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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: MGL Valentini
Titolo: Il condottiero
Genere Biografia
Lettori 3369 32 54
Il condottiero
Ferrara, marzo 1507
Lucrezia distolse lo sguardo dalle sue dame di compagnia e lo volse verso la bifora, osservando il volo aggraziato di alcuni piccioni bianchi.
Il 18 aprile avrebbe compiuto ventisette anni, ma il senso di angoscia che l'opprimeva da qualche tempo l'avvertiva che non avrebbe trascorso un buon compleanno.
Il suo pensiero correva sovente agli anni vissuti a Roma, dove spensieratezza, odio e ambizione si erano alternati durante la sua adolescenza, facendola maturare precocemente. Ripensava a suo fratello Juan, a Pedro, ad Alfonso e quei ricordi strazianti le laceravano il cuore, sebbene la dissimulazione la salvasse di continuo da occhi indiscreti che la tenevano sempre sotto controllo. Da quando aveva lasciato Roma, cinque anni prima, per entrare nella fastosa corte ferrarese degli Estensi, la sua vita era mutata radicalmente e i ricordi di un passato inquieto erano andati affievolendo con il tempo.
Eppure ora, dopo aver accettato con spirito pio tutte le disgrazie accadute alla sua famiglia, di nuovo l'angoscia l'avvertiva che qualcosa di grave stava per capitare. In quei momenti avrebbe desiderato avere accanto a sé sua madre; ma Vannozza era a Roma, insieme alle sue memorie che custodiva gelosamente nel cuore.
Sospirò e chiuse gli splendidi occhi grigi, a mandorla, che tutte le donne le invidiavano e che il Bembo non si stancava di elogiare e magnificare. Si sentiva spossata, nel fisico e nello spirito; per troppo tempo aveva sostenuto estenuanti e sterili battaglie con suo marito, affinché intercedesse presso il Cattolico in favore di suo fratello. Tuttavia sapere che adesso Cesare era in salvo alla corte di Pamplona, la faceva star meglio. Ogni giorno pregava per lui, sperando di poterlo riabbracciare nel giro di poco tempo, per ridere e scherzare ancora una volta come avevano fatto da piccoli. La ragione le suggeriva di odiarlo per tutto il male che le aveva procurato; il suo cuore continuava a ripeterle che amava quel fratello più della sua stessa vita.
Nel cortile del castello echeggiarono gli zoccoli di alcuni cavalli e Lucrezia riaprì gli occhi, tornando a guardare le sue dame di compagnia. Queste smisero di sussurrare tra loro e sorrisero alla duchessa, nascondendo i pensieri. Voci concitate salivano dal cortile e per un attimo la vita di corte sembrò fermarsi, come sospesa a mezz'aria.
Trascorsero solo pochi minuti e il frate entrò nel salone facendosi annunciare da un semplice colpo alla porta. Lucrezia si alzò dalla poltrona impallidendo visibilmente e con un lieve cenno della mano ordinò alle dame di lasciarli soli. Quindi, con un tenue sorriso posò gli occhi sull'uomo e mentre il cuore iniziava a batterle veloce chiese con tono dolce, pacato:
- Venite, fra' Raffaele e ditemi: ci sono novità da Pamplona? -
Il frate l'osservò con cautela, soffermandosi sulle sue mani bianche intrecciate lungo la gonna di broccato e con serenità annunciò:
- Madonna, vostro fratello è morto. -
Roma.
La notizia sembrò scivolarle addosso; solo un lieve tremito delle labbra tradì il dolore che le attanagliò il cuore, mandandolo in frantumi.
Roma.
Già la morte del padre l'aveva stroncata; quest'altra morte improvvisa e inattesa l'avrebbe annientata completamente.
In quel preciso momento avrebbe desiderato urlare, lasciarsi andare al dolore per morire con Cesare; eppure sapeva fin troppo bene che non avrebbe potuto permetterselo. Ora i ferraresi avrebbero spiato ogni sua mossa, frainteso ogni sua frase, pronti ad alzare l'indice accusatore che avrebbe risollevato i fantasmi del passato che lei aveva così faticosamente sopito.
Quando fu certa che la sua voce non avrebbe tremato, mormorò:
- Quanto più cerco di confortarmi con Dio, tanto più Egli mi manda a visitare. -
Il frate rimase in silenzio e lei continuò con serenità:
- Ringrazio Iddio; sono contenta di ciò che Gli piace. -
Pochi minuti dopo fu annunciato il servitore del Valentino, Juanito Grasica, che raccontò con voce straziata dal dolore le circostanze che avevano condotto il duca tra le braccia della morte, rispondendo con dovizia di particolari a ogni domanda di Lucrezia.
Quando la conversazione terminò, la duchessa di Ferrara riprese gli affari di stato con serenità e compostezza, suscitando l'ammirazione dei cortigiani presenti, e per tutto il resto del giorno non batté ciglio, bandendo dalla mente, almeno in apparenza, quella morte crudele, violenta, degna di un grande condottiero.
Ma la notte, chiusa nella sua camera, sola, distesa sul letto a baldacchino, si lasciò andare a quel pianto straziante che aveva così a lungo trattenuto, invocando il nome del fratello in lingua valenziana, con tono talmente appassionato da sembrare il grido di una donna innamorata. Sentì il cuore andarle in mille pezzi, come se in quel momento stesse morendo per volare tra le braccia di Cesare, e tra i singhiozzi ripensò per l'ennesima volta a Pedro, a Juan, ad Alfonso e alle loro vite spezzate. Ritornò con la mente a tutte le cose che avrebbe potuto fare, a tutte le frasi che avrebbe potuto pronunciare per ribellarsi, per rimediare agli errori.
