo diretto, ma trovava il modo di influenzarlo.
Giocava.
Quando assumeva la consistenza di nebbia dorata con cui poteva copiare qualunque forma, amava indugiare sopra i laghetti e gli stagni per osservarsi.
La Creatura si piaceva moltissimo.
Aveva preso l'abitudine di identificarsi con uno dei due generi propri degli esseri che stavano prendendo possesso del pianeta: quello in apparenza più delicato.
Erano stati gli ultimi ad arrivare: prima aveva fatto la sua comparsa l'acqua sotto forma di vapore, poi liquida. Dopo che era giunta, tutto si era svolto molto in fretta: esseri infinitesimi avevano cominciato a pervadere ogni cosa e a corrompere le rocce, fungendo da nutrimento ad altri più evoluti. Reazioni chimiche, vita di dimensioni sempre maggiori, fotosintesi, creature che avevano imparato a muoversi, a reagire all'ambiente, a adattarsi, a procreare, a uccidere.
Infine, l'uomo.
Gli uomini erano divertenti: tanto ingenui e sprovveduti per quanto riguardava il senso di ciò che li circondava, quanto sorprendenti nella loro curiosità e nel mettere in pratica le piccole scoperte che facevano più per caso che altro.
Se ne trovavano di tutti i tipi e di varie tonalità, non stavano mai fermi ed erano un po' selvatici.
Si deterioravano in poco tempo.
ʻCosì effimeri, peccato'.
Le loro comunità però, stavano diventando sempre più numerose. Avevano imparato a fondere i metalli da poco. Si riunivano in piccoli gruppi e credevano a qualunque cosa. Lei, per svagarsi, ne aveva anche un po' approfittato. Faceva loro degli scherzi, ma li aiutava in molte occasioni. La identificavano come una Creatura della valle.
In fondo era l'unica cosa in cui ci avessero preso.
Lei si prestava alle loro credenze e ai loro riti. Si divertiva e si era anche un po' affezionata.
Si guardò attorno lasciandosi ammaliare dai dolci declivi che caratterizzavano il colle.
Era arrivata.
Aveva veleggiato approfittando del vento che saliva dal fondovalle inebriandosi del suo tocco. Ora si trovava sopra al pascolo.
Gli animali brucavano pacifici compiendo piccoli movimenti svogliati giusto per arrivare al ciuffo d'erba più invitante. Di tanto in tanto alzavano la testa per deglutire meglio e guardarsi attorno. Le femmine gravide stavano in mezzo al gregge, qualche agnellino dava sfoggio della sua esuberanza con piccoli salti. I maschi anziani si erano posizionati sui rilievi del prato.
La Creatura aggiunse una forma d'onda di bassissima frequenza al vento che lambiva il pelo degli animali. L'intera massa di trentasette pecore fremette per muoversi all'unisono in una direzione, poi in un'altra. In quel momento, ventotto di loro subirono una mutazione nei follicoli piliferi del ventre dove, per cinque o sei stagioni, la lana sarebbe cresciuta fine e impalpabile assumendo un pregio particolare.
Poi l'intero gregge, senza una ragione apparente, terrorizzato si disperse per la valle.
Ora, poteva tornare per un po' dove l'armonia era intensa.
I belati si indebolivano tra conche e rocce a mano a mano che gli animali, in una fuga senza meta, si allontanavano.
ʻChe carine... il vello sarà soffice come tela di ragno'.
Chissà come l'avrebbero presa gli uomini?

27 A.C. Aurifondinae, terre dei Victimuli - La trappola

Trascinati dalla corrente, il terriccio e i materiali più leggeri filavano veloci verso le pelli di montone inchiodate al termine della trappola: un grande tronco scavato lungo diverse braccia. La ghiaia, intanto, giocava nelle numerose scanalature destinate a fermare l'oro: sabbia e sassolini si muovevano vivaci rimescolandosi in un continuo scambio di posto finché il granello più pesante prevaleva insinuandosi.
Le scaglie d'oro invece erano immobili.
Sembravano trattenute da chissà quale magia e, a meno di errori o maldestre manovre, una volta depositate, non si sarebbero più mosse. Le placchette occhieggiavano ovunque, nella parte alta della trappola.
Di quel giallo unico che rapiva lo sguardo.
Le loro dimensioni crescevano man mano che si risaliva verso il tratto iniziale dove, quelle grandi come semi di mela, ammiccavano isolate o a gruppi di due o tre. Vividi bagliori gialli che perforavano la superficie increspata richiamando l'attenzione di chiunque si fosse aggirato nei pressi.
