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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
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Autore: MGL Valentini
Titolo: Agemina - I Roccagelata
Genere Romanzo Storico
Lettori 3556 37 56
Agemina - I Roccagelata
Perugia, estate 1294.
La giornata si annunciava calda e afosa come le ultime appena trascorse, a dispetto della leggera brezza mattutina che muoveva lieve le foglie sugli alberi carichi di frutti maturi. La vallata era smeraldina, punteggiata dai colori variopinti dei fiori che offrivano le loro delicate corolle ai raggi di Helio. Poco più in là si allungava una distesa imbiondita dal grano che i contadini, da alcune ore intenti al lavoro, stavano raccogliendo in covoni dorati. Il dolce cinguettio degli uccelli echeggiava melodioso, delicato intercalare al belare delle pecore nei campi e ai grugniti dei maiali nei recinti.
Alle prime luci dell'alba, subito dopo il primo canto del gallo, Jano Roccagelata aveva sospirato, alzandosi indolente dalla sedia. Si era strofinato gli occhi e aveva guardato il palazzo che assieme ai suoi uomini aveva piantonato tutta la notte.
Le torce accese alle pareti proiettavano ombre lunghe e ondeggianti, simili a mostruosi giganti mitologici, compagne di una nottata trascorsa all'insegna della paziente attesa dell'aurora.
- È finita anche stavolta. - fu il commento di un milite quando gli passò accanto per effettuare l'ultimo giro di ronda.
Jano annuì impercettibilmente: alla fine lui e i suoi uomini sarebbero potuti andare a riposare e a mettere qualcosa nello stomaco, appena il cambio della guardia fosse giunto.
Volse i suoi occhi ialini verso l'orizzonte dorato, sbadigliò stiracchiandosi e per una frazione di secondo rivide la scena vissuta alla fine di marzo di quell'anno.
Era giunto al seguito di Carlo II d'Angiò, detto lo Zoppo, e di suo figlio Carlo Martello, per premere sul conclave che, in via del tutto eccezionale, si teneva a Perugia.
Per Carlo II l'elezione del nuovo papa era diventata di primaria importanza da quando lo spagnolo Giacomo II d'Aragona aveva rinunciato al possesso della Sicilia. E lui, in quanto figlio di Carlo I d'Angiò, reclamante da tempo l'incoronazione a re di quella florida terra, non si era fatto scrupoli nel piombare all'improvviso nel conclave, provocando scompiglio. Senza esitazioni, aveva intimato ai porporati di sbrigarsi a scegliere un successore a Niccolò IV che potesse legalizzare la sua nomina a re di Sicilia.
Per tutta risposta, dopo il primo momento di smarrimento, i cardinali lo avevano ributtato fuori, facendogli notare senza mezzi termini che il conclave non poteva assolutamente essere disturbato fino all'elezione del nuovo pontefice.
Il re, allora, aveva urlato e sbraitato, ribattendo che la cattedra di Pietro era vacante già da due anni e che era giunta l'ora di colmare quell'imbarazzante vuoto che lasciava nell'oblio l'intera cristianità.
I porporati, capeggiati dal ferreo e risoluto Benedetto Caetani, non si erano lasciati intimidire: avevano buttato fuori il re e si erano di nuovo rinchiusi nella cosiddetta stanza delle adunanze, continuando il loro misterioso e sacro conclave.
Jano sentì i suoi uomini animarsi e si girò, tornando con la mente al presente, piegando gli angoli delle labbra alla vista delle guardie che venivano a dare loro il cambio. Dietro il sorriso di benvenuto nascose alla perfezione il sollievo che gli dava vederli e già pregustava il momento in cui sarebbe montato a cavallo per andare a riposare.
- Problemi? - domandò il capitano mentre si avvicinava in un tintinnio di lorica.
- Nessuno. - gli rispose con tono piatto.
Il capitano di Carlo II si grattò il mento pensieroso e osservò di sottecchi il palazzo.
Jano non disse nulla, giacché non c'era nulla da dire, perché tutti ormai pensavano la stessa cosa: dalla morte di Niccolò IV la sede papale era rimasta troppo a lungo vacante, nonostante i dodici cardinali elettori si fossero riuniti in alcune occasioni per eleggere il nuovo pontefice.