Ora che il destino le regalava l'agognata libertà, capì che quello sguardo magnetico e intenso, che si era spento in un'aurora di marzo, avrebbe continuato a viverle accanto come un'ombra scura del passato che l'avrebbe accompagnata per l'eternità.

Libro Primo
Il cardinale di Roma
Capitolo 1

Roma, 14 settembre 1484
Due giorni prima, il 12 settembre, il cardinale Rodrigo Borgia, vice cancelliere di Santa Romana Chiesa, aveva ottenuto dal pontefice alcune investiture per il genetliaco del suo secondogenito: tesoriere della cattedrale di Cartagèna, arcidiacono della cattedrale di Tarragona, canonico della cattedrale di Lerida e prebenda sulla cattedrale di Majorca.
Per i suoi figli il Borgia pulsava di amore viscerale e non si stancava mai di ricoprirli di regali e di attenzioni. Anche ora, al solo pensarci, i suoi occhi splendevano come pietre preziose e il suo viso giocondo si illuminava tutto, sognando per loro un avvenire dorato e glorioso.
Gerolama e Isabella erano già degnamente accasate e il primogenito maschio, Pedro Luis, era già duca di Gandìa. Per lui il cinquantatreenne Rodrigo aveva programmato tutto: gli aveva trovato la futura moglie niente di meno che in una cugina del re Cattolico, donna Maria Enriquez, e quando l'avrebbe ritenuto opportuno lo avrebbe insignito delle più alte cariche militari: Capitano Generale e Gonfaloniere della Santa Chiesa. Dietro adeguato compenso, il papa non gli avrebbe certo negato questo favore.
Ma i figli che adorava maggiormente erano quelli che Vannozza Cattanei gli aveva dato negli ultimi anni.
Sorrise beato, lasciando intravedere una bellezza fulgida e vibrante di energia e si adagiò contro lo schienale della poltrona.
Cesare, nato il 14 settembre 1475, era il maggiore. A lui spettava per diritto la carriera ecclesiastica e Rodrigo, che nutriva buone speranze, riusciva già a vederlo papa: il terzo papa Borgia. Suo zio Alonzo de Borja era stato il primo, col nome di Callisto III, e lui, se Dio avesse voluto, sarebbe stato il secondo.
Juan, nato nell'estate del 1476, avrebbe seguito la carriera militare come il fratellastro maggiore Pedro Luis; Lucrezia, nata nel 1480, avrebbe contratto un matrimonio favoloso, degno di una principessa, così come Jofre, nato l'anno successivo.
Rodrigo si compiacque con se stesso: aveva pianificato tutto, senza lasciare niente al caso e già pregustava una vecchiaia di tutto riposo, magari con la tiara in testa e circondato dall'amore dei figli.
Si alzò e si affacciò alla finestra, ammirando gli splendidi giardini vaticani che i raggi del sole si divertivano a rendere quasi surreali. Sorrise pieno di fiducia e ottimismo e si fece il segno della croce, ringraziando mentalmente la beata Vergine.

Seduto sul letto a baldacchino, Cesare pizzicava le corde del liuto, ripensando alle investiture che aveva ricevuto per regalo. Già da due anni era protonotario apostolico, arcidiacono di Jàtiva, rettore di Gandìa e canonico e prebendato sulla cattedrale di Valencia; e ora altre cattedrali.
La cosa, in sé per sé, lo lasciò del tutto indifferente, come se non si fosse aspettato niente di meglio, se non fosse per gli elevati introiti che quelle nuove cattedrali gli avrebbero portato. Del resto, a cos'altro potevano servire? Lui non si sentiva portato per la carriera ecclesiastica, come la maggior parte dei preti di allora: era semplicemente costretto a diventarlo, essendo secondogenito di una facoltosa famiglia. Non che la cosa lo disturbasse troppo: avrebbe continuato a fare vita agiata, circondato dal lusso, senza per altro rinunciare alle donne e ai figli. Inoltre, essere prete significava avere il potere nelle mani e tutti, compresi re e regine, avrebbero dovuto inchinarsi al suo passaggio.
Piegò le labbra in un sorriso dolce e provò a immaginarsi cardinale come suo padre. La cosa avrebbe anche potuto essere divertente, se non avesse dovuto sottostare alla solennità delle cerimonie e alla gravità dei gesti. Lui, al contrario, amava la vitalità, l'esercizio fisico, e l'idea di dover impallidire e impinguare all'ombra di oscure e tetre basiliche non gli piaceva granché.
Ma quello era il volere di suo padre e non si sarebbe ribellato. Del resto, era giusto così.
Udì bussare alla porta e con un sospiro annunciò:
- È aperto. -
Juan fece capolino e Cesare l'invitò a entrare, posando il liuto sul letto.
- Buon genetliaco, eccellentissimo arcidiacono, canonico, protonotario, ecc. ecc. - esordì il ragazzo con vivacità, accennando un elegante salamelecco.
- Grazie. - rise Cesare alzandosi.
- Ti porto un dono. -
Juan fece comparire nelle mani un astuccio di velluto bianco e l'offrì al fratello con un mezzo inchino. Cesare sorrise e lo prese, aprendolo con delicatezza. All'interno c'era una grossa spilla sulla quale spiccavano rubini, zaffiri, smeraldi grossi come nocciole, circondati da perle bianche come la neve.
- Grazie, Juan. - mormorò.
- Spero ti piaccia. So che non ci incontriamo con i gusti. -
- È molto bella. - rispose con semplicità.