Nelle prime scanalature, il nastro di sabbia bruno rossiccio che si andava depositando stava diventando nero, indice che le sabbie pesanti si andavano addensando, le particelle d'oro spiccavano quasi fossero incandescenti. A metà percorso, però, il colore della sabbia non era ancora così scuro. Avrebbero dovuto lavorare almeno altre quindicimila libbre di pietrisco prima di raccogliere. Caalum distolse lo sguardo dalla trappola nella quale l'acqua lottava con i sassolini, mentre gli schizzava stinchi e calzari.
Ci era abituato, ma in quel momento si scostò infastidito.
Guardò le goccioline sospese sui peli biondi, passò una mano su entrambe le gambe, e la scrollò asciugandone poi il palmo nei capelli color bronzo.
Qualche goccia gli bagnò la base del collo procurandogli un brivido.
L'acqua era gelida anche a primavera inoltrata. Quell'anno i tepori si facevano attendere.
A quote più basse, nella pianura al di là della lunga cresta rettilinea, il raccolto già raccontava di un'altra stagione difficile e lì, al mattino, nelle zone ancora in ombra, era normale lottare con le formazioni di ghiaccio. Queste venivano puntualmente sconfitte ogni giorno dai raggi del sole, soprattutto nella parte orientale delle alture dove fervevano i lavori di estrazione.
Una condotta, lunga oltre cinque leghe, portava l'acqua delle Lacrime di Acionna, fino ai campi auriferi che sfruttavano: le Aurifondinae. Le due sorgenti erano poste proprio dove la grande collina diritta si fondeva con le alture.
Nessuno conosceva l'origine di quell'acqua, anche se le leggende raccontavano di un fiume sotterraneo che la dea avrebbe guidato fin lì tra le viscere dei monti.
I vecchi dicevano che l'oro veniva dalle montagne e dalle valli alte, e che la mano di un gigante l'avesse raccolto per poi spargerlo in dono agli uomini, dopo averlo stritolato tra le dita.
Le donne raccontavano ai bimbi che l'oro lo lasciavano le fate buone delle vette: una scia di polvere brillante, che perdevano dai capelli mentre si rincorrevano e giocavano tra boschi e prati.
Altri, invece, raccontavano che le pagliuzze che giacevano nel terreno tutto attorno, in pianura e nei fiumi, erano le gocce di sudore delle fate silvane, che provvedevano al fiorire delle gemme e alla ricchezza delle messi. Al tramonto, al termine delle fatiche, le fate silvane, più frivole di quelle fredde e distaccate delle alte cime, percorrevano le valli ridendo felici della propria opera, scrollandosi di dosso le gocce brillanti. E le gocce, tristi per il distacco dalla magica pelle della fata, si solidificavano in scaglie e polvere d'oro.
Molti le avevano viste, le fate, mentre, al calar del sole, lasciavano una scia di polvere dorata nel cielo. Uomini e donne erano d'accordo che tutte le fate passassero poi la notte nelle caverne dei monti. Era allora che risuonavano i loro canti, simili al frusciare del vento e al mormorio dell'acqua.
A lui non era mai successo di vederne una, ma al cambio delle stagioni, come tutti, provvedeva alle offerte portando frutta e altri doni là dove si diceva vivessero: in alto, nella prima valle laterale, a oltre un giorno di cammino da lì.
Le offerte erano una consuetudine stagionale a cui si adeguava volentieri perché l'evento si risolveva in una grande festa che si teneva in primavera e in autunno, e poi le fate, ogni tanto facevano i dispetti, questo era provato. Meglio averle amiche tutto sommato.
Caalum era un uomo pratico, conosciuto da tutti per il suo ingegno, e in fondo non credeva a nessuna di quelle dicerie. Eppure, non si spiegava il motivo per cui, in pianura e nelle colline, l'oro fosse così tormentato e frammentato, mentre nelle poche vene che si trovavano tra le rocce fosse luccicante e a volte ricordasse le croste di ghiaccio cristallino che si formavano sul bordo dei ruscelli.
Era portato per natura a cercare una ragione per ogni cosa, e spesso la trovava, ma per quanto riguardava l'oro, non c'era ancora riuscito. Non si capacitava che fosse germinato lì, aveva finito per pensare che fosse arrivato, chissà come, insieme alla ghiaia e alle pietre.