L'arrivo improvviso della peste li aveva costretti a rimandare sine die e nessuno ne poteva più di quell'interregno infinito. Ma i cardinali erano così divisi tra loro, politicamente ed economicamente, che non riuscivano a trovare un accordo che risultasse soddisfacente per tutte le parti schierate. E gli uomini di Carlo II si vedevano costretti a rimanere lì per assicurare il tranquillo svolgimento del conclave; in realtà per incutere, con la sola presenza, un po' di soggezione affinché si sbrigassero a eleggere il papa che avrebbe incoronato lo smanioso e scalpitante re di Napoli.
- Bene. Allora noi vi diamo il cambio. - annunciò il capitano con un sorriso forzato.
A quelle parole, Jano annuì e congedò i propri uomini, avviandosi poi a lunghe falcate verso le scuderie per prendere il cavallo. Desiderava solo dirigersi al palazzo dove alloggiava per riposarsi e rifocillarsi.
Il turno di notte era sempre un'incognita: o volava via tranquillo e al mattino eri ancora sufficientemente fresco, oppure diveniva un braccio di ferro tra soldati di una fazione e armigeri di un'altra, dove le mani seguivano spesso le parole più pesanti. Sedare una rissa era sempre un notevole dispendio di energie, perché non era sufficiente dividere i contendenti, ma occorreva rimanere allerta affinché non ricominciassero. Di tutti gli alleati di Carlo II, lui era l'unico blasonato che gradiva dividere gli oneri dei suoi uomini e trascorreva con loro i pesanti turni diurni e notturni, ricevendo la stima non solo dei propri soldati, ma anche di quelli al soldo degli altri nobili.
Lo scudiero avvertì il tintinnare della cotta in maglia che si avvicinava e un attimo dopo era già in piedi, uno sbadiglio che gli moriva in gola e le mani che stropicciavano gli occhi ancora assonnati.
- Hai i capelli pieni di fieno, Luchino. - l'avvertì Jano con indifferenza, mentre si avvicinava al cavallo.
Il ragazzino lo seguì come un automa, scuotendo la testa per svegliarsi, mentre passava una mano tra i capelli ricci per far cadere il fieno.
Montarono ognuno sulla propria cavalcatura e si avviarono lungo la strada ormai illuminata dal sole, diretti al palazzo che li ospitava.
Jano sbirciò appena il giovane scudiero e con la mente volò fino al feudo che suo padre, morendo due anni prima, gli aveva lasciato in eredità.
A dire il vero, una pesante eredità, poiché all'epoca contava appena sedici anni; tuttavia la peste non aveva avuto riguardi per la sua giovine età e senza scrupoli si era portata via il padre, Roffredo Roccagelata, costringendolo a prendere prematuramente in mano le redini della contea. Fortuna per lui che l'uomo più fidato di Roffredo, Vidicungo Sanfelice, lo avesse preso sotto la sua ala protettrice e lo avesse assistito in quell'onere gravoso, continuando a svolgere la mansione di siniscalco dopo avergli giurato fedeltà. E lo stesso avevano fatto i soldati e i cavalieri che un tempo avevano servito Roffredo, riversando in lui la medesima fiducia che avevano avuto nel padre. E se gli abitanti di Roccagelata gli erano fedeli fino alla morte, lo doveva unicamente al governo di giustizia che aveva instaurato suo padre anni addietro.
Durante l'adolescenza si era spesso domandato se, quando Iddio lo avesse voluto, fosse stato all'altezza di Roffredo, del suo senso di giustizia tipico degli Hohenstaufen. E aveva ricercato di continuo il consenso negli occhi dei suoi coetanei. Ma solo l'inopinata peste era riuscita a dargli la risposta che voleva: il suo popolo lo amava e lo sosteneva così come aveva amato e sostenuto suo padre. E lui si era ripromesso di essere sempre all'altezza di tale riconoscenza.
- Nottataccia, mio signore? - s'informò Luchino reprimendo uno sbadiglio.
Riportato al presente dalla domanda del ragazzino, Jano sbatté le palpebre e rispose asciutto:
- Non più del solito. -
Dal tono della voce, lo scudiero capì che era meglio non insistere e guardò il sole che si alzava pigro nel cielo, avvolgendo tutto nel suo calore, pronto a bruciare la terra e i volti dei contadini.

~

Il cardinale Pietro Colonna, diacono di Sant'Eustachio, fissò il nipote con evidente malcontento, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo che avrebbe voluto incenerirlo. Era già abbastanza indaffarato per affari suoi, senza che ci si mettesse pure lui a creargli grattacapi che rasentavano lo scandalo, riportandogli bruscamente alla mente, in modo fastidioso e insistente, che anche lui si concedeva molta licenza.