Richiuse l'astuccio e osservò il fratello. Di sicuro lui non avrebbe mai optato per una spilla così appariscente e Juan aveva ragione: i loro gusti non si incontravano. Suo fratello amava circondarsi di tutto il lusso possibile, sfociando nella volgarità; lui amava lo sfarzo discreto e in avvenire, quando avrebbe rasentato il ridicolo nel mostrare la sua grandezza, l'avrebbe fatto solo ed esclusivamente per ragioni scenografiche.
- La nostra amata sorella è già venuta a farti gli auguri? - s'informò Juan distogliendolo dalle sue riflessioni.
Cesare scosse la testa e i lunghi capelli mogano, dai riflessi biondicci, gli danzarono come piccoli serpentelli intorno al volto dalle guance ancora paffute. Il pensiero di Lucrezia gli fece brillare gli occhi grigi dal taglio a mandorla e dalle folte ciglia, così simili a quelli di lei, così entrambi innocenti e spalancati alla vita.
Juan si avvicinò al letto e prese in mano il liuto, provando a suonarlo. La musica, purtroppo, non era nelle sue grazie e alle prime note stonate Cesare fece una smorfia.
- Suonalo tu: sei sempre stato più bravo di me. - gli disse Juan porgendo lo strumento.
Il ragazzo lo prese, tornò sul letto e iniziò a pizzicare le corde, creando una melodia dolce e rilassante. Il fratello si sdraiò indolente, le mani dietro la nuca, gli occhi fissi sul baldacchino e dopo un po' disse:
- Ci pensi? Noi, che siamo cresciuti insieme, che abbiamo condiviso i giochi, tra qualche anno saremo costretti a dividerci: io militare, tu vescovo o cardinale. -
Cesare non rispose; si limitò a guardarlo a lungo, con un'espressione che non lasciava presagire nulla di buono e l'altro riprese:
- Cosa si prova a essere prete? -
- Né più né meno di quello che provi tu. -
- Ma a te piace? Voglio dire: non ti sposerai mai, starai sempre dentro alle chiese e... -
- Non sta a me decidere cosa mi piace e cosa no. - tagliò corto con tono gelido. - È stato il cardinale a scegliere quello che era più giusto per me. Oppure, - continuò con un pizzico di malignità, - vorresti insinuare che lui non è in grado di stabilire cosa sia meglio per i suoi figli? -
- No, io... Io non intendevo dire... -
- E allora sta' zitto e rallegrati che non mi avrai mai come avversario. -
Juan si portò a sedere e fissò il profilo del fratello, chiedendosi dove avesse sbagliato. Cesare era sempre allegro e vivace, pronto a scherzare e ridere; eppure alle volte, sebbene raramente, aveva mostrato un lato diverso da quello cui tutti erano abituati. In alcune occasioni era apparso sfuggente, addirittura algido; ciò nondimeno la sensazione era sempre durata un attimo. Solo con Lucrezia si rivelava sereno e pieno di premure, pronto a coccolarla e vezzeggiarla in ogni momento.
- A volte metti paura. - sussurrò Juan cercando di celare il timore.
Cesare smise di suonare e si girò verso di lui, con un sorriso innocente dipinto sulle labbra. E Juan sbatté le palpebre, non riuscendo a capire la complessa personalità che aveva davanti.

Roma, settembre 1488
Le voci cristalline dei suoi figli gli giunsero attraverso la finestra aperta e con aria affranta Rodrigo si affacciò e guardò nei giardini vaticani.
Il suo cuore piangeva ancora la morte prematura del venticinquenne Pedro Luis, colpito da malattia al suo rientro in Italia. Tempo prima era partito per la Spagna, per andare a conoscere la sua futura moglie e il suo ducato, nonché la cittadina di Jàtiva che aveva visto i natali di Rodrigo e di tutti i Borja. Il 3 settembre, a Civitavecchia, una malattia virulenta l'aveva stroncato nel fiore degli anni, lasciando vacanti il ducato di Gandìa e la futura nomina a Capitano Generale.
In un attimo Rodrigo aveva visto crollare tutti i suoi meticolosi piani. Aveva pianto come un bambino per quel figlio sfortunato, anche se si era dovuto ricomporre subito, lasciandosi vincere dall'urgenza che imponeva la situazione.
Aveva dovuto riconsiderare tutti i suoi progetti, i suoi calcoli minuziosi e la scelta era infine caduta sul dodicenne Juan.
Ora, mentre lo guardava ridere e giocare a nascondino con i fratelli, capì di aver preso la decisione giusta. Juan, il suo prediletto, avrebbe ereditato tutto da Pedro Luis, intraprendendo la splendida carriera militare che lui aveva con sapienza tracciato. Sarebbe diventato un bellissimo e forte condottiero, degno di mirabili imprese, magari il liberatore di Gerusalemme.
Abbozzò un pallido sorriso all'idea, vedendo già il nome di Juan accanto a quello del grande Giulio Cesare dal quale la sua famiglia si vantava di discendere. Noi Borgia, pensò con orgoglio, lasceremo un segno nella storia del mondo.
I suoi occhi dolci si posarono sui biondi capelli di Lucrezia e il suo cuore si sciolse letteralmente. Più cresceva, più somigliava a Vannozza e quel semplice pensiero gli fece aggrottare le sopracciglia: era giunta l'ora di guardarsi intorno per sceglierle un degno marito, anche se la sola idea di separarsi da quell'angelo lo faceva star male. La sua bellezza sarebbe stata degna di un re, tuttavia la sua posizione di figlia illegittima lo costringeva ad abbassare le pretese.