Caalum spostò il corpo massiccio con un movimento fluido, quasi armonioso, scavalcando l'imboccatura del grande tronco, dove un tempo la quercia si allargava formando le radici. Il pozzo, così lo chiamavano, serviva a versare l'acqua nella trappola senza turbolenze. Costituito in parte dal tronco stesso era rifinito, ai lati, con pietre sigillate da zolle di erba, muschio e terra, ma ciò non impediva che, tutto attorno, il suolo fosse zuppo e segnato da numerosi rivoli che trafilavano.
Si sporse afferrandosi al moncone di un albero, con il volto a pochi palmi dal flusso gorgogliante, in modo da osservare la parte iniziale del processo, la mano libera a trattenere l'amuleto che portava al collo per evitare che si bagnasse.
In posizione precaria, stette a osservare l'andamento della corrente, mentre con il pollice giocava con il segno impresso sulla superficie del monile, ricordo di sua madre: un guscio di nocciola con una piccola runa marchiata a fuoco, intanto il suo sguardo penetrava la superficie lucida, increspata dell'acqua.
Fece una smorfia di disappunto.
Cacciò il pendente all'interno della tunica, guardò attorno a sé e raccolse un rametto sottile da terra. Con l'estremità smosse un paio di pietre, grandi come una noce, che si erano incastrate. I due sassolini, appena sfiorati, furono di nuovo preda della corrente, e subito ripresero a rotolare saltellando per poi perdersi.
Di tanto in tanto, foglie o frammenti di legno transitavano galleggiando senza recare disturbo. Nuvole di terra intorbidivano l'acqua per passare rapide, al ritmo di chi versava.
Un'alimentazione intermittente, fatta di gesti cadenzati, che, dopo pochi piedi, si trasformava in un flusso uniforme e continuo di ghiaia che subiva il processo di lavaggio per andare poi a scaricarsi nel vallonetto che avevano scelto.
Caalum osservò la conca colma, ormai per un terzo, di materiale che si allargava.
‘Come una slavina di primavera al fondo di un canalone'.
Con un colpo di reni riguadagnò una posizione più stabile e con lo sguardo spazzò il cantiere.
Erano occorsi decenni per costruire e perfezionare il sistema idrico con le sue diramazioni e deviazioni. Ai tempi del padre, quando ancora erano padroni dell'oro che estraevano, la sua gente aveva anche realizzato due bacini artificiali, che ancora servivano a regolare i flussi e la portata dell'acqua e a produrre la forza sufficiente per le periodiche operazioni di sbancamento.
La diramazione che alimentava la sua trappola partiva poco a monte, insieme ad altre quattro, che a loro volta si separavano poco oltre. Un punto critico, dove l'acqua del canale principale scorreva veloce prima di arrivare a una serie di curve e giunzioni che necessitavano di riparazioni continue. La zona, adiacente a uno dei bacini, era sempre colma di materiali che i carpentieri preparavano a tal scopo.
Caalum e la sua squadra avevano impiegato quattordici giorni per scegliere, scavare il tronco e sistemare la nuova trappola in posizione con la giusta inclinazione.
Tre in più della squadra di Garric.
Altrettanti di ritardo nello sfruttamento della zona che gli era stata assegnata.
Avrebbe recuperato: l'albero che aveva scelto, alto quasi venti braccia, ridotte a nove dopo averne eliminato la cima, era stato preparato con cura.
Il lavoro più lungo era stato quello di praticare sul fondo, reso piatto, le oltre duecento scanalature e incavi, destinati a intrappolare l'oro. Li aveva rifiniti di propria mano uno per uno, ricavando un leggero sottosquadro nel lato che riceveva l'acqua. Era una sua scoperta: la trappola rendeva di più.
L'ultima parte del canale era rivestito con pelle di montone, il cui vello era destinato a imbrigliare le particelle più leggere o di forma tale da essere trascinate con maggior facilità. Usavano la pelle del ventre, quella che aveva un pelo quasi impalpabile. Ogni tanto succedeva che gli animali, che pascolavano nelle valli alte, producessero quel pelo. La condizione durava sette o otto stagioni, i pastori segnavano l'animale praticandogli una tacca sull'orecchio ogni anno. Prima che il ciclo terminasse, il montone, ormai vecchio, poteva venire macellato e la preziosa pelle utilizzata nell'ultimo tratto delle trappole. Aspettavano che luccicasse del colore dell'alba, lo stesso colore dei raggi del sole del mattino quando si facevano caldi e sconfiggevano la nebbia. Se quel colore faceva la sua comparsa, significava che era giunto il momento di interrompere il lavoro e raccogliere l'oro che si era fermato.