- Oggi torni da tuo padre. - intimò senza tanti preamboli, puntandogli l'indice minaccioso contro.
Braccio Colonna aprì la bocca per controbattere, ma un'occhiataccia di Ruggero Monteforte, suo scudiero e amico, lo ridusse al momentaneo silenzio.
- Da quando sei arrivato a Perugia, - riprese lo zio trattenendo a stento la collera, - non hai fatto altro che gettare fango sulla famiglia con il tuo modo di comportarti ed io non sono più disposto a tollerare che il figlio di mio cugino mi faccia illividire di vergogna dinanzi all'intero mondo cristiano. Pertanto, nel modo più discreto possibile, domani riprenderai la strada di casa insieme al tuo scudiero. - concluse portando l'attenzione su Ruggero con evidente disprezzo.
Questi abbassò gli occhi di fronte a quello sguardo da inquisitore e fissò il pavimento ricoperto di un soffice tappeto damascato, sperando che Braccio non peggiorasse ulteriormente la situazione combinandone una delle sue.
Il cardinale aveva ragione nell'affermare che avevano esagerato nel comportarsi con eccessiva superficialità, ma lui e Braccio amavano divertirsi e non si curavano molto delle conseguenze dei loro avventati gesti.
Anzi, a dir la verità, non se ne curavano affatto. Assalire, derubare e uccidere commercianti non lo reputavano un atto così spregevole come era ritenuto. Così come non giudicavano una colpa uccidere bambini, contadini e servi o stuprare le ragazze più attraenti, ritenendolo, quest'ultimo, solo un dovere delle donne verso il loro signore. Era il loro modo di trascorrere le giornate quando occorreva spezzare la noia.
E di noia, ultimamente, ce n'era a iosa.
- Vorrei farvi presente, - provò a spiegare Braccio con tracotanza, - che quel volgare contadino ha avuto l'ardire di bloccarmi la strada mentre... -
- Taci! - sibilò il cardinale reprimendo uno scatto nervoso, le narici dilatate nello sforzo di mantenere la calma.
Braccio serrò le labbra, contrariato, e scambiò un'occhiata con Ruggero.
Non capiva il putiferio che aveva innescato quando, la mattina prima, si era imbattuto in una famiglia di contadini che si recava al mercato per vendere la mercanzia e che, per un evidente malinteso, non si era spostata per lasciarlo passare. Ruggero, dall'alto del cavallo, si era limitato a tirare un calcio alla donna, facendola ruzzolare per terra. Braccio, invece, non ci aveva pensato due volte e, estratta la spada, aveva portato via la testa all'uomo, facendo gridare di paura tutti i presenti.
Inevitabile che la gente si fosse rivolta al borgomastro per reclamare e ottenere giustizia.
Tirato fuori dal conclave a furor di popolo, Pietro Colonna aveva ascoltato inamovibile le reiterate accuse rivolte al nipote da un borgomastro rosso di collera e inviperito. Altro non aveva potuto fare se non convocare il reo all'alba per ordinargli di lasciare immediatamente Perugia assieme al suo fido compare, onde evitare che il borgomastro chiamasse lo scabino per giudicarlo.
- Perdonatemi, zio, - insistette Braccio imperterrito, - ma quell'uomo... -
Con uno scatto inaspettato in un ministro della Chiesa, il giovane cardinale si avventò contro il nipote, i denti serrati e le narici dilatate e mostrando il pugno gli sibilò in faccia:
- Tu oggi te ne vai da Perugia. Se non lo fai, - aggiunse con tono stridulo, - mi vedrò costretto a mettere in moto la macchina della giustizia e non sarei così sicuro di farla franca per l'ennesima volta. -
La minaccia, anziché far breccia su Braccio, fece impallidire Ruggero, che scambiò l'ennesima occhiata con l'amico prima di riabbassare lo sguardo verso il tappeto. Se Braccio avesse aperto di nuovo bocca per giustificarsi, il cardinale li avrebbe condotti dal borgomastro senza tante cerimonie e nessuno stavolta li avrebbe salvati dal capestro. Inavvertitamente gli sfuggì un singulto che denunciava l'ansia mal repressa e stava per mettere mano alla spada che pendeva al fianco quando, con immensa meraviglia, vide l'amico inchinarsi e lo sentì dire, con tono da cherubino innocente:
- Perdonatemi, zio e beneditemi. Ho peccato e vorrei fare ammenda, dinanzi a voi e dinanzi a Dio, affinché non ricada più nelle grinfie del Maligno. -
Per un interminabile istante parve che nella stanza regnasse uno sbigottito stupore, mentre la fiammella delle candele si divertiva a creare mostruosi giochi d'ombra sui volti dei presenti.