Vide che Cesare le si avvicinava e le mormorava qualcosa all'orecchio per farla ridere e si indispettì alla vista del figlio in abiti mondani. Possibile che non vestisse mai per quello che era, ossia un uomo di Chiesa? D'accordo; quei suoi capricci li si potevano tollerare fino a qualche anno prima, ma ora stava crescendo, vantava tredici anni e doveva rispettare la posizione sociale che occupava.
Rimase assorto, ripensando a quando, pochi giorni dopo la morte di Pedro Luis, aveva annunciato che il suo erede sarebbe stato Juan. Cesare era rimasto a fissarlo incredulo, come se si fosse aspettato di essere lui il prescelto essendo divenuto il primogenito; non aveva aperto bocca, eppure da allora il suo atteggiamento era mutato. Non capiva come, ma quel benedetto figliolo era così insondabile da risultare inquietante.
Sì, aveva preso la giusta decisione: farlo partire per Perugia, dove avrebbe frequentato l'università. In quel modo avrebbe allontanato la sua funesta influenza su Lucrezia. E su di lui.
Al solo pensiero si sentì meglio e dopo un gesto di saluto ai figli ritornò al tavolo da lavoro.

- Guardate: il cardinale ci sta spiando. - fece notare Juan.
Tutti e quattro volsero lo sguardo verso la finestra e Lucrezia e Jofre fecero un cenno di saluto con la mano, ricevendo in cambio il sorriso affabile del genitore.
- Io direi che ci sta studiando. - corresse Cesare con superficialità.
- E perché dovrebbe? È nostro padre, ci conosce bene. - lo difese Lucrezia con candore.
- Talmente bene, - concesse quasi in un sussurro, - da non esitare ad allontanare chi teme. -
- Se ti allontana è solo perché non sei indispensabile. - ribatté Juan con eccessiva leggerezza.
Il fratello illividì di furore a stento represso e puntò gli occhi sul volto sorridente dell'altro. Questi parve non accorgersi dell'enormità che aveva proferito e Cesare, alla fine, acconsentì dicendo:
- È vero. Forse non sono indispensabile ed è per questo che sono contento di partire: io lontano, il cardinale si renderà conto di quanto ha bisogno di me. È il modo migliore per risvegliare la sua superficiale attenzione. -
Juan non si rese conto della profonda velenosità di quelle parole, pronunciate con disinvoltura e velate dalla dolcezza e continuò a godersi la splendida giornata settembrina che si consumava lenta all'orizzonte.
Lucrezia si avvicinò a Cesare e lo toccò lieve sulla spalla, rivolgendogli un sorriso.
- Dobbiamo parlare proprio della tua prossima partenza? -
Il ragazzo notò una punta di amarezza nella sua voce e stava per ribattere, quando Jofre s'intromise chiedendo:
- Te ne andrai ad anno nuovo? -
- Sì. -
- Mi mancherai. - ammise querulo.
Cesare sorrise a quel ragazzino biondo dagli occhi chiari, ben sapendo che Jofre lo idolatrava e con un sorriso gli scompigliò i ricci, rispondendo dolcemente:
- Non starò via molto, solo il necessario. -
- Quanto? -
- Poco. Nel frattempo, ti affido la cura della nostra amata sorella: penserai tu a difenderla e proteggerla in vece mia. -
Jofre si voltò a guardare Lucrezia e acconsentì suo malgrado con una smorfia, mentre questa gemeva:
- Ti prego, Cesare: non parliamo della tua partenza! -
Il ragazzo allora prese il liuto e lo porse a Juan, ordinando:
- Suona un po', voglio ballare con nostra sorella. -
Juan prese malvolentieri lo strumento e sedendosi ai piedi di un pesco iniziò a suonare un motivo molto in voga.
Cesare s'inchinò cerimonioso e con un sorriso solare chiese:
- Principessa, volete concedermi l'onore di questa danza? -
Lucrezia tornò a sorridere, illuminandosi in volto e rispose:
- Volentieri, mio bel cavaliere. - e gli porse la mano.
Iniziarono a muoversi al ritmo della musica, con gesti misurati, superando loro stessi in grazia e bellezza. Amavano ballare e lo facevano divinamente, formando una coppia così invidiata che si erano ripromessi di non danzare mai se non fossero stati insieme.
- Allora? - s'informò Cesare tra un volteggio e l'altro. - A te non mancherò? -
- Ne dubiti? Ho il cuore che sta cadendo a pezzi al solo pensiero. -
- Non starò via per sempre. E quando tornerò ti porterò talmente tanti doni che dimenticherai il periodo passato separati. -
- Nel frattempo mi lasci sola. -
- Ci saranno Juan e Jofre con te. -
Lucrezia fece una smorfia e volteggiò tra le sue braccia.
- Juan... È così noioso! Non fa altro che parlare di abiti, di future imprese militari e di donne. E Jofre è un bambino. Molto caro e dolce, ma pur sempre un bambino che adora solo te. -
- Deve essere un vizio di famiglia. - rise lui.
- Non prenderti gioco dei miei sentimenti. - ribatté imbronciata.
Cesare sorrise serafico, ripetendo:
- Sentimenti? Mio dolce tesoro, tu devi essere superiore a simili sciocchezze di poco conto. Non ti si addice piegarti a queste stoltezze da popolana. Ricorda: tu sei e resterai una Borgia. -
- Ma... -
Cesare piegò le labbra in un sorriso disarmante e il sole splendette sul suo volto da efebo.

Pisa, settembre 1491
- Non sembrate particolarmente entusiasta del vostro nuovo titolo. - notò Giovanni de' Medici rigirando una mela tra le mani.
- Cosa volete che faccia, Eminenza? Questo titolo era necessario per poter arrivare a cardinale, niente di più. -
- Indubbiamente. -
Il 12 settembre Rodrigo Borgia era riuscito a investire Cesare del vescovado di Pamplona, aggiungendo altre rendite alle sue già pingui entrate, le quali avevano lasciato il neovescovo del tutto indifferente.