Il sudore delle fate.
Il flusso veniva interrotto, le scanalature svuotate con cura, le pelli stese ad asciugare in attesa di essere battute e infine, dopo numerosi riutilizzi, bruciate per recuperare ogni particella del prezioso metallo.
Impiegavano un paio di giornate per quella fase delicata.
Sì, la polvere, ciò che quasi non si vedeva, era la chiave.
Sapeva di avere una trappola migliore di quella di Garric. Avrebbe provveduto al solito quantitativo per l'offerta e mantenuto la quota per i Romani a dispetto dei giorni di ritardo, con un po' di fortuna e di attenzione avrebbe fatto anche di più.
I procuratori sarebbero stati soddisfatti e li avrebbero lasciati in pace. Meglio per lui e i suoi, soprattutto in quei giorni che si vociferava che un contingente di Roma fosse vicino.
Non era una buona cosa.
Muir, il vecchio druido, e i capi villaggio ne avevano discusso per tutto l'inverno. A Roma era successo qualcosa anni prima: ora c'era un nuovo ordine, i vecchi equilibri e gli accordi più o meno taciti non valevano più. Il nuovo imperatore voleva le valli e i Salassi non erano disposti a concederle.
La valle grande consentiva l'accesso ai territori della Gallia, era una via obbligata e contesa, soggetta ai diritti di passaggio.
Si erano già scontrati più volte: dalla grande vittoria di un passato ormai lontano ad altri scontri sanguinosi e meno fortunati per loro. Ma alla fine erano sempre riusciti a riprendersi il territorio.
Caalum pensò che l'arrivo dei soldati potesse solo significare una nuova guerra.
ʽChe solo non arrivi fino a quì'.
Poi guardò verso ovest dove il sole stava scendendo. Sapeva che, dal lato della pianura, la grande collina appariva come un enorme muro. Si diceva che fosse stata costruita dai giganti sotto la guida degli dèi e delle fate. Sembrava un confine atto a contenere ciò che succedeva nella grande valle. Una protezione. La sua gente almeno, la considerava tale. I campi di estrazione vi stavano sopra e i loro villaggi poco oltre, tra declivi e collinette.
Nulla di insormontabile.
Osservando il terreno circostante che conosceva così bene gli venne da pensare, per la prima volta, che in realtà, come protezione, lasciava alquanto a desiderare.
Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non era certo di essere un buon guerriero, gli piaceva costruire utensili, capire come funzionassero le cose. Ne aveva appena costruita una strana per Muir, che voleva servirsene contro il nemico.
Un gracchiare attirò la sua attenzione: tre corvi attraversarono un cielo che stava diventando grigio. Inseguivano una colomba, forse per rubarle del cibo. Tutti e quattro si tuffarono e sparirono oltre il crinale.
Sembrarono inghiottiti dalla terra.
Non gli piacque, Caalum ebbe un brivido: era un cattivo presagio.
Si chiese dove si trovassero in quel momento i Romani.

27 A.C. Basso corso della Dura Major
Lame e braci

Nella pianura che andava restringendosi a poco a poco, una gelida brezza aveva spazzato gli ultimi banchi di nebbia lasciando spazio a una giornata serena.
La visibilità migliorava, per l'ennesima volta Gaio Marco guardò avanti, oltre la testa della colonna, cercando di scorgere tracce dei rilievi dove sorgeva Eporedia. Contava di arrivarci con l'avanguardia, prima che le foschie facessero di nuovo la loro comparsa verso sera.
Avevano risalito una zona accidentata e ora si ritrovavano un'altra volta in piano.
Mantenevano la Dura Major sulla destra a poca distanza, dopo averla passata per evitare una zona di terreno infido e paludoso. Al di là del fiume, a neanche due miglia, un rilievo si era interposto tra loro e la grande collina diritta il cui profilo, tuttavia, si poteva ancora vedere per intero. Sul loro fianco sinistro, più lontane, altre alture e poi, a occidente, la corona di monti che andava perdendosi alle loro spalle verso mezzogiorno.
Proprio dai monti poteva giungere il pericolo, oltre che dalla valle sempre più vicina che avevano di fronte. Fin dal mattino, aveva ordinato di dispiegare altre due pattuglie di esploratori per affiancare le altre che già operavano a ovest.
La cautela che adottata aveva preteso il suo obolo: la marcia si era rivelata lenta. Sarebbero arrivati a Eporedia dopo l'imbrunire...
Massimo Nepote André
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