La calura estiva faceva scendere rivoli di sudore dalle guance rotonde del cardinale, nonostante fosse appena l'alba, e a nulla serviva tenere le imposte aperte per far circolare l'aria. Se non fosse stato costretto dal conclave, il Colonna se ne sarebbe stato di sicuro in un luogo fresco, dove le consuete pestilenze estive non arrivavano; ma fino all'elezione del nuovo vicario di Cristo nessuno poteva allontanarsi, tanto meno i Colonna, avversari degli Orsini e dei Caetani, e lui sperava in cuor suo che tutto finisse presto per potersi meritare un degno riposo.
- Vuoi confessarti? - domandò e il tono stridulo non riuscì a mascherare l'incredulità.
Ruggero inghiottì di colpo la saliva e fissò di sottecchi l'amico, bello come un dio e altrettanto feroce e privo di scrupoli e si chiese se non fosse ammattito di colpo. Ma la luce che scaturiva da quegli occhi azzurri come lo zaffiro gli fece capire che a tutto pensava tranne che a redimersi.
- Potete farlo? - lo udì domandare candidamente.
Pietro Colonna strinse i pugni lungo i fianchi e fissò a lungo quel ragazzo che tante volte, da piccolo, aveva tenuto in braccio per vezzeggiarlo. Braccio gli ricordava in modo sgradevole il carattere facinoroso di suo fratello Sciarra.
Quel banale accostamento lo irrigidì, pensando che da un po' non aveva notizie di Sciarra a causa del conclave e si ritrovò a sperare che il fratello minore non si fosse messo di nuovo nei guai.
Con lo sguardo penetrante del falco fissò il viso impertinente del nipote e minacciò:
- Certo, tuttavia il tuo pentimento deve essere sincero. -
Braccio portò una mano sul cuore e chinò appena la testa dai lunghi ricci neri come le penne di un corvo e assicurò:
- Sincerissimo. -
Il cardinale spostò lo sguardo su Ruggero e senza neppure aprire bocca gli fece capire che doveva allontanarsi.
Questi esitò solo un attimo, quindi s'inchinò per baciare l'anello al dito del porporato, gli baciò la bocca e se ne andò, intimamente sollevato. Non avrebbe saputo dirlo, eppure il cardinale gli incuteva una fastidiosa sensazione di disagio, un certo timore reverenziale che lo indispettiva oltremisura e percepiva solo che più gli stava lontano, meglio era.
Rimase in attesa nella stanza attigua, immaginando l'amico nell'atto di confessare tutti i crimini di cui si era macchiato e un sogghigno gli sfiorò le labbra sottili. Che colpa potevano avere se contadini bifolchi non si spostavano per lasciar passare un cavaliere quando era un suo diritto? Che colpa avevano se amavano andare in cerca di donne e sfogare su di loro la bestialità che li animava e li spingeva ad atti che solo il Maligno poteva alitare nelle loro orecchie?
Dal canto suo, non si sentiva responsabile di ciò che faceva per divertirsi e se per una banalità ci scappava il morto, sapeva solo di essersi difeso. Se poi si fosse difeso da una donna o da un fanciullo era una mera sottigliezza, un cavillo di nessuna importanza.
Con un sospiro di rassegnazione all'attesa si avvicinò alla finestra e osservò lungo la strada, ancora silente e avvolta dall'alone dorato dell'aurora. Per un attimo ripensò al momento in cui aveva quasi messo mano alla spada e rabbrividì.
Rimase a lungo con la fronte appoggiata alla colonna al centro della bifora, fissando un punto indefinito della vallata, fin quando vide sopraggiungere un cavaliere accompagnato da uno scudiero mingherlino che sbadigliava vistosamente. Li vide arrivare con calma, come se avessero avuto tutto il tempo del mondo e la catafratta dell'uomo d'arme riluceva così tanto sotto i raggi del sole che lo costrinse a socchiudere gli occhi per non rimanere abbagliato. Il camaglio era abbassato sulle spalle e il cavaliere aveva la testa scoperta, privo di cuffia, e rivelava una lunga chioma bionda che gareggiava con il dorato dei covoni di grano.
Rimase a guardare attentamente, incuriosito, e quando transitò sotto la sua finestra trattenne il respiro: non aveva mai visto un cavaliere così bello e altero in vita sua.