- Se non altro, questa nomina accentuerà il vostro lusso. - considerò Giovanni volgendo lo sguardo intorno.
- Voi dite? -
- Osservate il vostro palazzo: il mio non regge il confronto; possedete un gusto notevole, squisito. - commentò con un cenno lezioso della mano prima di mordere la mela.
Cesare scrutò con attenzione il cardinale sedicenne che gli sedeva di fronte, chiedendosi fino a che punto i Medici lo considerassero un loro amico. Se da Perugia si era spostato a Pisa per terminare gli studi era stato per volere paterno, affinché entrasse nelle grazie della famiglia di Lorenzo il Magnifico. Nel suo intimo avrebbe preferito restare nella città dei Baglioni, incantato dalla vita campestre e spensierata che si conduceva a Perugia. Ne era rimasto affascinato e nonostante i Baglioni fossero una famiglia crudele e dilaniata da lotte intestine, Giampaolo si era rivelato un compagno allegro e pieno di spirito. Quei due anni della sua vita erano stati i più belli e spensierati, e si era dedicato con passione agli studi e ai primi amori. Era stato lì che aveva trascorso molti pomeriggi nel convento di S. Domenico per intrattenersi con Sebastiano Angeli, discorrendo di sacre scritture e di diritto canonico. Ed era stato lì che aveva conosciuto i due uomini che l'avrebbero seguito da vicino per il resto della vita: don Michele Corella, comunemente chiamato Michelotto, suo coetaneo, e don Ramiro de Lorqua, già trentenne. Uomini di benestanti famiglie spagnole, colti, intelligenti, eppure rozzi nel comportamento, duri da piegare e che a lui erano piaciuti subito.
I Baglioni non avevano avuto niente da ridire sul tipo di gente che amava frequentare; i Medici sì. Dicevano che simili delinquenti non rendevano onore all'uomo "più affascinante del secolo" e Cesare dava loro ragione. Apparentemente.
Come i Baglioni, anche i Medici erano rimasti abbagliati dalla sua avvenenza, dai suoi modi cavallereschi, dall'opulenza di cui amava circondarsi e se avevano biasimato le sue amicizie era perché, a loro dire, offuscavano la sua luce.
Ma Cesare ne sorrideva. A sedici anni aveva compreso bene che lui, in mezzo a gente rozza, sarebbe apparso in tutto il suo fulgore, così da attirare su di sé tutti gli sguardi.
- Comunque, - continuò Giovanni con un sorriso, - visto che presto giungerete alla soglia cardinalizia, sarà interessante vedere chi tra noi due agguanterà la tiara. Sarà una lotta appassionante. -
Cesare fece un gesto vago con la mano guantata e dopo aver preso un frutto dal cesto posato sul tavolo, rispose:
- Per ora mi accontento di questa dignità episcopale. Però... -
Si chinò lievemente in avanti, continuando in un sussurro:
- Vostra Eminenza desidera sul serio sfidarmi? Attenzione. Se accetto la sfida esigo che nessuno, dico nessuno, si ritiri. Accada quel che accada. -
Giovanni de' Medici avvertì un brivido improvviso lungo la schiena e distolse lo sguardo da quegli occhi che penetravano l'anima e i pensieri più reconditi.
Cesare scoppiò a ridere e dopo aver addentato la mela, esclamò:
- Non temete, ve ne prego! Adoro lo scherzo e il gioco mi esalta. -
- Soprattutto se è periglioso. -
Cesare lo fissò attentamente, con quei suoi magnifici occhi grigi e annuì con gravità, rigirando il frutto tra le lunghe dita sottili, mormorando:
- È più eccitante. -
Il cardinale accarezzò la lunga veste purpurea che indossava, a differenza del suo interlocutore che sfoggiava abiti mondani, quindi prese il cappello dal tavolo e si alzò.
- Vi lascio, amico mio. Purtroppo gli studi attendono e non ho intenzione di laurearmi troppo in là negli anni. -
- Anche questa potrebbe risolversi in una sfida avvincente: per certo giungerò primo al traguardo. -
Giovanni sorrise e porse la mano con l'anello da baciare.
- Vedremo. - rispose.
Cesare s'inchinò e lo guardò andar via senza sapere che il cardinale suo amico sarebbe diventato papa con il nome di Leone X.

Siena, 11 agosto 1492
Cesare accarezzò il muso del cavallo e gli sussurrò parole dolci, sotto l'occhio del fantino e di Francesco dello Scacco, suo palafreniere. Il 16 agosto si sarebbe corso il palio e lui aveva accettato di far correre uno dei suoi migliori cavalli, scommettendo con Giovanni de' Medici sulla vittoria. Desiderava far colpo in ogni maniera sui signori di Firenze e da Pisa si era spostato a Siena per seguire da vicino gli allenamenti del cavallo e per studiare le mosse degli avversari.
Il corriere entrò galoppando come un forsennato nella città, fermandosi nella piazza principale dove la gente, smesso di lavorare, accorse incuriosita.
Cesare si allontanò dalle scuderie con Francesco e si fermò sotto un porticato, il fiato sospeso, ben sapendo che il 25 luglio era morto Innocenzo VIII e che, a giudicare dal volto trafelato, il corriere portava il nome del nuovo pontefice. Michelotto lo raggiunse, in groppa al suo destriero e Cesare lo degnò appena di uno sguardo.
- Alessandro VI! È stato eletto Alessandro VI, il cardinale Rodrigo Borgia! -
A quella notizia sgranò gli occhi, le labbra gli si piegarono in un sorriso trionfante e scambiò un'occhiata con Michelotto. Era fatta: suo padre era il nuovo pontefice. Un brivido di eccitazione lo percorse e il suo volto, baciato dai raggi del sole, si illuminò maggiormente, rendendolo più incantevole e affascinante di quanto già non fosse.
In quell'istante le campane di tutte le chiese iniziarono a suonare a distesa e Cesare, avvolgendosi nel mantello, rientrò nelle scuderie.
- Devo partire. - annunciò sbrigativo, rivolto al fantino. - Un solo consiglio per la corsa: all'ultimo giro buttati giù dal cavallo. -
L'uomo lo fissò inebetito e provò a ribattere:
- Ma monsignore, se si accorgono che mi butto di mia spontanea volontà non... -
- Tu fallo. - intimò con un sorriso al quale non si poteva negare nulla. - Al resto penserò io. Buona fortuna. -
L'uomo rimase in silenzio, mentre lo guardava uscire dalle scuderie e avvicinarsi a Michelotto. Questi diede ordine a Francesco di sellare il cavallo di Cesare e un attimo dopo il Pamplona, come comunemente veniva chiamato, fu in groppa al suo destriero, libero di tornare a Pisa per fare le valigie e precipitarsi a Roma.
A Spoleto, però, un ordine paterno lo bloccò consigliandogli di attendere e di dedicarsi ai libri, alla caccia, all'equitazione e agli amori; tutto, fuorché Roma.
Allibito e furioso per un simile trattamento ubbidì a denti stretti e ne approfittò per scrivere ai governatori di Siena. Questi, indispettiti per l'evidente sotterfugio perpetrato dal suo fantino, avevano negato la vittoria, indirizzandogli una lettera nella quale avevano elencato i motivi che li avevano spinti a tale decisione. Al che Cesare rispose, facendo ampollosamente uso del noi maiestatico, che non vedeva impedimenti alla consegna del premio dovuto e che si sarebbe ricordato di tale cortesia da parte di Siena. Come si sarebbe ricordato altrettanto bene dell'eventuale scortesia. E quelle parole, proferite con insinuante dolcezza dal nuovo principe della Chiesa, ebbero il potere di far chinare la testa ai governatori e costringerli a consegnare il premio. Cesare ne rise di gusto, assaporando l'improvviso mutamento avvenuto nella sua vita e comprese subito che l'importante non era partecipare, bensì vincere, e che per raggiungere tale fine tutti i mezzi erano leciti.
A Roma, intanto, Alessandro VI non perdeva tempo e il 31 agosto lo nominava vescovo di Valencia: da quel momento in poi avrebbe smesso di essere il "Pamplona" per diventare il "Valentino", nome che l'avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni.
Come al solito la nomina lo lasciò indifferente e memore dei consigli paterni, si dedicò anima e corpo alla caccia e agli amori, allo studio e all'esercizio fisico.
Ma intanto pensava a Roma e ogni giorno sperava che il padre lo mandasse a chiamare: l'inattività lo logorava e lo rendeva impaziente.


Spoleto, dicembre 1492
La rocca albornoziana sorgeva maestosa e imponente rispetto al paese sottostante, elegante eppure imprendibile, mirabilmente bella in mezzo ai lussureggianti monti umbri. Il Natale era alle porte e l'intero paesaggio era nascosto da una coltre di neve caduta solo pochi giorni prima, ancora soffice e invitante.
Cesare si strinse addosso il mantello e osservò il proprio alito che si condensava al contatto con il freddo. Vista da lì la rocca assumeva un aspetto fiabesco, con il mastio e le torri innevate, con il barbacane imbiancato e i merli candidi, e con un lieve sospiro volse lo sguardo al cielo carico di neve.
- Ne verrà giù ancora tanta. - commentò Michelotto seguendo il suo sguardo.
Cesare annuì, insofferente a quell'esilio e con la mano guantata accarezzò il collo del cavallo, ripensando con soddisfazione alla lettera che aveva spedito ai governatori di Siena. Il ricordo di quel dolce trionfo, che gli aveva spalancato le porte del potere, gli fece piegare le labbra in un sorriso e Michelotto se ne accorse.
- Sei felice? - domandò curioso.
L'interpellato girò lo sguardo verso quel suo coetaneo dal volto bello e ancora glabro e scosse la testa.
- Ripensavo alla lettera spedita ai governatori di Siena. -
- Ah, bella quella! - s'intromise Ramiro ridendo di gusto.
Gli altri due lo sfiorarono con lo sguardo e continuarono a cavalcare al passo, facendo meta verso la rocca.
- Ehi! - sbuffò Ramiro allargando le braccia. - Che ho detto mai? -
- La verità. - rispose Michelotto con un gesto di stizza.
- E allora? -
Michelotto e Cesare sorrisero e scossero la testa rassegnati.
- Guarda. - ammiccò Ramiro.
Lungo la strada, imbacuccate per sfuggire al freddo, alcune giovani contadine tornavano verso il borgo, parlottando e ridendo tra loro, in mano i cesti con la mercanzia comprata al mercato.
Senza fretta le raggiunsero e le sbirciarono attraverso i cappucci dei mantelli, trovandole graziose e interessanti.
- Buona giornata a voi, pulzelle. - iniziò Michelotto con tono mielato, chinandosi in segno di saluto.
Queste smisero di ridere e guardarono dal basso verso l'alto i tre cavalieri che le seguivano sulle rispettive cavalcature e una di loro diede una gomitata alla compagna, ammiccando verso Cesare. La ragazza arrossì riconoscendolo e s'inchinò, salutando a nome di tutte:
- Buona giornata a voi, Eccellenza. -
- La vostra beltà non finisce mai di stupirmi. - rispose Cesare, incantato dalla carnagione bianca e rosea della contadina.