Roccagelata, estate 1294
La campana annunciò a tutti i castellani che la cena era pronta e a frotte si riversarono nell'immenso salone dove troneggiava un imponente tavolo di quercia a forma di ferro di cavallo. Ne percorreva per tre quarti l'intero perimetro, lasciando libera la parete dove c'era l'entrata principale.
Dame, dignitari, cavalieri e preti: ognuno prese posto in un vociare confusionario, in un tintinnio di ferri e ferraglie varie.
Gelina si portò al centro del tavolo, così da avere alla sua destra e alla sua sinistra il resto del desco, di fronte l'entrata e alle spalle il camino che in quella stagione rimaneva spento. Attese che tutti fossero presenti, scambiando sorrisi con le dame, accarezzando i levrieri e i gatti, quindi si accomodò e ai suoi lati presero posto l'arcidiacono e il siniscalco.
Servi e ancelle iniziarono a portare le pietanze, comandati con discrezione dal castaldo, mentre tutti si zittivano in attesa della preghiera di ringraziamento.
Padre Alfio Maletta si alzò e intrattenne i commensali con un brevissimo sermone, dove ringraziò Dio e ricordò la virtù della carità e il vizio della gola. Al corale amen tutti si buttarono sulle vivande con modi famelici, con buona pace del prelato. I cavalieri si prodigarono nel tagliare il cibo alla dama al loro fianco, riservandole i pezzi più succosi e teneri, rimanendo attenti a non lasciarle mai il boccale vuoto: era un privilegio servire una dama, che a sua volta ricambiava di attenzioni il cavaliere fortunato.
Gelina mangiò in silenzio, prestando poca attenzione ai convitati che ridevano e scherzavano, allietati dai giocolieri che si esibivano al centro del salone, mentre drizzava le orecchie ai discorsi politici dell'arcidiacono e del siniscalco. Vociferavano di una futura impresa militare di Carlo II contro Giacomo II per il possesso della Sicilia e lei ascoltò con attenzione, nella speranza di avere notizie di suo fratello; ma nessuno ne sapeva più di Vidicungo.
Le mancava; Jano le mancava moltissimo.
Negli ultimi due anni era stato il pilastro, il sostegno della sua vita dopo la morte del loro padre; era stato colui che l'aveva comunque fatta sentire protetta e coccolata anche dopo la dipartita di Roffredo. E ora che le aveva lasciato l'incombenza di Roccagelata, si rendeva conto delle avversità alle quali lui aveva dovuto fare fronte da un giorno all'altro, beffato come tutti dall'arrivo della peste.
Per un attimo ricordò il giorno in cui Roffredo si era accorto di aver contratto la malattia e la fretta con la quale aveva pianificato tutto con Vidicungo per non lasciare i suoi due figli in balia degli eventi.
Con un sospiro si concentrò sulla cena, dedicando una preghiera alla memoria di suo padre.
Una delle sue dame di compagnia, Filomena, stava chiedendo al cantastorie di corte di narrare le gesta di Abelardo, un cavaliere senza macchia e senza paura che il menestrello si era inventato per allietare le serate.
Gelina ringraziò tra sé e sé l'amica che la distraeva dai problemi quotidiani e rimase incantata ad ascoltare Orso, il menestrello che narrava le gesta valorose del suo eroe.

~

Alina Orsini, Dorotea Appiano e Filomena Gorgiano, dame di compagnia di Gelina, la scrutarono di sottecchi mentre cucivano e ricamavano con maestria, ingrossando sempre più il corredo che ognuna di loro avrebbe portato in dote una volta sposata.
Da quando Jano era partito, Gelina era malinconica e inquieta, e si dedicava più volentieri a seguire l'economia del feudo che il ricamo o la filatura. Preferiva coadiuvare Vidicungo nelle sue mansioni di siniscalco, piuttosto che ascoltare i pettegolezzi di corte. Perfino gli indovinelli di Orso non la interessavano più, quando prima ne era ghiotta e ne chiedeva sempre al menestrello.
Sembrava come se l'incombenza del feudo le fosse ricaduta sulle spalle come un macigno e l'avesse schiacciata con tutto il suo fardello di responsabilità.
- Avete saputo dei banditi? - iniziò Filomena con aria circospetta, per rompere il silenzio.
Dorotea distolse l'attenzione dal ricamo e osservò con cautela la ragazza.
- Cos'è accaduto? - domandò preoccupata.