- E la vostra gentilezza è un balsamo per le mie orecchie. -
- Un balsamo che non giunge però al vostro cuore. - la rimproverò dolcemente.
Lei chinò la testa, consapevole che non avrebbe resistito in eterno alla sua serrata corte.
Era da più di una settimana, ormai, che il giovane vescovo aveva messo gli occhi su quella ragazza semplice e timorata di Dio e memore dei consigli paterni, si era dedicato a farle una corte spietata, indirizzandole canzoni e componendo versi in suo onore. Ciò nonostante la ragazza non si era lasciata sedurre dalle parole e lui, da perfetto gentiluomo, aveva continuato a cantarne le lodi, esaltandone la fiera virtù e la verginea bellezza.
Con un gesto della mano la salutò, pienamente consapevole che presto avrebbe piegato la sua volontà e con i suoi due fidi continuò a cavalcare verso la rocca, la mente già rivolta ad altri pensieri.


Roma, marzo 1493
L'aria frizzantina dei primi giorni primaverili gli riportò alla mente la fanciullezza trascorsa nell'Urbe, accanto a sua madre Vannozza, a suo fratello Juan, alla piccola Lucrezia e al più piccolo Jofre, quando ancora vivevano tutti insieme nel palazzo di S. Maria in Selce, sotto la supervisione di Adriana Mila. L'odore di Roma lo inebriò e dopo quattro anni di assenza si accorse che il calore della famiglia gli era mancato e non vedeva l'ora di riabbracciare i suoi cari. Soprattutto suo padre, che lui aveva lasciato cardinale e che ora ritrovava papa.
- Questa è Roma? - s'informò Ramiro sgranando gli occhi dinanzi alla magnificenza della città.
Cesare sorrise allo stupore dei suoi due amici e continuò a cavalcare in silenzio. Nulla era cambiato: i meravigliosi ruderi della grande potenza imperiale si alternavano allo sfarzo dei palazzi signorili, residenza dei vari baroni che da secoli facevano il buono e il cattivo tempo, indifferenti al popolo che mendicava e moriva di stenti. Le strade consolari erano ancora le principali vie di comunicazione, mentre i vicoli erano dominio della feccia che si ritrovava nelle osterie a bere e a giocare, a litigare e a morire per un insulto. Roma era un fastello di contraddizioni che lasciava il romeo a bocca aperta, incapace di decidere se era più stupito per lo sfarzo o per la più nera povertà.
- Sì, questa è Roma. - rispose Cesare con un accenno di orgoglio nella voce. - Qui puoi vivere o morire e la dignità ecclesiastica e la nobiltà non ti salvano dagli assassini. -
Ramiro, che gli cavalcava accanto, si girò a guardarlo, prendendo nota della felicità che gli illuminava il volto e borbottò:
- È per questo che ci hai condotti con te? Per guardarti le spalle? -
Michelotto represse un moto di stizza e Cesare sfoderò un sorriso solare, uno di quelli che sciolgono il misantropo più incallito.
- Voi siete miei amici. E siete al mio servizio. - aggiunse con tono inequivocabile.
Lo spagnolo aprì bocca per replicare, quando incrociò lo sguardo omicida di Michelotto e la richiuse di scatto, rendendosi conto di essersi spinto troppo oltre.
In silenzio, scortati da alcuni soldati spagnoli e seguiti da Juanito Grasica e da Francesco, continuarono a cavalcare verso il Tevere, per superarlo e arrivare in Vaticano dopo il lungo viaggio.

Avvolta in un mantello nero, una figura alta e slanciata avanzava a passo sicuro, la mano destra posata sull'elsa del pugnale. Era pericoloso girare per le vie dell'Urbe dopo il tramonto: a ogni angolo, a ogni incrocio c'era il rischio di essere aggrediti, uccisi e derubati, quindi gettati nel Tevere, il più grande cimitero del tempo.
Ciò nonostante il giovane cavaliere non sembrava aver paura. Sotto il mantello indossava ricche vesti di broccato nero, guanti di velluto neri con grossi anelli d'oro, una collana d'oro e stivali di velluto sapientemente ricamati. Sul viso una maschera nera gli tagliava in due il volto affilato. Solo una minuscola chierica rivelava la sua posizione sociale: il meno episcopale dei vescovi di Santa Romana Chiesa.
Accanto a lui, come un'ombra scura, Michele Corella.
Giunto davanti al palazzo di S. Maria in Portico si fermò, gettò un'occhiata intorno, fece cenno a Michelotto di attenderlo e si intrufolò con facilità all'interno. Salì verso le camere private e si avvicinò con passo sicuro all'unica porta socchiusa.
La camera era inondata di luce e la ragazza osservava pensierosa gli abiti che le aveva portato Adriana Mila, cugina di Alessandro VI. Sembrava indecisa su quale scegliere e la sua espressione assorta la faceva somigliare a una donna in miniatura. Cesare rimase immobile sullo stipite a osservarla, bella come nessuna, con quei capelli biondi che si arricciavano come serpentelli, talmente lunghi da oltrepassare il girovita e scendere sulla gonna di broccato e velluto che indossava. Era cresciuta, senza dubbio, e presto si sarebbe sposata.
Il solo pensiero di perderla lo irrigidì e la mano posata sull'elsa del pugnale fece uno scatto che smosse il ferro, producendo un suono metallico che rivelò la sua presenza. Lucrezia si girò sussultando, gli occhi sgranati all'improvvisa apparizione. Per un lungo attimo parve incerta, quindi lo riconobbe e correndogli incontro esclamò:
- Cesare! -
Lui la strinse tra le braccia e la sollevò di peso, baciandola su una guancia prima di riposarla a terra.
- Se ti avessi immaginato così impegnata non sarei venuto. -
- Ma cosa dici? Quando sei arrivato? -
- Questo pomeriggio e non ho resistito a farti una visita. Ti trovo bene, sei diventata una donna. -
- Sembrerebbe di sì. Nostro padre ha intenzione di maritarmi presto. - mormorò toccandogli la maschera.
- Ho sentito. - rispose vagamente, ripensando a quando, ancora cardinale, Rodrigo l'aveva promessa sposa prima a don Juan Cherubin de Centelles e dopo due mesi a don Gaspare Procida.
Con l'elevazione al papato le cose erano cambiate: Lucrezia non avrebbe sposato un semplice spagnolo, bensì un vero principe, degno del rango che ora ricopriva.
- Di certo, l'uomo che ti impalmerà sarà molto fortunato e di sicuro invidiato. -
Lei sorrise al complimento e a Cesare parve la creatura più bella e dolce che avesse mai visto. Le accarezzò una guancia paffuta e lei socchiuse gli occhi, guardandolo con adorazione.
- Dimmi, Cesare: come hai trascorso questi anni? Ho saputo che hai conseguito la laurea prima del previsto. -
Lui si scostò e girò lo sguardo intorno alla camera, sontuosa come poteva essere quella di una regina. Per un attimo il suo pensiero volò a Perugia, dove aveva stretto amicizia con Giampaolo Baglioni, rampollo della potente e sanguinaria famiglia, e accarezzò con il pensiero le serate trascorse a corteggiare donne di ogni ceto sociale.
- Ne dubitavi? Ho battuto sul tempo Giovanni de' Medici, laureandomi prima di lui. Comunque sì, mi sono divertito, soprattutto alla corte dei Baglioni. Hanno una concezione della vita assolutamente fantastica. - aggiunse ripensando ai continui incesti che vi si svolgevano senza falsi pudori.
Lo stesso Giampaolo, in seguito, avrebbe condotto vita matrimoniale con una delle sorelle, del tutto indifferente al giudizio altrui.
- Ti ho portato molti doni. - continuò Cesare. - Uno è questo. -
Da una tasca tirò fuori un astuccio di velluto rosso e glielo porse con un inchino.
Lucrezia l'aprì, fissando il dono con quei sottili occhi a mandorla dal colore conturbante.
- Oh, Cesare! - mormorò commossa. - È magnifica! Come fai a sapere che adoro le perle? -
- Perché tu stessa sei una perla. Tuttavia questa collana non ti rende giustizia: niente è paragonabile alla tua bellezza. -
Lei sorrise con civetteria e indossò il gioiello volteggiando su se stessa.
- Credi sul serio che io sia bella? -
- Senza ombra di dubbio. -
- Grazie, Cesare. Sei sempre così gentile e premuroso. -
Con l'eleganza di un felino lui si abbandonò su un mucchietto di cuscini addossati a un angolo della stanza e rimase a lungo a contemplare la felicità dipinta sul volto di Lucrezia.
Se Adriana l'avesse sorpreso lì, in camera della sorella, l'avrebbe cacciato fuori in malo modo, creando uno scandalo dal gusto ipocrita. Ma lui e Lucrezia non avevano segreti l'uno per l'altra ed essendo cresciuti insieme non si facevano scrupoli nel frequentare le rispettive camere.
- Come stanno i nostri amati fratelli? - s'informò.
Lei arricciò il naso, perdendo un po' della felicità e rispose:
- Jofre si fa sempre più bello, anche se continua a essere timido e riservato. Juan è sempre più noioso. Ora non fa altro che stare con il principe Djem e veste alla turca come lui. Ma ti accorgerai ben presto che qui a Roma sono in molti a sfoggiare questa nuova moda. -
- Djem, il figlio del de cuius Mohammed II, che Allah lo abbia in gloria. - ripeté Cesare pensieroso.
A quel tempo sul trono turco sedeva Bajazet, primogenito del sultano Mohammed II e fratello di Djem. Temendo che questi potesse usurpargli il trono l'aveva esiliato e Djem era stato ospite di varie corti europee, approdando alla fine in Vaticano. Alessandro VI, che aveva visto nel ragazzo un'eventuale futura merce di scambio, non l'aveva ucciso come desiderava Bajazet, bensì aveva promesso di trattenerlo come ospite dietro adeguata ricompensa annua. Il sultano aveva accettato, ben contento di sborsare moneta sonante pur di tenere il fratello lontano dal suolo turco e dal suo trono.
- Sì, - continuò Cesare pensieroso, parlando a se stesso, - Sua Santità ha agito per il meglio non uccidendolo. In futuro Djem potrà essere una buona arma. -
- Non ti ci mettere anche tu, ora. - gemette Lucrezia imbronciata. - Non si fa altro che parlare di Djem e dei costumi turchi. -
- Hai ragione, dolce tesoro. Dimenticavo che i discorsi politici non ti sono mai piaciuti. -
Si alzò con agilità e le si avvicinò, prendendo in mano un lungo riccio biondo.
- Amatissima Lucrezia, ti lascio. La mia presenza qui, a quest'ora della notte, potrebbe dare adito a pettegolezzi futili, ma non per questo meno nocivi. -
- Così presto? - sussurrò querula.
- Tornerò per portarti gli altri doni. -
S'inchinò con un dolce sorriso, le posò un bacio sulle labbra e sparì così come era apparso.
MGL Valentini
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