- Nulla che il tuo Ettore già non sappia. - rispose Filomena scuotendo il capo circondato dal soggolo.
- E dunque? - volle sapere.
Non era un segreto che la dolce Dorotea, giovane vedova, palpitasse per uno dei cavalieri di Jano, Ettore Malatesta, e che sperasse che il ragazzo si decidesse a chiederla in moglie prima di diventare vecchia. Ma Ettore era tanto timido con le donne quanto spietato nelle battaglie e nei tornei, e a tutto pensava fuorché a metter su famiglia, lasciando sospirare tristemente la bella Dorotea.
Filomena si chinò un po' in avanti, temendo orecchie indiscrete, imitata dalle altre che trepidavano per sapere, e sussurrò come se fosse un segreto:
- Si sono rifatti vivi, nei boschi. Hanno assalito una famiglia di commercianti e li hanno uccisi per appropriarsi della mercanzia. -
- Uccisi?! - esclamò Alina e subito dopo urlò per essersi punta con l'ago.
Lo sgomento regnò per la stanza e tutte e quattro smisero di ricamare, guardandosi l'un l'altra con la bocca aperta per lo stupore.
La luce del sole che filtrava dalla trifora rendeva la stanza luminosa ma calda e il polline riluceva inglobato dai raggi che illuminavano le pietre del pavimento ricoperto di paglia fresca.
- Non qui a Roccagelata. - rilevò Gelina. - Vidicungo me ne avrebbe parlato. -
- No, non qui, ma molto vicino. - ribatté Filomena con cognizione di causa.
- E tu come lo sai? - domandò Alina dubbiosa, recuperando la sua solita freddezza, succhiando il sangue dal dito punto.
L'interpellata arricciò il naso, sorrise e rimase in silenzio, per aumentare il mistero, fin quando Gelina le intimò di parlare.
- L'ho saputo da Orso. - rispose infine con le guance improvvisamente erubescenti.
- Oooh! - esclamò Dorotea liquidando la faccenda con un vago gesto della mano. - Ettore non mi ha detto nulla. -
- Questo non significa che non sia vero. - puntualizzò Filomena come se fosse stata personalmente offesa.
- Ritieni che un menestrello ne sappia più di un cavaliere? - domandò Alina sorridendo.
- Orso è molto bravo nel raccontare storie. - convenne Gelina trattenendo il riso per non offendere l'amica.
Filomena rimase per un attimo interdetta, comprendendo che non le credevano e con un'alzata di spalle tornò a ricamare, chiudendosi in un prolungato mutismo.
Le altre si scambiarono un'occhiata, mentre dalla trifora arrivavano i rumori della piazza d'arme, dove c'era tramestio di servi, scudieri e di bambini che si divertivano a rincorrere oche, galline, maiali e capre.
Gelina si alzò dalla sedia e si affacciò per farsi abbracciare dai caldi raggi solari, mentre le sue dame riprendevano a parlottare e a riferire di pettegolezzi vari. Si domandò se Orso avesse raccontato una storia o se veramente i banditi fossero tornati e l'unico modo per scoprirlo era chiedere al siniscalco.
Portò una mano sul petto e chiuse gli occhi, pregando mentalmente per il ritorno di Jano. Era partito all'inizio dell'anno, con quasi tutti gli uomini d'arme del feudo per militare al soldo dello Zoppo e poter creare alleanze che potessero aiutarli in futuro, poiché Roccagelata non era una grossa contea ed era di vitale importanza avere amici potenti.
All'inizio, quando il fratello le aveva annunciato la partenza e le aveva rimesso nelle mani l'economia del feudo, si era sentita eccitata all'idea di comandare e di fare le sue veci; in seguito, affiancata da Vidicungo, si era resa conto che, tutto sommato, il potere logorava e non le lasciava condurre una vita tranquilla. All'improvviso, dopo più di sei mesi di reggenza, si ritrovava a rimpiangere i momenti di spensierata allegria trascorsi con Orso e con le sue dame, e l'idea di dover continuare a fare le veci di Jano per un tempo indefinito la sgomentava.
Un'ancella bussò alla porta ed entrò portando un vassoio con una brocca di vino e frutta, distogliendo Gelina dalle sue riflessioni.
La giovane signora raddrizzò la schiena e tornò alla sedia, riprendendo in mano il lavoro, ripromettendosi di incontrare Vidicungo al più presto e nel frattempo sorrise alle sue amiche, ascoltando i pettegolezzi che tenevano banco.
MGL Valentini
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